Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21815 del 28/10/2016


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Cassazione civile sez. trib., 28/10/2016, (ud. 06/07/2016, dep. 28/10/2016), n.21815

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14849-2014 proposto da:

D.R.S., elettivamente domiciliata in ROMA VIA TERENZIO

7, presso lo STUDIO ABBAMONTE, rappresentata e difesa dall’avvocato

LUISA ACAMPORA giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE;

– intimato –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 27895/2013 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 13/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO MARIA STALLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato ACAMPORA che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO LUIGI che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

revocazione nel merito inammissibilità.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO

D.R.S. ricorre, ex art. 391 bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4) per la revocazione della sentenza n. 27895/13 con la quale questa corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso (n. 20308/08) da lei proposto avverso la sentenza della commissione tributaria regionale di Bari n. 32/14/07 del 22 giugno 2007, affermativa della legittimità di un avviso di accertamento di maggior valore notificatole, unitamente ad altri soggetti, per Invim 1992.

Con la sentenza oggetto di revocazione, in particolare, la corte di legittimità ha rilevato che la proposizione del ricorso da parte della D. era preclusa, avendo quest’ultima proposto contro la stessa sentenza della CTR, unitamente ad altri litisconsorti, un altro ricorso per cassazione (n. 23034/08), già dichiarato inammissibile con sentenza n. 27571/09, e consumativo del diritto di impugnazione.

Contrariamente a tale assunto, sostiene la ricorrente, quest’ultimo ricorso (n. 23034/08) pur recando per errore il suo nominativo nell’epigrafe, era stato in realtà proposto unicamente dagli altri contribuenti raggiunti dall’avviso di accertamento, ma senza conferimento da parte sua di alcuna procura difensiva; da ciò derivava che il suo diritto di impugnazione non poteva ritenersi consumato se non proprio in forza del ricorso (n. 20308/08) – del resto depositato e notificato, da parte di un diverso studio legale, prima dell’altro – erroneamente dichiarato inammissibile dalla corte di cassazione.

La D. ripropone inoltre, in fase rescissoria, cinque motivi di ricorso per la cassazione della suddetta sentenza della commissione tributaria regionale di Bari.

L’agenzia delle entrate ha dichiarato di costituirsi al solo fine dell’eventuale partecipazione alla discussione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 1. Il ricorso per revocazione, nella sua parte rescindente, è fondato.

La pronuncia di inammissibilità del ricorso n. 20308/08 si basa infatti esclusivamente sulla ravvisata consumazione del diritto di impugnazione in capo alla D. per effetto della proposizione, da parte di quest’ultima, di altro ricorso (n. 23034/08, giudicato anch’esso inammissibile per difetto di autosufficienza dei motivi e per inidoneità dei quesiti in fatto e diritto) avverso la stessa sentenza CTR Bari.

Questa decisione risulta affetta da un tipico errore di natura percettiva incidente sulla individuazione delle parti ricorrenti nel ricorso da ultimo citato, dal momento che quest’ultimo, pur recando il nominativo della odierna ricorrente nell’intestazione o epigrafe, era stato in realtà proposto da difensori sprovvisti di procura alle liti da parte della D.; la quale, per contro, aveva affidato ad altro studio legale la propria difesa, come anzi già espletata mediante l’autonoma proposizione di un (precedente) ricorso per cassazione (quello oggetto del presente giudizio), al quale soltanto poteva ricondursi l’effetto consumativo dell’impugnazione.

Orbene, l’errore revocatorio di cui all’art. 395 cod. proc. civ., n. 4 si concreta nella falsa percezione e rappresentazione di un fatto che può essere di natura tanto sostanziale quanto processuale.

Esso ha riguardo, nel primo caso, ad un evento o circostanza storica e, nel secondo, all’eventualità ed alle modalità della sua introduzione in giudizio.

