Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21791 del 29/08/2019

Cassazione civile sez. III, 29/08/2019, (ud. 13/03/2019, dep. 29/08/2019), n.21791

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1555/2016 proposto da:

G.L., C.P., C.A., C.E.,

C.D., tutti eredi di C.F., domiciliati ex lege in

ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati

e difesi dall’avvocato FERNANDO VALERI;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 7782/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/03/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.L., C.D., P., A. ed E. (in proprio e quali eredi di C.F.), ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 7782/14, del 22 dicembre 2014, della Corte di Appello di Roma, che – rigettando il gravame da essi esperito avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 9210/12, del 27 aprile 2010 – ha respinto la loro domanda risarcitoria avente ad oggetto i danni lamentati, “iure proprio e iure hereditatis”, in ragione del decesso del loro congiunto, avvenuto nel (OMISSIS), per “cirrosi epatica scompensata”, patologia sviluppata in conseguenza di un virus HCV che i ricorrenti ricollegano causalmente alla somministrazione, al C., di un vaccino antitetanico.

2. Gli odierni ricorrenti riferiscono, in punto di fatto, di aver adito il Tribunale capitolino per conseguire il ristoro, “iure successionis”, dei danni sofferti da C.F. sino al momento del decesso, nonchè di quelli patiti, “iure proprio”, in dipendenza dalla malattia e dalla morte del loro familiare, convenendo, all’uopo, in giudizio il Ministero della Salute. Nell’atto di citazione, infatti, individuavano la causa della malattia mortale del C. nell’infezione virale contratta, secondo la loro prospettazione, allorchè al medesimo – presentatosi il (OMISSIS) presso il pronto soccorso dell’Ospedale (OMISSIS), per il trattamento di una ferita lacero-contusa – venne somministrato il suddetto vaccino, indicando a comprova dell’esistenza del nesso causale l’accoglimento della domanda di indennizzo previsto dalla della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 1.

Istruita la causa innanzi al giudice di prime cure, anche attraverso consulenza tecnica di ufficio (che avrebbe accertato, secondo i ricorrenti, in termini di “molta probabilità” il nesso causale), la domanda risarcitoria veniva, tuttavia, respinta dal Tribunale di Roma.

Proposto gravame avverso quella decisione, la Corte capitolina facendo applicazione della “ragione più liquida” – lo rigettava, fondando la propria decisione “sulla ritenuta inesistenza di colpa ex art. 2043 c.c., in capo al Ministero convenuto in giudizio”, trattandosi (evidenziano i ricorrenti) di “argomento ritenuto assorbente degli altri motivi di impugnazione.

3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso G.L., C.D., P., A. ed E., svolgendo due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si ipotizza violazione e falsa applicazione del D.M. del Ministero (allora) della sanità del 21 luglio 1990, in relazione all’art. 2043 c.c..

La censura, investe, in particolare l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui, essendo stata effettuata la vaccinazione – da cui sarebbe derivato l’evento dannoso – nel (OMISSIS), deve rilevarsi che a quella data il Ministero aveva già emanato il suddetto decreto che poneva “rigide regole per il controllo dei derivati ematici”, ciò che escluderebbe la sua responsabilità per omissione, non potendo ipotizzarsi che gli obblighi, in tale ambito, del convenuto si estendessero “allo specifico e minuto controllo di ogni singolo prodotto emoderivato”.

Orbene, secondo i ricorrenti, il riferimento al suddetto decreto ministeriale sarebbe erroneo, giacchè esso disciplina le trasfusioni di sangue e non la somministrazione di emoderivati (evenienza, quest’ultima, che ricorre nel caso in esame), sicchè sarebbe del tutto “illogico”, oltre che “ingiusto”, ipotizzare che l’emanazione di detto testo normativo “fosse solo anche astrattamente sufficiente a scongiurare il rischio di infezione”, esonerando il Ministero da responsabilità. Infatti, le prescrizioni contenute in quel decreto ministeriale “non autorizzavano affatto i singoli operatori sanitari a non utilizzare” i “lotti di emoderivati (tra cui i vaccini antitetanici)” all’epoca del fatto – 1990 – “in dotazione delle strutture sanitarie pubbliche”, l’uso dei quali, per contro, avrebbe dovuto essere interdetto laddove per la produzione “non c’era alcuna certezza che fosse stato utilizzato sangue sottoposto a rigorosi controlli”.

