Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21792 del 09/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 09/10/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 09/10/2020), n.21792

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24814-2012 proposto da:

CISETTE COOPERATIVA SOCIETA’, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GIUSEPPE PALOMBINI 2, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE DE

FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ANDREA RADICE;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI TRENTO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 75/2011 della COMM. TRIBUTARIA II GRADO di

TRENTO, depositata il 29/08/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/12/2019 dal Consigliere Dott. SAIJA SALVATORE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Ufficio di Cles – a seguito di una verifica fiscale culminata nel p.v.c. del 22.3.2007 – notificò a Cisette soc. coop. un avviso di accertamento in relazione all’anno d’imposta 2003. In particolare, l’Ufficio contestò maggiori ricavi non dichiarati per Euro 231.146,00 ed IVA relativa per Euro 16.811,60, riguardo alla compravendita di 10 immobili; la fruttuosità di finanziamenti concessi a società estere collegate, donde la determinazione di interessi attivi pari ad Euro 17.473,19; la sussistenza di costi indeducibili; determinò l’incremento dell’IVA al 10%, anzichè al 4%, come calcolata, su fatture emesse a titolo di risanamento conservativo, nonchè il recupero di ulteriore differenziale di IVA; ancora, contestò la violazione dell’art. 60 TUIR, per aver la società omesso di redigere i prospetti previsti, ed infine la mancata comunicazione della variazione dati ai fini IVA per cantieri di lunga durata. Si procedette quindi alla rideterminazione dell’IRPEG, dell’IRAP e dell’IVA dovute, irrogando le relative sanzioni. Impugnato l’avviso dalla società, la C.T. di primo grado di Trento accolse il ricorso con sentenza n. 16/05/09, con esclusione di quanto oggetto della conciliazione giudiziale nelle more intervenuta in data 16.1.2009 in relazione alla deducibilità di alcune voci di costo e sull’IVA su fatture per risanamento conservativo. Con successiva sentenza del 29.8.2011, la C.T. di secondo grado di Trento accolse però parzialmente l’appello proposto dall’Ufficio, riformando la prima decisione. In particolare, il giudice d’appello rilevò l’erronea ricognizione – da parte del primo giudice – della materia del contendere su cui s’era perfezionata la conciliazione, accogliendo le censure della parte pubblica e confermando la bontà della ripresa fiscale, fatta eccezione per la misura degli interessi attivi (determinati nel 3% annuo) e per il recupero di costi deducibili relativi a prestazione di terzi, pari ad Euro 11.525,18 ed IVA relativa per Euro 2.819,88.

Cisette soc. coop. ricorre ora per cassazione, sulla base di otto motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9 e art. 53, comma 2, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, come rispettivamente modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, commi 23 e 2, conv. in L. n. 248 del 2006, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente rileva che erroneamente il giudice d’appello ha tenuto conto, ai fini della rettifica dei valori dichiarati nelle 10 compravendite immobiliari in questione, della stima sommaria datata 15.3.2007, con cui l’Agenzia del Territorio aveva stimato il valore complessivo delle transazioni in Euro 1.324.702,00, in rettifica di quanto dichiarato (Euro 1.093.556,00). Ciò, avendo trascurato le proprie controdeduzioni sul punto, nonchè la copiosa giurisprudenza che esclude la sufficienza, a tal fine, della mera valutazione operata dall’UTE, occorrendo che essa si inquadri in un più ampio quadro di elementi probatori o, almeno, indiziari. Aggiunge che i computi metrici asseritamente utilizzati in sede di ristrutturazione degli immobili – di cui è stata rilevata la mancanza – non sono scritture contabili obbligatorie, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 14,15 e 16, ciò valendo esclusivamente per gli appalti pubblici, in forza di normativa settoriale. Nessuna rilevanza può dunque attribuirsi alla mancanza di tale documentazione. Sotto altra angolazione, col mezzo in esame si censura la decisione per aver fatto ricorso alla modalità di accertamento induttivo di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, applicabile ai soli fini IVA e non anche alle II.DD., ai sensi del D.L. n. 248 del 2006, art. 23-bis, conv. in L. n. 248 del 2006, tanto più che detta ultima norma è stata abrogata dalla L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 4, lett. f), così venendo meno – anche con effetto retroattivo – la presunzione legale di coincidenza tra il valore normale di transazione e l’importo del mutuo erogato all’acquirente.