Ciò è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale, ad esempio, ha natura revocatoria l’errore sul fatto processuale – non derivante da una previa attività valutativa – che si sia risolto nella indebita affermazione o esclusione dell’avvenuta proposizione di una domanda nel giudizio (Cass. 6881/14; Cass. 27555/11; Cass. 12958/11).

Naturalmente, anche l’errore sul fatto processuale – per avere rilevanza revocatoria – deve emergere dagli atti di causa e risultare decisivo, il che si riscontra quando vi sia nesso causale (in senso non storico, ma logico-giuridico) tra l’erronea supposizione e la decisione resa; posto che “non si tratta di stabilire se il giudice autore del provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l’errore di fatto, bensì di stabilire se la decisione della causa sarebbe dovuta essere diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità logico-giuridica” (Cass. 3935/09; così, nn. 6038/16, 6881/14).

Applicando questi principi nel caso specifico, l’errore revocatorio è attestato dall’affermazione della sentenza di legittimità in esame, secondo cui: “avverso la medesima sentenza la ricorrente risulta aver proposto un altro ricorso, unitamente ai litisconsorti D.U.R., D.D. e D.F.”; affermazione dalla quale è discesa la decisione di inammissibilità del ricorso, in applicazione del principio per cui “la rituale proposizione del ricorso per cassazione determina la consumazione del diritto di impugnazione (…)”.

In esito ad una diversa rappresentazione della realtà processuale (nella specie ostacolata dalla mancata riunione dei ricorsi), in definitiva, doveva emergere come l’unico ricorso per cassazione proposto dalla D. contro la sentenza della commissione tributaria regionale di Bari in oggetto fosse proprio quello iscritto al n. 20308/08, non essendo ad essa riferibile I’ impugnazione separatamente e successivamente proposta dagli altri contribuenti parimenti raggiunti dall’avviso di accertamento.

La sentenza di questa corte n. 27895/13 va dunque revocata.

p. 2.1 Venendo ora alla fase rescissoria, la D. lamenta, con il primo motivo di ricorso, violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nn. 2 e 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; per avere la commissione tributaria regionale reputato legittimo l’avviso di accertamento Invim in questione nonostante che esso non recasse motivazione sui criteri di stima del terreno, nè elementi di comparazione con terreni aventi le stesse caratteristiche di quello compravenduto. Il motivo viene corredato, ex art. 366 bis c.p.c. qui applicabile ratione temporis, del seguente quesito di diritto: “dica la corte di cassazione se nella specie siano state violate o meno dalla commissione tributaria regionale di Bari le norme dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nn. 2 e 3”.

Questo motivo è inammissibile per almeno due ragioni.

La prima attiene al fatto che la commissione tributaria regionale ha valutato la motivazione dell’atto impositivo, ritenendola congrua sulla base della stima UTE (sinteticamente riportata nelle parti essenziali dell’avviso di accertamento, e messa a disposizione dei contribuenti) e della mancanza, agli atti di causa, di elementi valutativi di segno contrario. In tale contesto – connotato da sufficiente motivazione del giudice di merito sui requisiti essenziali della motivazione dell’avviso di accertamento – non vi può essere spazio per una censura erroneamente e contraddittoriamente articolata – sub art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – sull’omessa pronuncia ovvero sull’omessa motivazione nella sentenza.

La seconda attiene al fatto che il motivo in questione è, comunque, assistito da un quesito di diritto (prescritto dalla legge, a pena di inammissibilità, anche per le doglianze aventi ad oggetto errores in procedendo) non conforme al modello legale di cui al citato art. 366 bis. Basta infatti considerare come esso non faccia che riprodurre pedissequamente la “rubrica” del motivo, sottoponendo alla corte – in maniera del tutto astratta perchè svincolata dalla concretezza della fattispecie e, segnatamente, dalle ragioni che dovrebbero indurre a ravvisare nella specie la paventata violazione normativa – un mero vaglio di osservanza delle prescrizioni indicate.

