Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21803 del 15/10/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 21803 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: TRICOMI IRENE

ORDINANZA
sul ricorso 9645-2012 proposto da:
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI in
persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope
legis;
– ricorrente contro
MASI MASSIMILIANO;
– intimato avverso la sentenza n. 1459/2011 della CORTE D’APPELLO di
TORINO del 7.12.2011, dersitata il 19/12/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
15/07/2014 dal Consigliere Relatore Dott. IRENE TRICOMI.

Data pubblicazione: 15/10/2014

FATTO E DIRITTO
Atteso che e’ stata depositata relazione del seguente contenuto.
«Masi Massimiliano adiva il Tribunale di Novara per sentir dichiarare la non
riassorbibilità dell’assegno ad personam riconosciuto allo stesso al momento del
passaggio alle dipendenze del Ministero delle infrastrutture e trasporti, con conseguente
condanna al pagamento delle differenze tra il trattamento economico goduto presso
l’Agenzia del Demanio e quello previsto presso il Ministero infrastrutture trasporti.
Il Tribunale accoglieva la domanda ai sensi dell’art. 3, comma 57 e 58 della
legge n. 537 del 1993.
La Corte d’Appello, decidendo sull’impugnazione proposta dal Ministero, che
invocava l’art. 2,comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001.
La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1459/11, rigettava l’appello
proposto dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nei confronti di Masi
Massimiliano, avverso la suddetta sentenza del Tribunale di Novara in data 22
novembre 2010.
Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il Ministero
prospettando con un motivo di ricorso, la violazione dell’art. 3, commi 57 e 58 della
legge n. 537 del 1993 e dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, in relazione
all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc.
L’intimato non ha svolto difese.
Preliminarmente va rilevato che nel ricorso veniva indicato come intimato
Massimiliano Masiarello Valter corretto a penna, apparentemente senza sigle (Masi
Massimiliano). La notificazione del ricorso a mezzo posta era, tuttavia indirizzata a
Massimiliano Masi.
Si pone, pertanto in via preliminare una questione di inammissibilità del ricorso.
Circa il merito della controversia occorre ricordare i seguenti principi affermati
dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 5959 del 2012).
Il ricorrente in primo grado dipendente della PA presso l’Agenzia del Demanio
esercitava il diritto di opzione ex art. 3 del d.lvo 173 del 2003 e veniva trasferito al
Ministero ricorrente con l’attribuzione di assegno ad personam.
Lo stesso adiva il Tribunale per l’accertamento che detto assegno non era
riassorbibile.
Tale prospettazione accolta dal Tribunale confermata dalla Corte d’Appello,
fondata sulla base della legge 24 dicembre 1993, n. 537, art. 3, commi 57 e 58, da cui
desume che gli assegni personali in argomento risultano “non cumulabili con indennità
fisse o continuative spettanti nella posizione di arrivo, se non per la parte eventualmente
eccedente” come stabilito, nella specie, originariamente, con riguardo al rapporto tra la
indennità di agenzia e l’indennità di amministrazione, come prospettato dal Ministero
con l’odierna impugnazione non può essere condivisa.