1.2 – Con il secondo motivo, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, avuto riguardo al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata ha omesso del tutto di motivare circa la correttezza dei dati emergenti dalla stima dell’UTE, acriticamente fatti propri, nonchè circa l’eventuale inattendibilità della perizia di stima da essa prodotta. Analoghe considerazioni vanno spese, secondo la società, circa l’asserzione della mancata fornitura all’Ufficio dei computi metrici estimativi, che essa invece non aveva mai redatto, come pure dichiarato ai verbalizzanti, circa la natura non obbligatoria di detti documenti, circa il fatto che l’attività edilizia non era stata effettuata nei confronti di committenti terzi (donde l’inapplicabilità dell’art. 60 TUIR), ed infine circa la questione dello scostamento del mutuo ipotecario concesso ad un terzo acquirente, rispetto al valore dichiarato in contratto.

1.3 – Con il terzo motivo, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, avuto riguardo al disposto degli artt. 9 e 53 TUIR, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata ha omesso del tutto di motivare anche in relazione alla questione, da essa sollevata, circa la nozione di corrispettivo evincibile dalle norme richiamate in rubrica.

1.4 – Con il quarto motivo, si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, e dell’art. 75 TUIR, comma 2, lett. a), con conseguente erroneità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Pur avendo essa ricorrente evidenziato che, ai fini della tassabilità dei corrispettivi, occorre far riferimento alla data di stipulazione dell’atto, o se diversa e successiva, in quella in cui si verifica l’effetto traslativo, e che la compravendita con Z.N., pur effettuata nel 2003, era stata intavolata l’anno successivo, ossia solo in data 17.2.2004 (la sola rilevante, ai sensi del R.D. n. 499 del 1929, art. 2), il giudice d’appello erroneamente ha fatto riferimento, al riguardo, al disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, che attribuisce rilievo, ai soli fini IVA, al momento dell’emissione della fattura e al pagamento della relativa somma a saldo.

1.5 – Con il quinto motivo, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, avuto riguardo al disposto del D.L. n. 41 del 1995, art. 15, comma 1, conv. in L. n. 85 del 1995, della L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, e art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 13 e 54 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sostiene la ricorrente che, anche in tal caso, il giudice del gravame ha omesso del tutto di motivare riguardo alla questione della impossibilità, per l’Ufficio, di procedere a rettifica del valore di cessione dei fabbricati, ai fini IVA, a meno che il corrispettivo risulti documentalmente di entità maggiore, se nell’atto esso è indicato in misura non inferiore al valore determinato ai sensi del Testo unico sull’imposta di registro, art. 52, comma 4. La circostanza che il D.L. n. 41 del 1995, art. 15, comma 1, conv. in L. n. 85 del 1995, sia stato abrogato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 4, conv. in L. n. 248 del 2006, in vigore dal 4.7.2006, non può incidere su fattispecie già perfezionatesi, come nella specie, stante la natura sostanziale della norma.

1.6 – Con il sesto motivo, si denuncia la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 2, lett. b), e dell’art. 75 TUIR, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si censura la decisione impugnata per essere stato disconosciuto il costo di Euro 75,00 e dell’IVA relativa, non essendo stata indicata in fattura la targa del mezzo cui la spesa si riferisce, e ciò in quanto non sussiste alcuna norma che ciò imponga, tanto più che si tratta di spesa inerente alla manutenzione di un furgone.

1.7 – Con il settimo motivo, si denuncia la violazione al D.P.R. n. 633 del 1972, punto 39 della Tabella A-Parte II allegata in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente lamenta l’erroneità della decisione impugnata, laddove si è esclusa l’applicabilità dell’aliquota IVA al 4% per mancanza di prova dei relativi contratti di appalto, trattandosi di benefici fruiti dai committenti e non essendo previsto da alcuna norma di assolvere a tale onere probatorio per via documentale.

1.8 – Con l’ottavo motivo, infine, si denuncia la violazione dell’art. 60 TUIR, comma 2, del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 9, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente si duole dell’erroneità della decisione nella parte in cui sono state ritenute sussistenti commesse di durata ultrannuale, invece inesistenti, con conseguente inapplicabilità della sanzione ex art. 9 citato.

2.1 – Preliminarmente, va rilevata l’inammissibilità del secondo, terzo e quinto motivo, con cui si denuncia l’omessa motivazione circa varie questioni da essa società sollevate nel giudizio d’appello.

