Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21793 del 29/08/2019

Cassazione civile sez. III, 29/08/2019, (ud. 04/04/2019, dep. 29/08/2019), n.21793

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12032-2016 proposto da:

B.D., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

FRANCESCO MANDALARI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS);

– intimato –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di MILANO, depositata il

03/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/04/2019 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI CORRADO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ordinanza L. n. 354 del 1975, ex art. 35 ter, comma 3 del 3/3/2016 il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda di indennizzo proposta dal sig. B.D. per la detenzione inumana o degradante subita per un totale di 972 giorni, avendo a disposizione meno di 3 metri quadrati.

Avverso la suindicata pronunzia il B. propone ora ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., affidato a unico motivo, illustrato da memoria. L’intimato Ministero della giustizia non ha svolto attività difensiva.

Già chiamata all’udienza camerale del 23/2/2017, la causa è stata rinviata alla pubblica udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorrente si duole essere stato l’impugnato provvedimento erroneamente adottato “con le forme dell’ordinanza invece che del decreto”.

Lamenta essere stata la domanda erroneamente rigettata per mancato assolvimento dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., laddove non è in suo potere fornirla e il giudice può viceversa esercitare poteri istruttori officiosi.

Si duole che la motivazione dell’impugnato provvedimento sia “manifestamente contraddittoria”.

Va anzitutto osservato che come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il ricorso per cassazione richiede, da un lato, per ogni motivo di ricorso, la rubrica del motivo, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo – tra quelli espressamente previsti dall’art. 360 c.p.c. – è proposto; dall’altro, esige l’illustrazione del singolo motivo, contenente l’esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata, e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (v. in particolare Cass., 19/8/2009, n. 18421).

Risponde altresì a massima consolidata nella giurisprudenza di legittimità che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierno ricorrente.

In violazione del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, non viene dal medesimo anzitutto nemmeno precisato se intenda proporre una denunzia di violazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con specifica indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, ovvero dolersi di un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass., 30/1/2012, n. 1305; Cass., 2/2/2010, n. 2338; Cass., 6/10/2010, n. 20747).

A tale stregua esso risulta genericamente formulato ed articolato nell’indistinzione delle questioni di fatto e di diritto, secondo un modello difforme da quello normativamente delineato e invero sostanziantesi in meramente generiche ed apodittiche asserzioni (cfr. Cass., 13/7/2005, n. 14741), inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica di questa Corte, a fortiori non consentita in presenza di formulazione risulta altresì in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, laddove la ricorrente fa richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (in particolare, ai “documenti prodotti… dal Ministero di Giustizia (doc. 2)”, ai “certificati di detenzione”, ai “requisiti previsti per la concessione” del “gratuito patrocinio”) senza invero fornire puntuali indicazioni necessarie ai fini della relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte Suprema di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se essi siano stati rispettivamente acquisiti o prodotti pure in sede di giudizio di legittimità, la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass., Sez. Un., 19/4/2016, n. 7701).

A tale stregua non deduce le formulate censure in modo da renderle chiare ed intellegibili in base alla lettura del ricorso, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il relativo fondamento sulla base delle deduzioni contenute nel medesimo, non essendo invero sufficienti affermazioni – come nel caso – apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione.

A tale stregua, l’accertamento in fatto e le relative valutazioni operate dalla corte di merito nell’impugnata sentenza risultano invero non idoneamente censurate dall’odierno ricorrente.

E’ al riguardo appena il caso di ribadire che i requisiti di formazione del ricorso rilevano infatti ai fini della relativa giuridica esistenza e conseguente ammissibilità, assumendo pregiudiziale e prodromica rilevanza ai fini del vaglio della relativa fondatezza nel merito, che in loro difetto rimane invero al giudice imprescindibilmente precluso.

Orbene, nella specie a fronte di (generica) denunzia di violazione di legge, non risultano invero sviluppati argomenti in diritto con i contenuti richiesti dal combinato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, essendosi il ricorrente limitato a muovere apodittiche doglianze.

Ne consegue che il motivo è nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, e quanto dedotto dal ricorrente si risolve nella proposizione in realtà di un “non motivo” (cfr. Cass., 11/10/2018, n. 25149; Cass., 27/11/2018, n. 30594; Cass., 8/3/2018, n. 5541; Cass., 8/7/2016, n. 1274; Cass., 31/8/2015, n. 17330; Cass., 8/7/2014, n. 15475; Cass., 1/10/2012, n. 17318; Cass., 17/1/2012, n. 537).

Va ulteriormente posto in rilievo come il ricorrente altresì prospetti doglianze di vizio di motivazione al di là dei limiti consentiti dalla vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053), nel caso ratione temporis applicabile, sostanziantesi nel mero omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendo riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica, e non anche come nella specie la lamentata “incongruenza” e “contraddittorietà” della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053, e, conformemente, Cass., 29/9/2016, n. 19312).

Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni del ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in realtà si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via in realtà sollecita, cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici di merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimato Ministero della giustizia svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019

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