1) Il suddetto comma 57, stabilisce che: “Nei casi di passaggio di carriera di cui
all’art. 202 del citato testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle
altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile
superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale
pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o
retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella
nuova posizione”, mentre in base al successivo comma 58: “L’assegno personale di cui
al comma 57 non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non
pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente
eccedente”;
i

2) il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 202, così si esprime: “Nel caso di
passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con
stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno
personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo,
salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera
anche se semplicemente economica”;
3) la legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. unico, comma 226, – di cui la Corte
territoriale non tiene conto – con una norma interpretativa stabilisce che: “la L. 24
dicembre 1993, n. 537, art. 3, comma 57, nei confronti del personale dipendente, si
interpreta nel senso che alla determinazione dell’assegno personale non riassorbibile e
non rivalutabile concorre il trattamento, fisso e continuativo, con esclusione della
retribuzione di risultato e di altre voci retributive comunque collegate al raggiungimento
di specifici risultati o obiettivi”;
4) il suddetto comma 226, se dimostra la persistente vigenza della norma
interpretata (diversamente da quanto sostenuto dall’attuale ricorrente), ne chiarisce
anche la portata precettiva in senso restrittivo disponendo che per la determinazione
dell’assegno in oggetto si deve tenere conto di tutti gli elementi retributivi fissi e
continuativi, mentre non vanno presi in considerazione gli elementi retributivi premiali
connessi ai risultati (da ultimo: Cass. 12 marzo 2012, n. 3865);
5) alla suddetta norma interpretativa (che è intervenuta dopo più di un decennio
dall’entrata in vigore della norma interpretata) è stato attribuito molto risalto nella
giurisprudenza sia di questa Corte sia amministrativa e si è sottolineato che la scelta di
senso con essa perseguita si è dimostrata in perfetta linea con la soluzione ermeneutica
da sempre adottata, con pronunce anche remote, dal Giudice amministrativo (munito
all’epoca della giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di lavoro pubblico),
nelle quali si è affermato che il divieto di reformatio in pejus risponde alla finalità di
non ostacolare la mobilità del personale impiegatizio o di agevolarne la progressione in
carriera mediante “l’eliminazione degli ostacoli di ordine economico che potrebbero
spiegare effetti disincentivanti (D.P.R. 11 gennaio 1956, n. 19, art. 1, comma 6; D.P.R.
5 giugno 1965, n. 749, art. 30; D.P.R. n. 1079 del 1970, art. 1, comma 5) e che è
appunto in ragione della indicata finalità che al concetto di “retribuzione” deve essere
attribuito un significato restrittivo, sì da comprendervi il solo stipendio tabellare e le
“voci retributive” di carattere fisso e continuativo, con esclusione degli emolumenti
variabili e/o provvisori, sui quali per il loro essenziale carattere di precarietà e
accidentalità, il dipendente non abbia ragione di riporre affidamento quali fonti di
stabile e duraturo sostentamento per i bisogni usuali della vita” (Cons. Stato, sez. 4^, 18
dicembre 1986, n. 861, nonché, fra le tante: Cons. Stato, sez. 4^, 20 ottobre 1999, n.
1501 e 3 novembre 2008, n. 5473; Cons. giust. amm, Sicilia, 18 agosto 2010, n. 1119;
Cass. 13 aprile 2006, n. 8693; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449; Cass. 13 settembre 2006,
n. 19564);
6) conseguentemente, nella giurisprudenza di questa Corte può dirsi ormai
consolidato il condiviso orientamento secondo cui, nell’ambito del lavoro pubblico, nel
caso di passaggio da una Amministrazione ad un’altra è assicurata – in mancanza di
disposizioni speciali – la continuità giuridica del rapporto di lavoro e il mantenimento
del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l’ente
di destinazione, opera nell’ambito della regola del riassorbimento degli assegni ad
personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in pejus del trattamento
economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento
economico riconosciuti per effetto del trasferimento, secondo quanto risulta
argomentando dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 34, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del
2

1998, art. 19, (ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31), che richiama le regole dettate
dall’art. 2112 c.c., (Cass. 16 giugno 2005, n. 12956; Cass. 13 aprile 2006, n. 8693; Cass.