Le censure, comuni nel metodo, sono inammissibili perchè tendenti, da un lato, a proporre una rivisitazione alternativa delle risultanze istruttorie, di pertinenza del giudice di merito e censurabili in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della illogicità o contraddittorietà della motivazione (v. Cass. n. 24434/2016), nella specie non denunciata; e dall’altro, perchè non sussiste alcun obbligo del giudice di confutare analiticamente ogni deduzione della parte, purchè il percorso motivazionale adottato comporti una valutazione (anche implicita, ma) evidentemente incompatibile con le deduzioni stesse (v. Cass. n. 16467/2017), come è avvenuto nella specie.

Non senza dire che, in relazione a dette censure e contrariamente all’assunto, il giudice d’appello ha comunque motivato: a) sulla fondatezza della stima dell’UTE, reputata addirittura “prudente”; b) sulla circostanza che i computi metrici non erano stati forniti (si tratta di affermazione coerente con quanto dichiarato dalla società ai verbalizzanti, giacchè dichiarare ai verbalizzanti di “non disporre” di tali computi, come essa ha fatto, non equivale a dire, necessariamente, di non averli mai compilati o posseduti, come oggi essa pretenderebbe); c) sullo scostamento tra il valore dichiarato e l’importo di un mutuo concesso ad uno degli acquirenti; d) sull’entità dei corrispettivi effettivamente conseguiti e sul relativo criterio di determinazione; e) sulla corretta applicazione della norma procedimentale, ai fini dell’accertamento induttivo, vigente all’atto dell’accertamento stesso, con conseguente inapplicabilità (implicitamente dichiarata) del D.L. n. 41 del 1995, art. 15, comma 1, conv. in L. n. 85 del 1995.

3.1 – Ciò posto, il primo motivo è inammissibile e comunque infondato, in tutte le sue articolazioni.

3.2 – Anzitutto, è inammissibile la censura concernente la pretesa mancata considerazione delle controdeduzioni sulla stima allegate dalla società, per le stesse ragioni di cui al par. 2.1.

In secondo luogo, il mezzo è ulteriormente inammissibile, quanto alla denunciata violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonchè dell’art. 9 TUIR e art. 53 TUIR, comma 2, trattandosi di pretese violazioni che non risultano minimamente sviluppate dalla ricorrente, sicchè il motivo difetta della necessaria specificità.

Si aggiunga, quanto alla valutazione degli elementi indiziari, che recentemente è stato affermato da Cass., Sez. Un., n. 1785/2018 (in motivazione), quanto segue: “la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, c.c., suppone… un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi”.

E’ evidente che il motivo, per come sviluppato dalla società ricorrente, non è conforme a tali canoni.

3.3 – Ma esso è comunque infondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata necessiti di essere in parte corretta, ex art. 384 c.p.c., u.c..

Anzitutto, il giudice d’appello afferma a chiare lettere che la rettifica dei valori dichiarati negli atti di compravendita non è basata solo sulle risultanze della stima dell’UTE, ma su una serie di elementi indiziari che, legati ad essa, denotano la sottofatturazione.

Valga pertanto, sui computi metrici, quanto già osservato nel par. 2.1 circa la dichiarazione resa dalla società ai verbalizzanti; non è affatto vero, dunque, che di detti computi non vi sia traccia nel processo, almeno non nel senso prospettato dalla ricorrente.

Quanto poi alla questione della omessa allegazione alla dichiarazione dei redditi dei prospetti delle opere di durata ultrannuale, ex art. 93 TUIR, comma 6 (nel testo vigente), può dirsi che – anche a ritenere fondato il rilievo – detta questione costituisce solo uno degli elementi indiziari valutati dalla CT di II grado in relazione alla stima dell’UTE, sicchè non è attraverso la pretesa fondatezza di tale solo rilievo che può giungersi a sostenere la violazione di legge denunciata.

Riguardo allo scostamento tra valore dichiarato nell’atto e importo del mutuo concesso all’acquirente, va poi rilevato che la Commissione d’appello, sulla considerazione che “detti finanziamenti sono garantiti da garanzia ipotecaria iscritta sull’immobile”, ha ritenuto di poter “verosimilmente dedurre che la somma dei mutui concessi non ha di certo ecceduto il valore del medesimo immobile offerto in garanzia”.

