Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21784 del 29/08/2019

Cassazione civile sez. III, 29/08/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 29/08/2019), n.21784

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8789/2017 proposto da:

SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA IL CASALE, in persona del legale

rappresentante pro tempore, M.E., elettivamente domiciliati

in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI 119, presso lo studio dell’avvocato

GIULIO DE CESARE, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI MONTEBUONO, in persona del Sindaco p.t., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 448, presso lo studio

dell’avvocato ELENA TULLI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5686/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/02/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Società Cooperativa Agricola “Il Casale” (d’ora in poi, “Il Casale”) ed M.E. ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 5686/16, del 29 settembre 2016, della Corte di Appello di Roma, che – pur accogliendo il gravame incidentale esperito dal M. contro la sentenza n. 82/10, del 5 marzo 2010, del Tribunale di Rieti, sezione distaccata di Poggio Mirteto – ha dichiarato inefficace nei confronti del Comune di Montebuono, ex art. 2901 c.c., l’atto di cessione di azienda e compravendita del 5 marzo 2007 con cui il M. aveva ceduto alla società “Il Casale” un compendio di beni comprendente la sua impresa agricola ed un immobile di sua proprietà.

2. Riferiscono, in punto di fatto, i ricorrenti di essere stati convenuti in giudizio dal Comune di Montebuono, il quale assumeva di essere creditore nei confronti del M., avendo emesso – ai sensi del R.D. 14 aprile 1910, n. 639, art. 2 e del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 52, comma 6 – due ingiunzioni di pagamento, per importi complessivi, l’una, di Euro 12.155,30, in relazione al mancato pagamento di bollette per fornitura d’acqua per gli anni 2006-2007, nonchè, l’altra, per l’ulteriore importo di Euro 12.030,46, comprensivo di interessi e sanzioni, per il mancato pagamento dell’ICI per gli anni dal 2002 al 2006.

A garanzia di tale credito l’attore esperiva azione revocatoria per la declaratoria di inefficacia del già indicato atto del 5 marzo 2007, chiedendo, subordinatamente, la condanna della società “Il Casale” al pagamento della somma di Euro 23.599,71, in solido con il cedente M., oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Nella contumacia del M., il Tribunale di Rieti, sezione distaccata di Poggio Mirteto, rigettata la domanda ex art. 2901 c.c., accoglieva parzialmente la domanda subordinata e, per l’effetto, dichiarava la società “Il Casale” obbligata in solido con il M. al pagamento della sola ingiunzione notificata il 30 novembre 2007, per l’importo di Euro 12.030,46 complessivi, relativo al solo omesso pagamento dell’ICI per gli anni dal 2002 al 2006.

Proponeva gravame principale il Comune di Montebuono, mentre la società “Il Casale” e il M., con i rispettivi appelli incidentali, chiedevano la declaratoria di nullità della sentenza di primo grado, insistendo, comunque, per il rigetto dell’appello principale.

La Corte capitolina, all’esito del giudizio di appello dichiarava la nullità della sentenza di primo grado, in quanto la contumacia del M. era stata dichiarata irritualmente, essendo decorsi nei sui confronti meno di 90 giorni, in violazione dell’art. 163-bis c.p.c., comma 1, tra la data di perfezionamento della notificazione della citazione ed il giorno della udienza di prima comparizione.

Nondimeno, la Corte romana – pur dichiarando la nullità della sentenza del Tribunale reatino nei confronti anche della società “Il Casale”, in quanto litisconsorte necessario – faceva applicazione del principio secondo cui alla declaratoria di nullità, non sanata dalla proposizione dell’appello da parte del convenuto contumace, non poteva seguire la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., dovendo, pertanto, il giudice di appello trattare la causa nel merito, rinnovando gli atti dichiarati nulli, quando ciò risulti possibile e necessario, ai sensi dell’art. 162 c.p.c..

Su tale presupposto, pertanto, giudice di appello, esaminata nel merito la domanda attorea, accoglieva – senza dare corso ad alcuna istruttoria – l’azione revocatoria proposta dal Comune di Montebuono.

