Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21775 del 20/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 20/10/2011, (ud. 06/05/2011, dep. 20/10/2011), n.21775

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 34696-2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

M.L., MA.LU., m.l., ma.

l., elettivamente domiciliati in ROMA VIA CONFALONIERI 2 presso

lo studio dell’avvocato SATRIANO ROCCO, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MANCINI LUIGI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 101/2005 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 22/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/05/2011 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro che ha concluso per l’infondatezza – rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Decidendo sulla controversia tributaria avente ad oggetto la opposizione del contribuente ma.lu. – in proprio e quale dichiarante coobbligato con il coniuge deceduto R.A. – e dei figli M.L., Lu. e l. -n.q. di eredi di R.A. – all’avviso di accertamento ai fini IRPEF ed ILOR emesso dall’Ufficio di Pisa della Agenzia delle Entrate, in seguito a due processi verbali di verifica redatti dalla Guardia Finanza, in rettifica della dichiarazione dei redditi per l’anno 1996, con il quale venivano recuperati maggiori redditi per L. 845.294.000 derivanti da attività commerciale occasionale nonchè maggiori compensi da attività professionale per L. 170.041.000, la sez. 17^ della CTR di Firenze, con sentenza n. 101 in data 22.10.2005, in parziale accoglimento dell’appello proposto dall’Ufficio, rideterminava nella misura forfetaria presunta del 50% – in luogo del 60% riconosciuto dalla CTP- le spese deducibili dal maggior reddito professionale accertato, confermando per il resto la sentenza di prime cure che aveva annullato l’avviso relativo all’accertamento di maggiori “redditi diversi” non dichiarati, derivanti dalla attività di vendita di auto d’epoca.

I Giudici di appello, quanto alla rivendita di auto d’epoca, ritenevano insussistente lo svolgimento di attività commerciale non abituale in quanto i caratteri della organizzazione e della professionalità si presentavano attenuati, l’attuazione di un intento speculativo riferito ad una sistematica attività di compravendita contrastava con la difficile prevedibilità di una variazione dei prezzi caratterizzati da offerta di mercato rarefatta, le vetture rivendute nell’anno 1996 non erano state acquistate di recente e quindi difettava l’indizio della preordinazione dell’acquisto alla finalità di rivendita. Quanto all’accertamento dei maggiori compensi professionali, ritenevano corretto l’accertamento induttivo dell’Ufficio D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39 – non avendo il contribuente tenuto il registro previsto dall’art. 19 del medesimo Decreto, ma illegittima la mancata determinazione con il medesimo metodo induttivo anche dei costi inerenti, che venivano quindi dedotti nella misura del 50% pari a quella indicata dal contribuente nella dichiarazione.

Avverso la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a quattro mezzi di gravame, la Agenzia delle Entrate, con atto consegnato all’Ufficiale giudiziario il 6.7.2008 e ritualmente notificato ai sensi dell’art. 149 c.p.c., presso il domicilio eletto dal contribuente, in data 7.7.2008.

Hanno resistito gli intimati con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. La sentenza della Commissione tributaria della regione Toscana esclude la riconducibilità della fattispecie concreta nella categoria dei “redditi diversi” (redditi derivanti da attività commerciali esercitate non abitualmente) di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, comma 1, lett. i) e art. 85, comma 2 nel testo vigente “ratione temporis”, in base alle seguenti ragioni tratte dai fatti emersi “dalla documentazione di causa”:

– i requisiti della organizzazione e della professionalità non emergono evidenti;

– l’attività non può svolgersi con sistematicità in quanto l’intento speculativo è difficilmente perseguibile a causa della scarsa prevedibilità di variazioni dei prezzi dovuta alla rarefazione della offerta;

– le vetture vendute nel 1996 erano state acquistate diversi anni prima dal contribuente e quindi tale acquisto non poteva ritenersi preordinato alla futura rivendita;

– l’Ufficio finanziario è tenuto alla deduzione dei costi sostenuti per la produzione di reddito (in una misura percentuale presunta) anche nel caso in cui procede ad accertamento induttivo dell’imponibile per omessa tenuta delle scritture contabili, in quanto diversamente “si viene a creare una materia imponibile economicamente inesistente , che non esprime più la reale capacità contributiva con la conseguenza di aggiungere alle sanzioni vere e proprie, previste dalla normativa fiscale, una sanzione indiretta”.

La determinazione di tali costi non può comunque eccedere l’ammontare che, eventualmente, risulti indicato dallo stesso contribuente nella dichiarazione infedele.