11 aprile 2006, n. 8389; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449; Cass. 8 gennaio 2007, n. 55;
Cass. 2 febbraio 2007, n. 2265; Cass. 29 marzo 2010, n. 7520; Cass. 19 novembre 2010,
n. 23474; Cass. 2 marzo 2011, n. 5097);
7) non è dubbio, quindi, che il criterio generale del riassorbimento debba operare
in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti
del Amministrazione di arrivo (come disposto nei provvedimenti da cui ha avuto origine
il presente giudizio) e non con riferimento a singole voci che compongono tale
trattamento economico (come originariamente disposto, nella specie, con riguardo ai
soli incrementi dell’indennità di amministrazione), in quanto solo il primo sistema di
riassorbimento, oltre a non essere in contrasto con le disposizioni legislative di cui
finora si è detto, è conforme al principio di cui all’art. 36 Cost., come costantemente
interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, nel senso che il principio della
“proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione va riferito non già alle sue singole
componenti, ma alla globalità di essa” (vedi, per tutte: Corte cost. sentenze n. 141 del
1979; n. 470 del 2002; n. 434 del 2005) e quindi alle singole voci che compongono la
retribuzione non può essere attribuito autonomo rilievo, a meno che ciò sia
espressamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, il che nella specie
non accade.
Da quanto fin qui osservato si desume che fa Corte territoriale non ha
considerato che – a partire dal punto di vista oggettivo – la pretesa dei ricorrenti non può
essere accolta perché essa in realtà di sostanzia nel volere – in assenza di una apposita
normativa derogatoria – preservare dal meccanismo del riassorbimento negli aumenti di
trattamento economico complessivo dei dipendenti del Ministero (collegando il
riassorbimento stesso soltanto agli incrementi dell’indennità di amministrazione)
l’assegno ad personam corrisposto per l’eccedenza tra l’importo dell’indennità di
agenzia (di cui il Masi godeva presso l’Agenzia del demanio) e quello dell’indennità di
amministrazione suddetta. Ma una simile richiesta, dal suddetto punto di vista, si pone
in contrasto radicale con il quadro normativo di riferimento correttamente ricostruito,
perché le due indennità considerate (che hanno natura analoga, come si desume dal
c.c.n.l. 28 maggio 2004 relativo al personale del Comparto delle Agenzie fiscali, in base
al quale l’indennità di agenzia è voce del salario accessorio, sostitutiva dell’indennità
amministrativa) sono, come più volte precisato da questa Corte (Cass. SU 13 luglio
2005, n. 14698; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564), emolumenti corrisposti per dodici
mensilità, con carattere di generalità e natura fissa e ricorrente. Il carattere di generalità
dice che esse devono essere corrisposte a tutti i dipendenti rispettivamente, dell’Agenzia
fiscale e del Ministero), la natura ricorrente dice che devono essere corrisposte con la
medesima cadenza temporale, mentre la natura fissa significa che esse sono parametrate
a criteri oggetti vi di determinazione. Esse, quindi, non sono “voci retributive comunque
collegate al raggiungimento di specifici risultati o obiettivi”, ai sensi e per gli effetti di
cui alla L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, e quindi non sono emolumenti ai quali
viene attribuito autonomo rilievo, ai fini che qui interessano.
Vanno altresì considerati i limiti soggettivi di applicazione della suddetta
disciplina, quali ripetutamente delineati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte
e dalla giurisprudenza amministrativa, e che portano ad escluderne l’applicabilità
nell’attuale fattispecie.
In base al suddetto orientamento ermeneutico – che ha preso le mosse da quanto
ritenuto dall’assolutamente prevalente giurisprudenza del Giudice amministrativo,
munito all’epoca di giurisdizione esclusiva sulle controversie di lavoro pubblico (vedi,
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per tutte, Cons. Stato, Ad. plen, 16 marzo 1992, n. 8) – il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 202,
non è espressione di un principio generale anplicabile indistintamente a tutti i

dipendenti pubblici, dovendosi interpretare la norma nel senso che la disciplina relativa
all’assegno ad personam , utile a pensione, attribuibile agli impiegati con stipendio
superiore a quello spettante nella nuova posizione lavorativa, concerne esclusivamente i
casi di passaggio di carriera presso la stessa Amministrazione statale o anche diversa
amministrazione, purché statale, non anche i passaggi nell’ambito di Amministrazione
non statale, ovvero tra diverse Amministrazioni non statali o da una di esse allo Stato e
viceversa.