E’ orientamento ormai pacifico (ex multis, Cass. 19 novembre 2013 n. 25903) che, nel vigore dell’art. 366 bis cit., ciascun motivo di ricorso sussumibile ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. da 1 a 4 debba concludersi con un quesito di diritto che espliciti una sintesi logico-giuridica della controversia; cosi da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula juris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Il quesito di diritto, più in particolare, deve compendiare (sent.cit.): “a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito (siccome da questi ritenuti per veri, altrimenti mancando la critica di pertinenza alla ratio decidendi della sentenza impugnata); b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie”.

Nulla di tutto ciò è dato qui di riscontrare.

p. 2.2 Con il secondo motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 2699 cod. civ., per avere la commissione tributaria regionale basato il proprio convincimento sul fatto che l’accertamento UTE avesse efficacia di piena prova, in quanto atto pubblico, non soltanto in ordine alla sua provenienza dall’amministrazione finanziaria, ma anche al suo contenuto estimativo. Il quesito di diritto è del seguente tenore: “dica la corte di cassazione se la stima UTE nella specie prodotta in sede di gravame dall’ufficio finanziario, trovandosi questo sullo stesso piano del contribuente privato, abbia o meno valore solo quale semplice perizia di parte, assistita dal valore di atto pubblico solo per quanto attiene alla provenienza, non per quel che riguarda il contenuto”.

Nemmeno questa doglianza può trovare accoglimento.

Rilevano anche qui la genericità e l’astrattezza del quesito di diritto, riferito ad un interrogativo di natura puramente teorica, che non si fa carico della concretezza e peculiarità di una fattispecie processuale nella quale la commissione di merito – pur all’esito di una motivazione non del tutto lineare (e tuttavia non impugnata sotto questo profilo) – non ha affatto mostrato di violare il principio di diritto, effettivamente condivisibile, sostenuto dalla ricorrente.

Ciò perchè il convincimento della commissione tributaria regionale sulla congruità del maggior valore accertato non è dipeso dalla “autorità” di atto pubblico attribuibile alla stima UTE ex artt. 2699 segg. cod. civ., bensì dal fatto che l’ufficio avesse “esaurientemente spiegato come essa è stata redatta ed i valori in essi riportati, che questo collegio ritiene corretti e convincenti”.

Solo all’esito (significativo, in proposito, è l’uso della locuzione congiuntiva consequenziale “per cui”) di un’autonoma ed originale valutazione dei criteri di stima, in definitiva, la commissione tributaria regionale è giunta ad affermare che l’efficacia probatoria della stima UTE in oggetto doveva, nel caso specifico, estendersi non soltanto alla provenienza ma anche al suo contenuto. E ciò anche in ragione della circostanza che i valori indicati dall’amministrazione finanziaria, pur potendo essere smentiti da opposte risultanze estimative fornite dal contribuente, non erano “stati contestati nei loro valori con altra stima tecnica della controparte”.

Lungi da violare le regole sull’onere e sulla valutazione probatoria, la commissione regionale ha dunque fondato il proprio convincimento sulla stima UTE non perchè facente, ex lege, piena prova del suo contenuto valutativo ma perchè, all’esito degli argomenti dedotti in giudizio dall’ufficio e della ritenuta assenza di convincenti elementi valutativi di segno contrario, essa doveva ritenersi congrua. Conclusione, quest’ultima, concretante un tipico convincimento di merito, qui insindacabile, che non ha violato la regola denunciata.

p. 2.3 Con il terzo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52 dal momento che la stima UTE in questione recava elementi insufficienti ed inadeguati a sostenere il maggior valore accertato ai fini Invim; anche perchè riferita ad aree edificabili ed urbanizzate, mentre l’area oggetto della compravendita non rivestiva, quantomeno all’attualità, tali caratteristiche. Il quesito di diritto è così formulato: “dica la corte se nella specie le risultanze sulla stima UTE considerate dalla CTR, a prescindere da quanto già in precedenza dedotto, siano sufficienti per rettificare il valore della compravendita in esame; siano cioè sufficienti per confermare l’avviso di accertamento in riforma della sentenza di primo grado”.