3. Avverso tale ultima decisione hanno proposto ricorso per cassazione il M. e la società “Il Casale”, sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si ipotizza violazione e falsa applicazione dell’art. 354 c.p.c..

Ci si duole del fatto che la Corte capitolina – pur essendosi conformata all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, dichiarata in appello la nullità del giudizio di primo grado per irregolare “vocatio in ius” nei confronti di una parte convenuta litisconsorte necessaria in una causa inscindibile, non risulta necessaria la rimessione al primo giudice – ha direttamente deciso la causa nel merito, lungi invece dal procedere, come necessario, ad una rinnovata “trattazione” della stessa. La decisione nel merito le sarebbe stata preclusa – secondo i ricorrenti – dal fatto che la nullità della decisione di primo grado aveva determinato l’invalidità dell’attività istruttoria espletata in tale sede, attività, pertanto, da rinnovarsi necessariamente, al fine di garantire l’effettivo rispetto del principio del contraddittorio, come stabilito dall’art. 111 Cost., comma 2.

Si assume, in altri termini, che la Corte territoriale avrebbe dovuto rimettere la causa sul ruolo istruttorio, onde concedere i termini di cui all’art. 183 c.p.c., al fine di consentire a tutte le parti del giudizio l’articolazione dei rispettivi mezzi istruttori.

3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si ipotizza falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c..

Si contesta la sentenza impugnata laddove ha affermato che le modalità di corresponsione, da parte della società “Il Casale”, del prezzo di acquisto del compendio aziendale (essendosi l’acquirente accollato integralmente il debito ipotecario del M. nei confronti di un istituto bancario, per l’importo di Euro 2.300.000,00) avrebbe pregiudicato ogni possibilità, per il Comune, di aggredire il predetto prezzo, rendendo certamente più difficile la soddisfazione del proprio credito.

Orbene, considerata l’assoluta sproporzione tra l’entità del debito azionabile, in via diretta, dal Comune nei confronti della società “Il Casale” (pari ad appena Euro 12.030,46) ed il valore del contratto concluso tra di essa e il M., nonchè, soprattutto, del credito ipotecario vantato dall’istituto bancario, in forza di ipoteche trascritte antecedentemente al sorgere del credito per cui è causa, si sarebbe dovuto escludere che la vendita dell’azienda avesse determinato un concreto mutamento della situazione patrimoniale del M., tale da rendere effettivamente più difficoltoso il soddisfacimento del credito vantato dall’attore in revocatoria, ciò che dovrebbe escludersi quando, come nella specie, non sia stata mai intrapresa alcuna azione esecutiva rivelatasi infruttuosa.

Rilevano, inoltre, i ricorrenti che la Corte romana avrebbe omesso di valutare correttamente la circostanza che proprio il Comune, nel suo atto di appello, aveva dichiarato e documentato di aver effettuato delle visure catastali dalle quali risultava che il M. era titolare di quote societarie, sulle quali l’attore in revocatoria avrebbe potuto soddisfarsi.

Avendo ignorato tale circostanza, la Corte di Appello avrebbe determinato una illegittima e gravosa inversione dell’onere probatorio relativamente alla sussistenza del presupposto dell’azione revocatoria costituito dal cd. “eventus damni”.

D’altra parte, si censura la sentenza impugnata anche laddove ha ritenuto che il M. non avesse assolto l’onere probatorio di dimostrare la concreta insussistenza del rischio dell’infruttuosità dell’esecuzione da parte del Comune, in ragione del possesso di ulteriori disponibilità materiali in grado di soddisfare le pretese creditorie dello stesso. Tale mancato assolvimento sarebbe proprio la conseguenza della decisione della Corte di omettere la trattazione della causa nel merito, nonchè di basare la propria decisione su produzioni documentali da ritenersi, invece, inefficaci, perchè travolte dalla declaratoria di nullità della sentenza di primo grado

