Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21778 del 07/09/2018

Cassazione civile sez. trib., 07/09/2018, (ud. 23/06/2017, dep. 07/09/2018), n.21778

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11140/2011 proposto da:

M.C.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE

PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO D’AYALA VALVA,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANDREA BODRITO

e GIANNI MARONGIU;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 43/2010 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 12/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/06/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO GRECO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa SANLORENZO Rita, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.C.G. propone ricorso per cassazione con quattro motivi nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, rigettandone l’appello, ha confermato il fondamento dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEF, dell’IRAP e dell’IVA per l’anno 2002, con il quale, facendo applicazione dei parametri previsti dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 181 e segg. e del D.P.R. n. 195 del 1999, art. 4, all’esito del contraddittorio, venivano determinati a carico del contribuente, violinista, compensi, “con riferimento alle specifiche caratteristiche dell’attività svolta, in base ai parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, come modificato dal D.P.C.M. 27 marzo 1997, dai dichiarati Euro 5.496 da lavoro autonomo in Euro 112.788”. Oltre alla determinazione di maggiori IRPEF, addizionale regionale, IRAP e IVA, venivano irrogate le conseguenti sanzioni.

Il giudice d’appello, premesso che al fine di superare la presunzione legale (così definita perchè è la legge che attribuisce, in via generale, ad un fatto valore probatorio in ordine ad un fatto diverso, che viene quindi presunto) integrata dai parametri, non solo non sono stati esposti specifici fatti e circostanze ambientali, personali, familiari, lavorativi, “per come correttamente evidenziato nella sentenza di primo grado, integranti la cosiddetta prova storica… ma presunzioni hominis (come l’estratto di un c/c bancario, quasi fosse impossibile essere intestatari di altri conti, quale indice di capacità contributiva; l’antichità, il prezzo e la qualità del suono di un violino, in sè e per la virtuosità nel suonarlo, quale scriminante retributiva; il feeling con i direttori artistici e di orchestra quale viatico per le assunzioni ed indice della precarietà del lavoro; la dispendiosità psico fisica e finanziaria del lavoro come prova del modesto reddito), inidonee, in sè, e perchè si prestano ad una lettura non univoca, ad assurgere al rango di prova logica”.

Osserva ancora il giudice d’appello che il contribuente, pur concordando “con l’ufficio circa la rideterminabilità del reddito da lavoro autonomo, anche se lo fissa in Euro 40.000 – 45.000 annui, sottintende capziosamente come parametri gli stipendi percepiti quale orchestrale della (OMISSIS) e del (OMISSIS), piuttosto che gli effettivi compensi ricevuti dalle fondazioni ed enti lirico sinfonici di diritto privato per conto dei quali suona come libero professionista e che, a suo stesso dire, non pagano in nero, ma su fattura. Non avendo, però, formulato alcuna specifica domanda in tal senso (petitum), rende impossibile una pronunzia non inficiata dall’insanabile vizio di petizione”.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Col primo motivo, denunciando violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39,L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 179-189, D.P.C.M. 29 gennaio 1996, modificato con il D.P.C.M. 27 marzo 1997, assume che lo scostamento del reddito accertato in base ai parametri rispetto a quello dichiarato costituisce un mero elemento di prova inidoneo, da solo a provare la riferibilità del reddito parametrico al contribuente, essendo invece necessaria, da parte dell’ufficio, la prospettazione di articolati elementi di riscontro appartenenti alla fattispecie concreta idonei a formare un quadro d’isieme che integri i requisiti della gravità, precisione e concordanza.

Con il secondo motivo, denunciando la violazione degli artt. 2697 e 2728 c.c., assume che, applicando la seconda disposizione in rubrica, secondo cui le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite accertati, la sentenza impugnata sarebbe errata per aver ritenuto l’amministrazione dispensata dal provare, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, la plausibilità dello scostamento tra il reddito dichiarato dall’esponente e quello attribuitogli in base alla indicazione parametrica.

Con il terzo motivo, denunciando “insufficiente e illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.”, sostiene che il giudice d’appello avrebbe comunque errato nella valutazione delle prove fornite dall’esponente su aspetti specifici della sua attività per contrastare la plausibilità, nel caso concreto, dell’accertamento parametrico eseguito dall’amministrazione: ciò risulterebbe dalla motivazione, insufficiente o illogica.

I tre motivi, da trattare congiuntamente in quanto strettamente legati, sono infondati.

Questa Corte ha infatti chiarito come “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. sez. un., 18 dicembre 2009, n. 26635; Cass. n. 9484 del 2017). Si è in particolare precisato che “l’ufficio che procede ad accertamento dell’imposta sui redditi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), avvalendosi, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, dei parametri per la determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari previsti dal successivo comma 184, e poi specificati dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, non deve apportare alcun elemento atto a confortare il proprio diverso accertamento, perchè quelli considerati nell’elaborazione dei parametri stessi e l’applicazione di questi ai dati esposti dal singolo contribuente hanno già i caratteri della presunzione legale, quali richiesti dell’art. 2728 c.c., comma 1 e sono, di per sè, idonei a fondare un corrispondente accertamento, restando comunque consentito al contribuente di provare, anche con presunzioni, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, l’inapplicabilità dei parametri alla sua posizione reddituale” (Cass. n. 10242 del 2017).

Una “controprova” siffatta, utile a dimostrare l’inapplicabilità nella specie degli standard, il contribuente non ha fornito.

Ed il giudice d’appello per un verso ha spiegato quale fosse il carattere degli elementi offerti (“… non solo non sono stati esposti specifici fatti e circostanze ambientali, personali, familiari, lavorativi, per come correttamente evidenziato nella sentenza di primo grado, integranti la cosiddetta prova storica…”), e per altro verso ha poi dato conto delle ragioni per le quali gli elementi, portati dal contribuente, erano stati ritenuti non rilevanti “(come l’estratto di un c/c bancario, quasi fosse impossibile essere intestatari di altri conti, quale indice di capacità contributiva; l’antichità, il prezzo e la qualità del suono di un violino, in sè e per la virtuosità nel suonarlo, quale scriminante retributiva; il feeling con i direttori artistici e di orchestra quale viatico per le assunzioni ed indice della precarietà del lavoro; la dispendiosità psico fisica e finanziaria del lavoro come prova del modesto reddito), (elementi) inidonei, in sè, e perchè si prestano ad una lettura non univoca, ad assurgere al rango di prova logica”.

Il terzo motivo, in particolare, si rivela quindi privo di pregio, perchè diretto a porre in luce errori di valutazione del giudice di appello che, come si è visto, non è dato ravvisare nell’articolata motivazione della sentenza concernente la prova, coerente immune da vizi logici.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 5.000, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2018

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