Come può agevolmente evincersi dal costrutto che precede, quindi, è evidente che la Commissione d’appello non ha affatto applicato in via diretta il D.L. n. 223 del 2006, art. 23-bis, conv. in L. n. 248 del 2006, concernente l’accertamento induttivo ai fini IVA, avendo invece utilizzato la suddetta circostanza dello scostamento come elemento indiziario, al pari degli altri, per giungere a valutare legittimo il ricorso all’accertamento induttivo del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d).

Infine, riguardo al portato della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 4, lett. f), il giudice d’appello ha affermato come la norma – che ha abrogato le modifiche introdotte dal D.L. n. 223 del 2006, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, ulteriormente modificando questi ultimi – non sia pertinente, perchè il legislatore non ha dettato alcuna disciplina, neanche in via regolamentare, che consenta di applicare la norma stessa agli accertamenti antecedenti al 4.7.2006, già emessi e non ancora definiti.

Detta affermazione è errata, ma ciò non consente di accogliere la censura in esame, sufficiente essendo la mera correzione della motivazione, ex art. 384 c.p.c., u.c.. Infatti, sulla portata della modifica in discorso, è stato condivisibilmente affermato che “In tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla sostituzione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione Europea, ha eliminato la presunzione legale relativa (introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 3, conv., con modif., dalla L. n. 248 del 2006) di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi (così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”), l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti” (così, Cass. n. 9474/2017).

In sostanza, l’error in iudicando in cui è incorsa, sul punto, la Commissione d’appello, è innocuo ed emendabile ex art. 384 c.p.c., u.c., riemergendo in tutta la sua consistenza la più ampia questione della valutazione degli elementi indiziari, come già detto non efficacemente attinta dalla società contribuente col mezzo in esame.

4.1 – Il quarto motivo è fondato.

La Commissione d’appello, riguardo alla compravendita Z., ha evidenziato che il rogito era stato effettuato il 23.12.2003, con registrazione avvenuta il 30.12.2003. Ha quindi ritenuto che – benchè l’intavolazione si fosse perfezionata il 17.2.2004 – ai fini della tassazione dei redditi relativi occorresse comunque riferirsi all’anno 2003, in cui era stata effettuata l’attività negoziale ed era stata emessa la fattura, con relativo saldo da parte dell’acquirente, e ciò in forza del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, ove si stabilisce che, anche in relazione alla cessione di beni immobili, qualora “sia emessa fattura, o sia pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento”.

Ora, premesso che detta ultima norma è dettata specificamente in tema di IVA, va rilevato che, ai fini delle II.DD., la norma di riferimento è, inequivocabilmente, dettata dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 2, lett. a) (nel testo vigente ratione temporis), secondo cui “Ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza: a) i corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei beni si considerano sostenute, alla data… della stipulazione dell’atto per gli immobili e per le aziende, ovvero, se diversa e successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale”.

Detta norma, ai fini che interessano, va letta in combinato disposto con il R.D. n. 499 del 1929, art. 2, che come è noto dispone, per i territori dello Stato in cui si applica il c.d. sistema tavolare (come la Provincia di Trento) che “A modificazione di quanto è disposto dal Codice civile italiano, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sui beni immobili non si acquistano per atto tra vivi se non con la iscrizione del diritto nel libro fondiario”.

Ora, pacifica – nella giurisprudenza di questa Corte – la natura costitutiva della c.d. intavolazione, solo questa producendo l’effetto traslativo (v., ex plurimis, Cass. n. 29089/2017), non constano precedenti specifici sulla tassazione dei redditi caratteristici dell’impresa, in relazione alla cessione di immobili soggetti al regime tavolare. Si rinvengono, infatti, soltanto alcuni precedenti in tema di I.N. V.I.M. (Cass. n. 3415/2001) e di imposta di registro (Cass. n. 15618/2002), che valorizzano appunto il momento della traslazione, ai fini dell’imposizione, nonchè un paio di arresti in tema di redditi diversi (Cass. n. 12323/2017 e Cass. n. 13657/2018). Quest’ultima pronuncia, in particolare, ha così statuito: “In tema di redditi cd. diversi, ai fini dell’imposizione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, comma 1, lett. b), deve essere considerato il momento di conclusione del contratto (nella specie, conferimento a titolo oneroso del terreno in una società), nel quale sorge il diritto al pagamento del corrispettivo, senza che assuma rilevanza, nel sistema tavolare, quello in cui si verifica il trasferimento della proprietà con l’iscrizione dello stesso nel libro fondiario, poichè la tassazione non ricade sull’atto, nè, tantomeno, sul suo effetto traslativo, bensì sul reddito che ne viene ricavato in termini di plusvalenza”.