Difetterebbero, infine, anche i presupposti della “scientia dammi”, in capo al M. e della “partecipatio fraudis” in capo alla società “Il Casale”, dovendo quest’ultima escludersi tutte le volte in cui non vi sia alcuna sperequazione tra il prezzo di mercato e il valore del bene ceduto. D’altra parte, a dimostrazione della stessa, non potrebbe farsi valere il piano di rientro dalla morosità del 29 giugno 2006, posto invece dalla Corte di Appello a fondamento della propria pronuncia, non solo perchè si tratta di documentazione da ritenersi nulla (per la ragione già sopra indicata), ma anche perchè dalla documentazione in atti risulta l’intervenuto pagamento e depennamento di somme corrisposte nel tempo, rimanendo, pertanto, da corrispondere solo alcuni importi per canoni idrici che, non essendo equiparabili ad alcuna imposta comunale, non determinerebbero alcuna solidarietà della società “Il Casale”.

3.3. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si ipotizza violazione dell’art. 92 c.p.c., nonchè del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, ovvero falsa applicazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

I ricorrenti si dolgono del fatto che, pur essendo stato l’appello incidentale proposto dal M. parzialmente accolto, tanto da aversi la declaratoria di nullità della sentenza di primo grado, la Corte di Appello non ha disposto la compensazione delle spese di lite, pur potendo configurarsi una soccombenza reciproca.

4. Il Comune di Montebuono ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

L’inammissibilità del ricorso è eccepita, in particolare, sotto il profilo del difetto di autosufficienza del ricorso.

Quanto, poi, al primo motivo, si sottolinea come nella specie non potesse darsi corso ad una richiesta di rimessione in termini in favore di un convenuto che, pur avendo avuto piena conoscenza del processo, ha preferito rimanere contumace per poi confidare in una invalidazione dell’intero processo.

In relazione, invece il secondo motivo di ricorso si osserva, per un verso, come l’azione revocatoria possa essere esperita anche a tutela di una mera aspettativa creditoria, nonchè, per quanto attiene al suo presupposto soggettivo, che nel caso di atto dispositivo a titolo oneroso, successivo al sorgere del credito, si richiede in capo al debitore e al terzo semplicemente la consapevolezza di diminuire la garanzia patrimoniale generica del creditore.

Si sottolinea, infine, come gli unici soci della società “Il Casale” risultino le figlie del M. e la consorte dello stesso, D.C.A., legale rappresentate della società.

Infine, quanto al terzo motivo di ricorso si rileva come, in sede di legittimità, possano essere denunciate o violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo, in tal caso, di indicare le voci contestate.

5. Entrambe le parti hanno presentato memoria insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso è fondato, sebbene nei limiti di seguito precisati.

6.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

6.1.1. In particolare, con la sua proposizione, i ricorrenti lamentano che la Corte capitolina ha ritenuto di poter decidere immediatamente sull’oggetto della controversia, pur rilevando l’esistenza di una nullità (del giudizio di primo grado) per mancata regolare instaurazione del contraddittorio che le avrebbe imposto la rinnovazione dell’istruttoria.

In proposito occorre notare che, secondo questa Corte, qualora “venga dedotta la nullità della citazione come motivo d’appello, in applicazione del principio della conversione delle nullità in motivo di gravame, gli effetti della sua rilevazione da parte del giudice sono regolati in conformità all’art. 294 c.p.c., equivalendo la proposizione dell’appello a costituzione tardiva nel processo, di talchè il convenuto contumace, pur avendo diritto alla rinnovazione dell’attività di primo grado da parte del giudice di appello (ai sensi dell’art. 354 c.p.c., comma 4), intanto potrà essere ammesso a compiere le attività che sono colpite dalle preclusioni verificatesi nel giudizio di primo grado, in quanto dimostri che la nullità della citazione gli abbia impedito di conoscere il processo e, quindi, di difendersi, se non con la proposizione del gravame: situazione che, peraltro, può verificarsi solo in ipotesi di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adito in primo grado, occorrendo, in ogni altra ipotesi, la dimostrazione (del tutto residuale) che le circostanze del caso concreto abbiano determinato anche la mancata conoscenza della pendenza del processo” (così Cass. Sez. 6-3, sent. 7 maggio 2013, n. 10580, Rv. 626032-01, in senso conforme, Cass. Sez. 1, sent. 26 luglio 2016, n. 15414, Rv. 640945-01).