Infatti – come precisato in particolare da Cass. 8 maggio 2006, n. 10449 e da Cass. 29
luglio 2009, n. 17645 – la suddetta norma risponde alla precipua finalità di evitare che il
mutamento di carriera nell’ambito dell’organizzazione burocratica dello Stato comporti,
per gli interessati, un regresso nel trattamento economico raggiunto, ma di “regresso”
può parlarsi soltanto confrontando posizioni omogenee nel contesto di un sistema
burocratico unitario, entro il quale il “dipendente statale” si sposti con le modalità
previste per il “passaggio” ad altra Amministrazione o ad altra carriera, compreso il caso
dell’accesso per concorso, secondo le disposizioni statutarie (vedi D.P.R. n. 3 del 1957,
artt. 199 e 200 cit.).
Sussistono, dunque, limiti soggettivi ed oggettivi all’applicabilità della norma,
che inducono di ner sè ad escludere che alla stessa possa essere attribuita una portata
estensiva e che il legislatore abbia inteso, con tale disposizione, porre un principio di
ordine generale, da valere per ogni tipo di passaggio ed indipendentemente dalla natura
statale o meno delle organizzazione nel cui ambito si verifica la mobilità. Nè soccorre il
richiamo al D.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1079, successivo art. 12, che al citato art. 202
si riconnette, e di cui ripete finalità e limiti, con la sola aggiunta del riferimento alle
“disposizioni analoghe”, ma pur sempre concernenti l’impiego statale, siccome esclusivo
destinatario della normativa recata dal decreto.
Va rilevato, infine, che, ogni qual volta si è inteso mantenere, per i dipendenti
pubblici, un trattamento di maggior favore, la fonte, primaria o secondaria, ne ha
sempre espressamente definito i beneficiari, le condizioni ed i limiti di operatività, con
ciò restando esclusa la possibilità di desumere dal complesso delle disposizioni un
principio con carattere di generalità. A. fronte dell’univoco significato del suddetto art.
202 nel senso indicato, la tesi opposta non si potrebbe sostenere neanche facendo
riferimento al richiamo al medesimo art. 202 effettuato dalla L. n. 537 del 1993, art. 3,
commi 57 e 58, e al rilievo che, al momento dell’entrata in vigore di tale ultima legge,
era già intervenuta la c.d. “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego a opera del
D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (in attuazione della L. 23 ottobre 1992, n. 421).
Infatti, il mutamento della natura giuridica del rapporto di lavoro non ha
certamente determinato l’unificazione della disciplina, continuando a trovare
applicazione le discipline speciali di ciascun settore in attesa dell’intervento della
contrattazione collettiva (D.Lgs. n. 2001, art. 69), cosicché non vi sono elementi a
conforto della tesi che le disposizioni legislative in materia di lavoro pubblico debbano
tendenzialmente interpretarsi come applicabili alla totalità dei dipendenti previsti
dall’art. 1, comma 2, del menzionato decreto legislativo. L’assunto, del resto, è
contraddetto proprio dalle disposizioni della stessa L. n. 537 del 1993, nella parte in cui
estendono esplicitamente taluni articoli del D.P.R. n. 3 del 1957 a settori diversi
dall’impiego statale (si vedano l’art. 3, commi 12 e 41).
Nessun elemento, in definitiva, conforta la tesi secondo cui l’istituto disciplinato
dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 202, sia assurto a rango di principio generale dell’impiego
pubblico e come tale richiamato dalla disposizione che lo ha modificato.
4

La giurisprudenza della Corte si è già espressa anche con riguardo
all’inquadramento da attribuire ai dipendenti delle Agenzie fiscali (vedi, per tutte: Cass.
SU 14 gennaio 2009, n. 560; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564; Cass. 26 ottobre 2006,
n. 23005; Cass. 25 maggio 2005, n. 10991).