Ritiene la Corte che tale percorso motivazionale non sia replicabile nel caso di redditi d’impresa, come quello che qui occupa. Infatti, come non manca di evidenziare il citato arresto, con la tassazione della plusvalenza derivante dalla cessione di immobili (come redditi diversi, e quindi non caratteristici) non si assoggetta nè l’atto, nè l’effetto traslativo, ma il reddito prodotto, nel momento in cui ciò si verifica. Al contrario, l’incipit dell’art. 75 citato, è inequivoco nell’evidenziare che la relativa tassazione segue il principio di competenza, determinando specificamente, per quanto concerne gli immobili, il criterio per individuare l’esercizio di riferimento: quello in cui si verifica l’effetto traslativo, ossia quello in cui si determina la fuoriuscita del bene dal patrimonio del cedente, a prescindere dal fatto che il corrispettivo sia stato incassato, in tutto o in parte, nell’esercizio precedente.

Ne deriva che la statuizione della Commissione trentina è erronea, essendosi ritenuto di poter trarre da una disposizione dettata in tema di IVA – di norma improntata al principio di cassa, per intuibili ragioni logico-concettuali – la regola da applicare all’imposta sui redditi, concernente l’attività tipica dell’impresa, da individuarsi nella specie nel combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 2, lett. a) (nel testo vigente ratione temporis) e del R.D. n. 499 del 1929, art. 2.

La sentenza impugnata è dunque cassata sul punto, potendo al riguardo pronunciarsi il seguente principio di diritto, ex art. 384 c.p.c., comma 2: “In tema di redditi d’impresa derivanti dalla cessione di beni immobili, ai fini dell’imposizione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 2, lett. b), (nel testo vigente ratione temporis), l’esercizio di competenza è di regola determinato in base al momento di conclusione del contratto, a meno che l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale non si realizzi in data successiva, solo questa rilevando in tale ultima ipotesi. Pertanto, nel sistema tavolare, in cui il trasferimento della proprietà si verifica con l’iscrizione dello stesso nel libro fondiario, ai sensi del R.D. n. 499 del 1929, art. 2, l’esercizio di competenza, ai fini della tassazione dei redditi da cessione di beni immobili, va determinato in base alla data della intavolazione”.

5.1 – Anche il sesto motivo è fondato.

L’art. 109 TUIR, nella parte che qui interessa, stabilisce che “1. I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; (…) 5. Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. (…)”.

Secondo la consolidata lettura giurisprudenziale del c.d. principio di inerenza, espresso da tali norme, e del relativo onere probatorio, affinchè i costi sostenuti nell’attività d’impresa possano essere dedotti dai componenti positivi di reddito occorre che il contribuente dimostri di averli sostenuti (che siano, cioè, certi, e ciò anche mediante idoneo supporto documentale – v. recentemente, Cass. n. 13300/2017), in cosa consistano (onde suffragarne l’inerenza, “vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa”- così, Cass. n. 11241/2017) nonchè, in caso di contestazione dell’Amministrazione, anche la loro congruità (Cass. n. 10269/2017).

In proposito, la Commissione d’appello afferma che non è possibile desumere l’inerenza della spesa di manutenzione di un autocarro (fattura dell’importo imponibile di Euro 75,00), non essendo stata indicata nella fattura in discorso la targa del mezzo, insufficiente risultando l’allegazione della società di essere proprietaria di un solo veicolo furgonato. Donde il mancato assolvimento dell’onere probatorio in capo alla contribuente.

La ricorrente censura tale statuizione, rilevando, da un lato, che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21 non dispone alcun onere di indicazione della targa dell’automezzo cui la prestazione si riferisca, e dall’altro che la prova dell’inerenza era stata da essa fornita mediante la produzione, in primo grado, del libro dei cespiti ammortizzabili, da cui risultava che essa società era proprietaria di un unico veicolo furgonato.

Ritiene la Corte che dette doglianze meritino di essere accolte.

Infatti, quanto alla fattura in discorso (n. 17 del 28.2.2003), risulta che essa concerne un intervento di manutenzione e riparazione di un autocarro della società.