3.2. Il secondo motivo – anch’esso formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c..

Assumono i ricorrenti che il Ministero della sanità (oggi, salute) sin dai primi anni 70 del secolo trascorso – anzi, ancor prima, visto che già con circolare del 28 marzo 1966, n. 50, si era mostrato consapevole della crescente diffusione dell’epatite virale e della necessità di adottare misure profilattiche – era conscio della trasmissione attraverso il sangue del virus dell’epatite, di talchè esso avrebbe dovuto “adoperarsi più incisivamente e tempestivamente sia per fare controlli capillari, su ogni campione di sangue prelevato per le donazioni, sia soprattutto per escludere dal circuito dei donatori chiunque presentasse valori di transaminasi alterati (ovvero alterazioni delle funzioni epatiche, spia di possibili infezioni in atto) per evitare il diffondersi del contagio”.

Richiamate numerose pronunce di questa Corte, i ricorrenti assumono, da tale epoca, l’esistenza – a carico del Ministero – di “un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano”, del tutto “strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria”, obbligo la cui inosservanza integrerebbe, per l’appunto, una sua responsabilità extracontrattuale.

4. Ha resistito alla descritta impugnazione, con controricorso, il Ministero della Salute, eccependone in via preliminare l’inammissibilità, e deducendone, comunque, l’infondatezza.

5. Hanno presentato memoria i ricorrenti, insistendo nelle proprie argomentazioni.

6. Con ordinanza interlocutoria del 17 ottobre 2018, la trattazione del presente ricorso veniva rinviata a nuovo ruolo, in ragione della necessità di esaminarlo unitamente ad altri di analogo contenuto.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Il ricorso va accolto.

7.1. I motivi – suscettibili di trattazione unitaria, data la loro connessione – sono fondati.

7.1.1. Ancora di recente questa Corte, con riferimento ad un ricorso del Ministero della Salute diretto a dimostrare l’assenza della propria responsabilità in relazione a trattamenti trasfusionali aventi ad oggetto sangue rivelatosi infetto eseguiti dopo l’adozione del D.M. 21 luglio 1990, ha ritenuto che l’adozione di interventi normativi recanti direttive circa il corretto uso del sangue da destinare alle emotrasfusioni non esaurisca gli obblighi del Ministero e, di riflesso, l’ambito della propria responsabilità.

Si è, difatti, confermato che “il Ministero della salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine (anche) alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati, e risponde ex art. 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 10 maggio 2018, n. 11360, Rv. 648807-01, che richiama principi già enunciati – sebbene con riferimento ad interventi trasfusionali anteriori all’emanazione della L. n. 107 del 1990 e del relativo decreto ministeriale di attuazione – da Cass. Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008, n. 576, Rv. 600902-01; Cass. Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008, n. 584, non massimata.; si veda, altresì, in senso conforme, Cass. Sez. 3, sent. 27 aprile 2011, n. 9404, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 29 agosto 2011, n. 17685, Rv. 619471-01; Cass. Sez. 3, sent. 23 gennaio 2014, n. 1355, non massimata).

Richiamate, infatti, una pluralità di fonti normative, è stato, in particolare, affermato che “il dovere del Ministero della Salute di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure necessarie per verificarne la sicurezza, essendo tenuto ad evitare o ridurre i rischi a tali attività connessi”. In tale prospettiva si è precisato – per quanto specificamente attiene al tema oggetto del presente ricorso – che la “colpa della P.A. rimane d’altro canto al riguardo integrata anche in ragione della violazione dei dovuti comportamenti di vigilanza e controllo imposti dalle fonti normative più sopra richiamate, costituenti limiti esterni alla sua attività discrezionale ed integranti la norma primaria del “neminem laedere” di cui all’art. 2043 c.c.”, ed “in base alle quali essa è tenuta ad un comportamento attivo di vigilanza, sicurezza ed attivo controllo in ordine all’effettiva attuazione da parte delle strutture sanitarie addette al servizio di emotrasfusione di quanto ad esse prescritto al fine di prevenire ed impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto (…), non potendo invero considerarsi esaustiva delle incombenze alla medesima in materia attribuite la quand’anche assolta mera attività di normazione (emanazione di decreti, circolari, ecc.)”, come, appunto, il citato D.M. 21 luglio 1990″ (Cass. Sez. 6-3, ord. n. 11360 del 2018, cit.).

Si tratta di indirizzo, peraltro, non isolato, essendosi già affermato, sempre con riferimento ad interventi eseguiti dopo il 1992, che “il comportamento omissivo e comunque non diligente del Ministero nei controlli e nell’assolvimento dei compiti affidatigli attenga anche a quelli relativi all’attuazione del “Piano sangue”, previsto dalla L. n. 592 del 1967 (…) e realizzato solo nel 1994″ (Cass. Sez. 6-3, ord. 19 gennaio 2017, n. 1382, non massimata).

7.1.2. Il ricorso va, dunque, accolto, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per la decisione nel merito (oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio), che si atterà ai principi di cui sopra.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di Adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019

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