In particolare è stato chiarito che a seguito della istituzione – ad opera del Capo
2^ del Titolo 5^ del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 – delle Agenzie fiscali (Agenzia delle
entrate, delle dogane, del territorio e del demanio), divenute operative a partire dal 1
gennaio 2001, in base al D.M. 28 dicembre 2000, art. 1, le Agenzie gestiscono
le funzioni già esercitate dai vari dipartimenti ed uffici del Ministero delle finanze (poi
confluito dell’unico Ministero dell’economia e delle finanze) al quale sono rimaste le
sole “funzioni statali” elencate nell’art. 56 dello stesso D.Lgs.. In base all’art. 61 tutte le
Agenzie hanno personalità giuridica di diritto pubblico e l’Agenzia del demanio (che è
quella da cui provengono gli attuali ricorrenti) è stata definita ente pubblico economico
dal D.Lgs. 3 luglio 2003, n. 173, art. 1, (che ha modificato in tal senso il suddetto art.
61, comma 1) e sono rappresentate dai rispettivi direttori (art. 68). Dispone, in
particolare l’art. 57, che alle Agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici,
poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione
interna di ciascuna Agenzia. L’art. 73, comma 5, prevede che il suddetto Ministro
dispone con decreto in ordine alle assegnazioni di beni e personale afferenti alle attività
di ciascuna agenzia; l’art. 74 (Disposizioni transitorie sul personale) specifica, al comma
1, che partire dalla data fissata con decreto del Ministro delle finanze, tutto il personale
del Ministero è incluso in un ruolo speciale e distaccato presso i nuovi uffici del
Ministero o presso le Agenzie fiscali.
Il D.M. 28 dicembre 2000, art. 5, (in Gazz. Uff. 12 gennaio 2001, n. 9) poi
modificato dal D.M. 20 marzo 2001, ha istituito il ruolo speciale del personale in
servizio alla data del 31 dicembre 2000 e, con riguardo al personale inserito nell’elenco
di cui al comma 1, sezione 1/A, ne ha disposto il distacco provvisorio, a decorrere dal 1
gennaio 2001, presso l’Agenzia del demanio, dichiarata competente alla gestione del
detto personale. Infine, il D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, ha fissato le dotazioni
organiche e disposto che “le Agenzie subentrano al Ministero nei rapporti giuridici,
poteri, competenze e controversie relative alle funzioni ad esse trasferite e al proprio
personale” (art. 20).
Dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte risulta che la riferita vicenda
normativa è stata interpretata nel senso che la qualità di datore di lavoro sia stata assunta
dalle Agenzie non alla data del 1 gennaio 2001 (che aveva disposto soltanto il distacco
del personale), ma solo con l’emanazione del D.P.R. n. 107 del 2001. Nel presente
giudizio i ricorrenti sono passati dalle dipendenze dell’Agenzia del demanio a quelle del
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti quando già la suddetta Agenzia era
pienamente operativa come ente pubblico distinto dallo Stato, anche con riguardo al
rapporto di lavoro dei dipendenti (nel ricorso, pag. 2 si fa riferimento all’aver prestato
servizio presso l’Agenzia del Demanio, come da attestati di servizio allegati al
fascicolo di primo grado).
Ne risulta che la normativa invocata dai ricorrenti è inapplicabile alla presente
fattispecie che non configura una ipotesi di passaggio di carriera da una
Amministrazione statale ad una diversa Amministrazione sempre statale, ma un
passaggio da una Amministrazione pubblica autonoma (oltretutto, qualificata dal D.Lgs.
3 luglio 2003, n. 173, ente pubblico economico), come tale non inserita
nell’organizzazione burocratica dello Stato, ad una Amministrazione statale.