2. La Agenzia delle Entrate censura la sentenza di appello:

A) in relazione alla disconosciuta imponibilità, come redditi diversi, dei compensi ritratti dalla vendita di auto d’epoca, con riferimento – alla violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 81, comma 1, lett. i), art. 85, comma 2 vigente “ratione temporis”. – alla omessa motivazione su un punto decisivo della controversia;

B) in relazione alla ritenuta deducibilità dal maggior reddito di lavoro autonomo, accertato induttivamente, di costi non dichiarati calcolati forfetariamente nel 50% dell’importo predetto, con riferimento;

– alla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 50 (testo vigente ratione temporis) e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 19.

p.3. I resistenti hanno controdedotto rilevando:

– quanto ai motivi di ricorso concernenti il mancato riconoscimento dei “redditi diversi”: 1- la inapplicabilità alla fattispecie del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, comma 1, lett. i) (TUIR) dovendo distinguersi tra atti di commercio isolati ed attività occasionale produttiva di reddito; 2- la erronea determinazione da parte dell’Ufficio dei ricavi derivati dalla vendita dei veicoli d’epoca desunti dai flussi rilevati dai conti correnti bancari senza applicazione di detrazione delle spese sostenute;

– quanto ai motivi di ricorso relativi alla contestata deducibilità, in misura percentuale forfetaria, delle spese inerenti alla produzione dei maggiori redditi da lavoro autonomo: la correttezza dell’operato della CTR che aveva applicato la deduzione forfetaria delle spese sui maggiori redditi di lavoro autonomo accertati dall’Ufficio.

Concludono per il rigetto del ricorso.

p.4. I motivi dedotti sub lett. A), che possono esaminarsi congiuntamente attesa la loro connessione, non possono accedere al sindacato di legittimità, difettando il ricorso del requisito di autosufficienza.

La Commissione regionale ha ritenuto che i maggiori introiti derivanti dalla vendita dei veicoli d’epoca non fossero riconducibili alla categoria “redditi diversi”, e più specificamente ai redditi individuati dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, comma 1, lett. i), (nel testo vigente ratione temporis: “Sono redditi diversi, se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, nè in relazione alla qualità di lavoratore dipendente:

…omissis…; i) i redditi derivanti da attività commerciali non esercitate abitualmente;…”. L’art. 85, comma 2 T.U.I.R., concernente la deducibilità delle spese sostenute per la produzione di tali redditi, non viene in questione nel presente giudizio), in quanto, premesso che l’avviso di accertamento faceva seguito a due processi verbali di constatazione, “dalla documentazione di causa” emergeva che il contribuente aveva collezionato veicoli d’epoca, acquistandoli in date imprecisate e poi, occasionalmente, rivendendone soltanto alcuni e dopo molti anni, concludendo che tali circostanze di fatto “non rappresentavano una attività imprenditoriale e commerciale, esercitata con intento speculativo e con organizzazione di mezzi e personale”.

Orbene rilevato che la indicata categoria reddituale è determinata, dalla norma del T.U.I.R., in negativo (redditi non riconducibili a quelli di impresa o di lavoro autonomo, od a redditi da lavoro dipendente), e che, con specifico riferimento al reddito di impresa, trova espressa differenziazione per la assenza dell’elemento della “abitualità” – id est del carattere continuativo e professionale – nell’esercizio dell’attività di natura commerciale, non è dubbio che – indipendentemente dagli ulteriori elementi presi in considerazione nella sentenza, quali la mancanza di una organizzazione in forma di impresa, e la assenza di intento speculativo – i Giudici di merito hanno inteso escludere del tutto, nella specie, il presupposto dello svolgimento di una “attività commerciale” -anche se priva dei caratteri della abitualità-, sì da precludere la sussunzione della fattispecie, in concreto rilevata, nello schema astratto della categoria reddituale prevista dall’art. 81, comma 1, lett. i) T.U.I.R. (nel testo vigente al tempo).

Il riferimento operato dalla ricorrente ai requisiti dell’art. 2082 c.c. (che identificano la qualità soggettiva di imprenditore) in contrapposizione all’art. 2195 c.c. (che individua le “imprese commerciali” in relazione al tipo di attività svolta) al fine di individuare le “attività commerciali non esercitate abitualmente” contemplate dall’art. 81 T.U.I.R., è, da un lato, di scarso rilievo in quanto l’elemento rilevante ai fini della norma fiscale non sono i requisiti soggettivi di colui che esercita la impresa, ma è il carattere oggettivo dell’attività svolta, che in entrambe le norme codicistiche consiste in una attività economica diretta alla produzione od allo scambio (è appena il caso di osservare che, diversamente da quanto opinato dalla difesa erariale, l’art. 2195 c.c., considera espressamente le “attività commerciali” accanto alle “imprese” che le esercitano): in relazione a tale profilo distinguere tra attività imprenditoriali (art. 2082 c.c.) ed attività commerciali (art. 2195 c.c.) non ha senso alcuno, e non costituisce pertanto argomento decisivo per includere il fenomeno in esame (vendita di auto d’epoca) nell’ambito dei redditi diversi assoggettai ad imposta; dall’altro viene a ritorcersi contro la stessa tesi sostenuta dalla ricorrente, atteso che tra i requisiti della imprenditorialità ex art. 2082 c.c. è previsto anche quello della “organizzazione delle attività e del coordinamento dei fattori produttivi” (esercizio professionale di attività organizzata), che invece non è richiesto dalla norma fiscale.

