Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21788 del 07/09/2018

Cassazione civile sez. trib., 07/09/2018, (ud. 18/07/2017, dep. 07/09/2018), n.21788

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22313-2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

BANCO SARDEGNA SPA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CRESCENZIO

91, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO LUCISANO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato RAFFAELLO LUPI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 104/2009 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

SASSARI, depositata il 02/10/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/07/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO GRECO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. DE AUGUSTINIS UMBERTO, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, con tre motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sardegna che ne ha rigettato l’appello nel giudizio promosso dal Banco di Sardegna spa con l’impugnazione del silenzio rifiuto serbato dall’ufficio sulle istanze di rimborso dei maggiori versamenti effettuati a titolo di ritenute su conti correnti e depositi intestati a soggetti non residenti.

Tali somme in eccesso erano state versate nel corso dei periodi d’imposta 1993, 1994 e 1995, ma in sede di dichiarazione Mod. 770/bis la società contribuente aveva calcolato l’effettivo ammontare di quanto corrisposto erroneamente, e contestualmente aveva esposto l’effettivo ammontare delle ritenute operate e versate, ed in calce alla stessa dichiarazione aveva annotato la richiesta di rimborso delle somme indebitamente versate.

Il successivo 29 aprile 1999 aveva presentato formale istanza di rimborso, rimasta inevasa e ripetutamente sollecitata.

Il giudice d’appello ha rigettato l’impugnazione dell’ufficio, ritenendo di dover condividere la statuizione della Commissione provinciale, che aveva considerato inaccettabile l’assunto dell’ufficio che esclude dal rimborso D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis le dichiarazioni proposte dai sostituti d’imposta, letteralmente previsto dalla norma (“… sulla scorta dei dati e degli elementi desumibili dalle dichiarazioni stesse e dai relativi allegati”). “Il ricorso al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, cioè la presentazione dell’istanza di rimborso, si ha quando il credito non emerge dalla dichiarazione. Ma nel caso di specie (in cui) risulta dalla dichiarazione ed in essa è stato chiesto il rimborso:

quando un contribuente evidenzia un credito (Cass. n. 11830/2002), egli ha fatto già tutto quanto è necessario per ottenere il rimborso. Deve solo attendere che l’amministrazione eserciti il suo potere-dovere di controllo, al fine di confermare o meno l’esistenza del credito” (così la sentenza di primo grado).

La società contribuente resiste con controricorso, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte cui la contribuente ha replicato con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, in combinato disposto con il D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 38 e 41, l’amministrazione ricorrente censura la sentenza per aver ritenuto “legittimo il rimborso richiesto dal sostituto d’imposta che operi un versamento diretto eccedente le ritenute dovute per erronea determinazione della base imponibile su cui doveva calcolarsi l’effettiva ritenuta alla fonte, mediante lo strumento della liquidazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, laddove ciò comporterebbe violazione delle norme in rubrica che, correttamente intese nel senso che il rimborso delle imposte versate in eccesso dal sostituto d’imposta rispetto alle ritenute dovute non può operare d’ufficio mediante liquidazione della dichiarazione dei redditi, laddove l’errore materiale e di calcolo non sia evidente ed inequivocabile, derivando dalla mera lettura dei dati riportati in dichiarazione e non necessitanti ulteriore esame di documentazione, dovendosi, in tal caso, presentare idonea istanza di rimborso nei modi e termini di legge. (Ciò nella specie) avrebbe dovuto indurre il giudice a ritenere tardiva la richiesta di rimborso della parte ricorrente presentata il 29 aprile 1999 su versamenti eseguiti durante gli anni 1993, 1994 e 1995 per erronea determinazione della base imponibile su cui poi calcolare la ritenuta effettivamente dovuta”.