6.2. Il secondo motivo è, invece, fondato.

6.2.1. Attraverso di esso viene dedotta, in sostanza, sebbene “sub specie” di violazione dell’art. 2901 c.c., la falsa applicazione delle norme in tema di presunzioni, in relazione alla prova dei presupposti della proposta azione revocatoria.

Al riguardo, in effetti, va notato che la Corte capitolina non ha correttamente applicato le regole che governano il ragionamento presuntivo. Invero, la considerevole sproporzione tra il prezzo di acquisto del compendio aziendale (pari a Euro 2.300.000,00 e corrispondente, tra l’altro, al valore di mercato dello stesso) e il modestissimo importo – ammontane a poche migliaia di Euro – del credito vantato dall’attore in revocatoria, non poteva, di certo, far presumere che la società “Il Casale” ed il M. fossero consapevoli, con l’atto di compravendita del 5 marzo 2007, di recare pregiudizio alle ragioni creditorie del Comune di Montebuono.

A tacer d’altro, dunque, la presunzione utilizzata dalla Corte territoriale difetta del requisito della gravità, se è vero che essa si identifica con “un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche “lex artis”)”, esprimendo nient’altro che “la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B”, non essendo, invece, “condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia “certa”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto). Difatti, sebbene “per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria)”, occorre, comunque, “che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'”id quod plerumque accidit” (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica)” (Cass. Sez. 3, sent. n. 17457 del 2007, cit.).

Nella specie, per la ragioni di cui si diceva, deve escludersi che, secondo il criterio dell'”id quod plerumque accidit”, potesse ritenersi, in capo agli odierni ricorrenti, il presupposto della “scientia damni”.

6.2.2. D’altra parte, poi, che un sindacato siffatto – richiesto, nella sostanza, dagli odierni ricorrenti, quantunque essi evochino la violazione dell’art. 2901 c.c. e non delle norme in tema di presunzioni (circostanza sulla quale si tornerà appena di seguito) sia consentito in sede di legittimità, è quanto affermato, più volte, da questa Corte.

Difatti, “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; in senso sostanzialmente analogo pure Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01).

6.2.3. D’altra parte, e per concludere sul punto, non osta – come si notava – all’accoglimento del motivo la circostanza che i ricorrenti non abbiano dedotto la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Sul punto è sufficiente ribadire – sulla base di quanto chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte – come l’onere della “specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), secondo cui il ricorso deve indicare “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano” non debba essere inteso quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360 c.p.c., comma 1, cui si ritenga di ascrivere il vizio, nè di precisa individuazione degli articoli, codicistici o di altri testi normativi (nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali), comportando invece l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo d’impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360″ citato (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sentenza 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268-01).

6.3. Il terzo motivo resta assorbito dall’accoglimento del secondo.

7. All’accoglimento del secondo motivo di ricorso segue, dunque, la cassazione della sentenza impugnata, nonchè la decisione nel merito della controversia, ai sensi della seconda alinea dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, giacchè le considerazioni circa l’impossibilità di ravvisare la “scentia damni” i capo ai ricorrenti impongono l’immediato rigetto dell’azione revocatoria.

8. L’alterno esito dei giudizi di merito costituisce “giusto motivo”, ex art. 92 c.p.c., comma 2 (nel testo di cui alla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) per l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite, ivi compresa la presente fase di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, limitatamente al secondo motivo, e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la proposta azione revocatoria, compensando integralmente tra le parti le spese del giudizio, compresa la presente fase di legittimità.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019

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