In tale ultima ipotesi – di passaggio di personale e/o procedura volontaria di mobilità nel
5

pubblico impiego privatizzato – non viene in considerazione la L. n. 537 del 1993, art. 3,
e, in base ad orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte:
a) la regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro comporta
l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto
di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto presso il
nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.). è confermata. per i dipendenti pubblici. dal
D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, che riconduce il passaggio diretto di personale da
amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.),
stabilendo la regola generale dell’applicazione del trattamento Qiuridico ed economico.
compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto
dell’Amministrazione cessionarii, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli
assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del
trattamento economico acquisito) tra dipendenti, dello stesso ente, a seconda della
provenienza (Cass. 17 luglio 2006, n. 16185; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564; Cass. 2
febbraio 2007, n. 2265);
b) infatti, nell’ipotesi di passaggio di lavoratori ad una diversa PA, l’eventuale
diversificazione del rispettivo trattamento economico richiede una specifica base
normativa, in difetto della quale l’Amministrazione, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001,
art. 45, comma 2, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e,
comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi
(Cass. 2 marzo 2011, n. 5097).
Da quanto si è detto non può esservi dubbio sul fatto che, nella specie non solo
debba essere operato il riassorbimento, ma anche che ciò debba avvenire in riferimento
ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti del Ministero,
come disposto nei provvedimenti da cui ha avuto origine il presente giudizio).
Né può assumere rilievo l’argomento dell’assenza di disposizioni contenute nella
contrattazione collettiva (applicabile) che disciplinino il riassorbimento delle eccedenze
retributive che possono verificarsi nei passaggi del personale tra le varie
Amministrazioni.
Infatti, secondo quanto si desume dal combinato disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001,
artt. 2 e 69, mentre alla contrattazione collettiva è demandata la determinazione degli
elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento
economico complessivo dei pubblici dipendenti, per quanto riguarda il riassorbimento
alla contrattazione collettiva compete solo la definizione delle modalità applicative di
operatività del relativo principio (già presente, peraltro, per quel che si è detto
nell’ambito dello stesso D.Lgs.), sicché attesa l’inderogabilità della normativa che
delinea i criteri generali cui deve conformarsi il trattamento economico dei pubblici
dipendenti, nel cui ambito rientra il principio del riassorbimento, in difetto di specifiche
disposizioni dell’autonomia collettiva si applicano le disposizioni legislative in materia,
essendo comunque preclusa alla contrattazione collettiva la possibilità di escludere
l’operatività del suddetto principio (arg. ex Cass. 30 dicembre 2009, n. 27836; Cass. 18
gennaio 2012, n. 709; Cass. 14 luglio 2008, n. 19299).
Deve trovare applicazione, quindi, il seguente principio di diritto, già affermato
da Cass. n. 5959 del 2012: “la regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro
comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato
contesto di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto
presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.), è confermata, per i dipendenti pubblici,
dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, che riconduce il passaggio diretto di personale da
Amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.),
stabilendo la regola generale dell’applicazione del trattamento giuridico ed economico,
6

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto
dell’Amministrazione cessionaria, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli
assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in pejus del
trattamento economico acquisito) tra dipendenti dello stesso ente, a seconda della
provenienza. Tale regola – da applicare anche nel caso di passaggio dalle dipendenze di
una Agenzia fiscale alle dipendenze di una Amministrazione inserita nel sistema
burocratico dello Stato – comporta che ì suddetti assegni ad personam siano destinati ad
essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai
dipendenti dell’Amministrazione cessionaria”».
Il Collegio, letta la relazione,
rilevata la corretta instaurazione del
contraddittorio atteso che dall’avviso di ricevimento si rileva che il ricorso era notificato
a Masi Massimiliano, tenuto conto dei principi affermati dalla sentenza n. 5959 del
2012, ritiene che il ricorso deve essere accolto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia
anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Torino in diversa
composizione, che si atterrà ai principi sopraindicati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le
spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione.
Così deciso in Roma, 15 luglio 2014

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