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio; appunto insito nella congruità della valutazione estimativa resa dalla commissione regionale: “dica la corte se la commissione tributaria regionale di Bari non motivando intorno al detto fatto, che sarebbe potuto essere decisivo se valutato, abbia dato o non la dimostrazione di essersene sufficientemente occupata”.

Questi due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria per la loro complementarietà, sono infondati.

A parte ogni considerazione sulla inidoneità dei quesiti appena riportati (la cui conformità al modello legale è prescritta, sotto forma di “quesito di fatto” o “momento di sintesi”, anche per la deduzione di vizio motivazionale), rileva che è comunque preclusa a questa corte di legittimità la rivisitazione di una tipica circostanza fattuale qual è quella della stima del terreno; così come le è preclusa ogni valutazione circa l’obiettiva “sufficienza” degli elementi istruttori conseguiti “a rettificare il valore della compravendita in esame”.

Quanto poi, alla doglianza motivazionale propriamente detta, il motivo difetta anche di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., n. 6); non avendo la ricorrente riportato nel motivo, nè meglio esplicitato nella loro articolazione e deduzione in giudizio, quali argomenti difensivi ed elementi probatori di parte fossero stati introdotti nel contraddittorio e non presi in esame dal giudice di merito. Specificazione, quest’ultima, tanto più necessaria alla luce del principio per cui il giudice di merito, una volta sinteticamente esplicitate le fonti probatorie e le ragioni in fatto e diritto del proprio convincimento, non è tenuto a confutare nè a dare conto di tutte le diverse deduzioni o controdeduzioni di parte (da ritenersi implicitamente disattese), nè di tutti indistintamente gli elementi istruttori conseguiti (ex multis: Cass. ord. 25509/14; 8294/11; 14972/06).

p. 3. Con il quinto motivo di ricorso si assume violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15 per avere la commissione regionale condannato essa appellata alle spese del doppio grado di giudizio, nonostante che l’agenzia delle entrate non avesse associato alla richiesta di condanna alle spese altresì la “nota-spese” ex art. 75 disp. att. c.p.c..

Il motivo è inammissibile sotto un duplice aspetto.

Il primo è che esso non è assistito dal prescritto quesito di diritto.

Il secondo attiene al fatto che dalla sua formulazione non può evincersi una doglianza rispondente ad un effettivo e sostanziale pregiudizio della parte; la quale si è limitata a far valere l’irregolarità costituita dalla mancata allegazione della nota-spese, senza al contempo lamentare nè l’insussistenza nella specie dei presupposti di accollo delle spese stesse secondo il criterio generale di soccombenza, nè la difformità del quantum liquidato dai limiti tabellari; rilievo, quest’ultimo, possibile sulla base delle tariffe professionali all’epoca vigenti, ed anche indipendentemente dalla materiale allegazione della nota-spese.

In definitiva, si accoglie il ricorso per revocazione e conseguentemente si revoca la sentenza della corte di cassazione n. 27895/13; decidendo in fase rescissoria, si respinge il ricorso per cassazione proposto dalla D..

Le spese di lite vengono compensate in ragione della natura della controversia, del differente esito delle due fasi nelle quali il giudizio si è articolato e, in ultimo, del mancato espletamento di attività difensiva da parte dell’amministrazione finanziaria.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il ricorso e conseguentemente revoca la sentenza della corte di cassazione n. 27895/13;

decidendo in fase rescissoria, respinge il ricorso per cassazione proposto da D.R.S. avverso la sentenza CTR Bari n. 32/14/2007;

compensa le spese di lite;

dà atto della non-sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 6 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 ottobre 2016

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