Il primo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

E’ inammissibile – perchè sembra non cogliere la ratio decidendi della pronuncia sul punto – nella parte in cui trascura di considerare che il legislatore ha costruito il giudizio tributario come giudizio impugnatorio, e nella specie la società contribuente aveva impugnato il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso, presentata il 29 aprile 1999, dei tributi versati in eccedenza, in qualità di sostituto d’imposta, per gli anni 1993, 1994 e 1995. Il giudice d’appello, condividendo la pronuncia di primo grado, ha ritenuto tempestiva la domanda di rimborso, e l’ha accolta, sul rilievo che “nel caso di specie il credito emerge dalla dichiarazione e in essa è stato chiesto il rimborso”; ed ha in proposito osservato che “quando un contribuente evidenzia un credito (Cass. n. 11830 del 2002), egli ha fatto già tutto quanto è necessario per ottenere il rimborso. Deve solo attendere che l’amministrazione eserciti il suo potere dovere di controllo, al fine di confermare o meno l’esistenza del credito”.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “in tema di imposte sui redditi, qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito d’imposta, non trova applicazione, ai fini del rimborso del relativo importo, il termine di decadenza previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 ma l’ordinario termine di prescrizione decennale, non occorrendo la presentazione di un’apposita istanza, in quanto l’Amministrazione, resa edotta con la dichiarazione dei conteggi effettuati dal contribuente, è posta in condizione di conoscere la pretesa creditoria” (Cass. n. 6940 del 2006; sulla configurabilità della indicazione di un credito di imposta nella dichiarazione come istanza di rimborso, Cass. n. 21734 del 2014; Cass. n. 10690 del 2018).

E’ invece infondato, alla luce dei principi appena esposti, nella parte in cui si sofferma sulla asserita scarsa versatilità dello strumento per la liquidazione delle dichiarazioni costituito dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, per affermare che il giudice avrebbe dovuto “ritenere tardiva la richiesta di rimborso della parte ricorrente presentata il 29 aprile 1999 su versamenti eseguiti durante gli anni 1993, 1994 e 1995 per erronea determinazione della base imponibile su cui poi calcolare la ritenuta effettivamente dovuta”.

Col secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., assume che “ordinando al contribuente la produzione di documenti a sostegno della pretesa di rimborso per garantire l’esigenza dell’ufficio di disporre di documenti leggibili per le bisogne processuali ripetutamente richieste, la CTR avrebbe violato le norme in rubrica che, correttamente intese nel senso che in forza del principio dispositivo nel processo tributario è onere della parte che agisce provare i fatti posti a sostegno della pretesa giuridica, potendo l’autorità giudiziaria ordinare l’esibizione di documentazione, decisiva per la soluzione della controversia, altrimenti impossibilitata a produrre ovvero e nelle ipotesi in cui la produzione documentale sia particolarmente onerosa, avrebbe imposto al giudice di decidere la controversia sulla base dei documenti presentati dalla parte nel primo grado del giudizio, non potendo l’autorità giudiziaria integrare la prova documentale non assolta dalla parte mediante l’ordine di esibizione di documentazione, peraltro in suo possesso, già prima dell’istaurarsi del giudizio”.

Il motivo è infondato, in quanto privo di specificità, non individuando l’amministrazione i documenti la cui produzione è preclusa – dopo l’abrogazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 3 – alla luce del principio secondo cui il giudice non può ordinare il deposito di documenti che sollevino la parte dall’onere della prova (cfr. Cass. n. 13152 del 2014, in motivazione).

Col terzo motivo, denunciando omessa motivazione su un punto decisivo della controversia l’amministrazione sostiene che “la CTR non avrebbe motivato la decisione impugnata con riferimento alla dedotta circostanza dell’ufficio nelle memorie illustrative della mancata prova del contribuente della sussistenza del diritto al rimborso, non avendo la parte depositato la documentazione contabile e fiscale attestante la determinazione dell’imponibile della relativa ritenuta, risultando invece dalle dichiarazioni dei redditi identità di versamenti e di ritenute operate. Dette circostanze se riscontrate, esaminate e valutate dal giudice di merito avrebbero indotto l’autorità giudiziaria ad accogliere il gravame dell’ufficio e ritenere non dovuto il rimborso per mancanza di prova”.

Il motivo è inammissibile.

Va ribadito infatti il consolidato principio secondo il quale “la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte” (Cass. n. 20322 del 2005).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 6.200 per compensi di avvocato oltre alle spese generali liquidate nella misura forfetaria del 15%.

Così deciso in Roma, il 18 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2018

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