Ora, premesso che non sono in discussione gli elementi della certezza e della congruità del costo (v. supra), deve rilevarsi che ai fini della prova dell’inerenza il contribuente deve dimostrare che si tratti di spesa collegata e funzionale alla sua attività. Ne deriva che il giudice d’appello, nell’ancorare la propria valutazione, al riguardo, alla mancata indicazione della targa del mezzo nella fattura in discorso, ha finito col falsamente applicare il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 2, norma che tale elemento non prescrive imprescindibilmente, in relazione alle prestazioni inerenti gli autoveicoli. E ciò tanto più che la contribuente aveva fornito elementi probatori (libro dei cespiti ammortizzabili) atti a dimostrare, in tesi, la titolarità di un solo automezzo furgonato, e quindi, sempre in detta prospettiva, l’esistenza di un unico veicolo suscettibile di essere stato manutenuto o riparato dal fornitore emittente. In altre parole, il fatto che “l’indicazione della targa (appaia) essere la soluzione più diretta e semplice da attuare per godere del vantaggio ai fini fiscali” (così la sentenza impugnata), non significa che detta modalità sia l’unica in grado di corroborare detto accertamento, come nella sostanza ha finito per ritenere lo stesso giudice d’appello.

Sul punto, si impone dunque la cassazione della decisione impugnata, occorrendo che il giudice del rinvio proceda ad un analitico esame della cennata documentazione, onde verificare l’inerenza o meno dei costi relativi all’esercizio dell’impresa, alla luce dei sopra cennati principi.

6.1 – Il settimo motivo è inammissibile.

In relazione al riconoscimento dell’IVA agevolata al 4%, la Commissione di II grado ha rilevato che occorre dare prova dell’esistenza del relativo contratto d’appalto, “benchè manchi un obbligo giuridico alla sua stipula”, così sostanzialmente volendo significare come non sia prevista, al riguardo, una forma particolare, potendo l’appalto concludersi anche oralmente. Ciò posto, la Commissione ha evidenziato come non sia stata fornita la prova dell’esistenza dei contratti d’appalto con i relativi committenti, tale prova non potendo evincersi dalla documentazione offerta dalla società.

Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto da quest’ultima col mezzo in esame, la ripresa fiscale sul punto è stata confermata dal giudice d’appello non già perchè non erano stati prodotti i relativi contratti di appalto in forma scritta, ma perchè – come già detto – la documentazione prodotta in giudizio non era idonea a fornire detta prova. La ricorrente, dunque, non ha colto la ratio decidendi, con conseguente inammissibilità del motivo.

7.1 – L’ottavo motivo è fondato, nei termini che seguono.

La censura riprende, in parte, alcuni argomenti già spesi riguardo al secondo motivo, e segnatamente la pretesa insussistenza di opere di durata ultrannuale di cui all’art. 60 TUIR (nel testo all’epoca vigente), invece ritenuta dalla Commissione d’appello.

Ora, deve ritenersi che la ricorrente – nel richiamare “espressamente al riguardo le contestazioni prospettate” col secondo motivo (v. par. 1.2) – ne abbia inteso traslare anche il portato attinente alla motivazione, in quella sede, però, inammissibilmente censurato, come s’è visto (v. par. 2.1).

Così interpretato il motivo in esame, esso merita di essere accolto. In verità, il giudice d’appello si muove sul piano di affermazioni meramente assertive, ove constata che la contabilità e la nota integrativa del bilancio 2003 “non danno certezza delle attività della Società”, proprio in relazione alla questione della sussistenza o meno di opere di durata ultrannuale, così conseguentemente ritenendo giustificata la sanzione del D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 9. Quale sia, in concreto, la ragione di detto convincimento, non è dato però evincersi dalla decisione, che incorre nel denunciato vizio motivazionale, per non aver la Commissione debitamente dato conto del percorso logico-giuridico da essa seguito, nella ricognizione degli elementi fattuali rilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione in discorso.

8.1 – In definitiva, sono accolti il quarto, sesto e ottavo motivo, mentre sono rigettati i restanti. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione, con rinvio alla C.T. di secondo grado di Trento, in diversa composizione, che si atterrà ai relativi principi di diritto ed effettuerà un nuovo esame, riguardo ai motivi accolti, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso limitatamente al quarto, sesto e ottavo motivo, rigettando nel resto; cassa in relazione e rinvia alla C.T. di secondo grado di Trento, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2020

 

 

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