Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21778 del 29/08/2019

Cassazione civile sez. III, 29/08/2019, (ud. 18/01/2019, dep. 29/08/2019), n.21778

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7972-2017 proposto da:

C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA C. COLOMBO

436, presso lo studio dell’avvocato BIANCA MARIA CARUSO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIA D’ALESSANDRO;

– ricorrente –

contro

M.N.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 100/2017 del TRIBUNALE di BARI, depositata il

13/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/01/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. C.V., ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 100/17, del 13 gennaio 2017, del Tribunale di Bari, che – respingendo il gravame da esso esperito contro la sentenza 7498/08, del 5 novembre 2008, del Giudice di pace di Bari – ha rigettato la domanda risarcitoria, avanzata dall’odierno ricorrente nei confronti di M.N., in relazione a danni da infiltrazione d’acqua cagionati al proprio appartamento, sito alla (OMISSIS) del capoluogo pugliese.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver convenuto in giudizio il M., lamentando che dall’appartamento di costui, sovrastante il proprio, avevano avuto origine fenomeni infiltrativi d’acqua, causa di danni al suo immobile, stimati nella misura di Euro 1.000,00.

Costituitosi in giudizio il convenuto, costui – nel contestare esclusivamente il “quantum debeatur” – offriva “banco iudicis” la somma di Euro 420,00, quale tentativo di conciliare bonariamente la causa, adducendo l’esistenza di una supposta “mora credendi” per giustificare il proprio rifiuto di corrispondere l’importo indicato dall’attore. Essendo stata tale offerta rifiutata dal C. (dopo che, in un primo momento, si era dato atto a verbale dell’accettazione della stessa in acconto rispetto alla maggior somma da esso richiesta), entrambe le parti chiedevano espressamente la nomina di un consulente tecnico, che accertasse l’entità del lavoro da effettuare per la rimessione in pristino dell’immobile, quantificandone, così, il relativo costo. Ritenuta, tuttavia, dal primo giudice la causa matura per la decisione, il medesimo, sulla base della documentazione fotografica allegata, stimato il danno lamentato dall’attore in Euro 600,00, condannava il convenuto a versare la residua somma di Euro 180,00, senza fornire spiegazioni alcuna sul perchè il M. non dovesse corrispondere anche il residuo importo di Euro 420,00 dallo stesso offerto in corso di causa, ma non accettato dall’attore.

Proponeva gravame l’odierno ricorrente, lamentando la “violazione di tutti i principi informatori del processo”, ed in particolare del “principio di difesa e del regolare contraddittorio”, essendo stata negata da entrambe le parti la possibilità di provare le proprie rispettive posizioni, ed in particolare, all’attore, di dimostrare tanto che la perdita d’acqua era proseguita per parecchi mesi, non essendo stata prontamente riparata, con conseguente aggravarsi del pregiudizio subito, quanto, soprattutto, l’assenza della eccepita “mora credendi”.

Il proposto gravame veniva rigettato dal Tribunale di Bari, sul rilievo che, essendo quella resa dal Giudice di pace una pronuncia secondo equità, la stessa, ai sensi dell’art. 339 c.p.c., comma 3, poteva formare oggetto di appello unicamente per lamentare violazione delle norme sul procedimento, di quelle costituzionali o comunitarie, ovvero dei principi regolatori della materia.

In particolare, il giudice di appello ha ritenuto inammissibile, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., la censura di violazione dei principi regolatori della materia, in quanto formulata con riferimento a tutti i principi informatori dell’ordinamento, escludendo, inoltre, la violazione dell’art. 112 c.p.c., sul rilievo che la questione concernente la “mora credendi”, peraltro dedotta dal convenuto e non dall’attore appellante, non avesse assunto alcun rilievo fattuale o giuridico nella decisione del primo giudice. Nè, infine, sarebbe stata ravvisabile, secondo il Tribunale barese, la mancata applicazione di principi fondamentali in tema di ripartizione dell’onere probatorio e di diritto di difendersi provando. Difatti, nella specie, non sarebbe apprezzabile alcuna violazione dell’art. 2697 c.c., anche tenuto conto del fatto che tale norma pone una regola di diritto sostanziale e la sua violazione dà luogo ad un “error in iudicando”, mentre, quanto alla supposta violazione del diritto di difesa, il Giudice di pace si sarebbe imitato a ritenere, nell’ambito dei suoi poteri valutativi sui mezzi istruttori, la causa sufficientemente istruita sul piano documentale, su tale base negando l’accesso tanto alla prova testimoniale quanto alla richiesta CTU.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione il C., sulla base di due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione degli artt. 24,101 Cost. e art. 111 Cost., comma 7, nonchè degli artt. 1226 e 2697 c.c., oltre che degli artt. 191 e 320 c.p.c. e dell’art. 118disp. att. c.c. (recte: c.p.c.), il tutto in relazione all’applicazione dell’art. 339 c.p.c., comma 3.

Inoltre, è dedotta anche violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 61 e 191 c.p.c.

Ci si duole del fatto che, pur in presenza di una espressa ammissione, da parte del primo giudice, di non poter valutare ed apprezzare l’entità del danno, sulla base della documentazione versata in atti, la sentenza impugnata abbia avallato la conclusione dallo stesso raggiunta, consistita nel ritenere congruo – ma senza che vi fosse alcuna prova in tal senso, o alcun motivo a sostegno di tale esito – il preventivo di spesa prodotto dal convenuto.

Il giudice di appello, dunque, avrebbe applicato in modo falsato l’art. 339 c.p.c., comma 3, laddove ha escluso esservi stata violazione delle norme sul procedimento, o dei principi regolatori della materia, perchè la corretta applicazione delle une come degli altri avrebbe richiesto che ambo i giudici di merito dessero corso all’unico strumento idoneo a consentire la quantificazione del danno, ovvero il licenziamento di CTU percipiente. Per la medesima ragione erronea, inoltre, sarebbe l’applicazione dell’art. 1226 c.c., pure richiamato dal Tribunale di Bari a fondamento della propria decisione.

3.2. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. nonchè, in relazione all’art. 339 c.p.c., comma 3, dell’art. 12 preleggi, e, più in generale, di tutti i principi di interpretazione letterale di un testo, oltre che l’art. 221 c.p.c.

Si contesta la sentenza impugnata, laddove essa darebbe rilievo ad una circostanza assolutamente non veritiera, vale a dire che nel corso del giudizio di primo grado il legale dell’odierno ricorrente avrebbe accettato, a titolo di anticipo sulla maggior somma richiesta, il pagamento dell’importo di Euro 420,00, circostanza invece esclusa dallo stesso convenuto nella propria comparsa conclusionale, dalla quale risulterebbe come la sua disponibilità a dare corso a tale pagamento sarebbe stata, invece, disattesa.

4. Non ha proposto controricorso l’intimato.

5. Ha presentato memoria il ricorrente, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso è inammissibile.

6.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

6.1.1. Tale esito si impone, innanzitutto, sul rilievo che la censura – quanto alla (già) dedotta violazione dei principi regolatori della materia – non coglie, nè contrasta, la “ratio decidendi” della pronuncia di appello, che è fondata sulla riscontrata violazione dell’art. 342 c.p.c. per genericità del motivo di gravame (allora) proposto.

Pertanto, in relazione a tale censura, in cui il presente motivo si articola, deve farsi applicazione del principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1., ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

Quanto, invece, alla statuizione del giudice di appello che ha escluso la violazione dei principi fondamentali in materia di ripartizione degli oneri probatori, essa risulta corretta, sottraendosi alla censura al riguardo formulata, sempre con il presente motivo di ricorso. La dedotta violazione dell’art. 2697 c.c. è, infatti, nuovamente “fuori fuoco”, giacchè essa, nel giudizio di legittimità, “è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01), e non certo con riferimento all’apprezzamento che il giudice di merito abbia fatto delle risultanze probatorie. Una valutazione, questa, che si sottrae – in questa sede – ad ogni censura, visto che l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01).

6.2. Il secondo motivo di ricorso è, egualmente, inammissibile.

6.2.1. Quello dedotto dal ricorrente risulta essere un “errore revocatorio”, giacchè, attraverso di esso, si assume che il giudice di appello avrebbe travisato la portata uno scritto defensionale del convenuto, nel quale si sarebbe dato atto della mancata accettazione – da parte dell’attore – dell’importo di Euro 420,00, come anticipazione della maggior somma richiesta per il risarcimento del danno.

Posto, dunque, che l’errore revocatorio consiste “in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti sottoposti a giudizio, concretatasi in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali” (così, tra le tante, Cass. Sez. 5-1, ord. 13 gennaio 2015, n. 321, Rv. 634143-01), siffatto vizio avrebbe dovuto essere fatto valere a norma dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4).

7. Nulla va disposto quanto alle spese, essendo rimasto il M. solo intimato.

8. A carico del ricorrente, stante l’inammissibilità del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 18 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2019

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