La norma fiscale – come ha avuto modo di osservare anche la dottrina – fa espresso riferimento, peraltro, alla nozione di “attività” qualificata dal carattere commerciale: ciò, da un lato, consente di escludere quelle condotte che si esauriscono nel semplice atto traslativo del diritto a titolo oneroso, implicando la predetta nozione una pluralità di atti coordinati e diretti alla realizzazione del medesimo scopo che può trovare riscontro nel caso in cui si accerti la stretta relazione funzionale – verificata in base a concreti clementi circostanziali – tra l’atto di acquisto e quello successivo di vendita, ovvero anche nel compimento di una serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene in funzione della successiva vendita (ed in relazione a tali presupposti bene può configurarsi, contrariamene a quanto assume l’Agenzia delle Entrate, il carattere speculativo della operazione, rimanendo evidentemente estraneo a tale accertamento ogni riferimento ad imperscrutabili moventi psicologici del contribuente); dall’altro impedisce di assoggettare alla imposta sui redditi qualsiasi “atto” produttivo di incremento di ricchezza (come nella specie, i singoli atti di compravendita) non riconducibile ad “esercizio – sia pure non abituale- di attività” commerciale (diversamente da quanto sembra sostenere la ricorrente – pag. 7 ricorso – l’art. 81 T.U.I.R. non pone alcuna equivalenza, anzi la esclude, tra la stipula di “un contratto di cessione di beni” e “l’esercizio – non abituale – della attività commerciale di scambio”).

Considerato, pertanto, che i requisiti di professionalità e di abitualità dell’esercizio della attività di impresa rimangono esclusi unicamente rispetto al compimento di “atti isolati” di produzione o commercio, ovvero nel caso di cessione di un singolo bene non riconducibile alla realizzazione di “attività commerciali o agricole” di cui agli artt. 2135 e 2195 cod. civ. (cfr. Corte cass. 5 sez. 18.6.2003 n. 9776 – che aggiunge, però, che detti requisiti e la qualità di imprenditore, non richiedono necessariamente la reiterazione di una serie di atti di commercio, ma possono ravvisarsi anche nel soggetto)che svolga un’attività che si protragga nel tempo per una durata apprezzabile, ancorchè finalizzata, eventualmente, al compimento di un’unica operazione speculativa; Corte cass. 5 sez. 7.2.2008 n. 2809, in motivazione), e che l’accertamento in ordine alla riconducibilità o meno della cessione di un bene ad un’attività di commercio posta in essere nell’esercizio abituale e professionale di un’impresa – o come nella specie, ad una attività commerciale priva dei predetti requisiti, valutato in relazione alle concrete modalità ed al contenuto oggettivo e soggettivo dell’atto, costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr. Corte cass. 5 sez. 20.12.2006 n. 27208 – in tema di reddito di impresa), ne deriva che la denunciata violazione della norma di diritto sostanziale viene ad investire, a monte, gli accertamenti in fatto svolti dai Giudici di merito, con la conseguenza che assume carattere dirimente la disamina dei vizi motivazionali con i quali è stata censurata la sentenza, vertendo la critica principale sulla mancata individuazione degli elementi probatori dai quali i Giudici di appello avrebbero tratto la conclusione di non riconoscere le singole vendite come “attività produttive di redditi diversi” e sull’omesso apprezzamento degli elementi offerti dalla Amministrazione finanziaria dai quali – secondo l’assunto della ricorrente – emergeva l’esercizio di una vera e propria attività commerciale.

Ma se così è, la ricorrente avrebbe dovuto, allora, supportare tanto la censura inerente la violazione dell’art. 81, comma 1, lett. i) T.U.I.R., quanto te censure formulate in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), con la specifica indicazione della prova che, qualora non fosse stata trascurata od erroneamente valutata dalla Commissione regionale, avrebbe – secondo un criterio di certezza probabilistica e non di mera possibilità – consentito di pervenire ad una diversa decisione, favorevole alla Amministrazione, ed avrebbe altresì dovuto provvedere a riprodurre nel ricorso, onde integrare il requisito della autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), il contenuto della indicata prova (non avendo accesso diretto la Corte agli atti e documenti del giudizio di merito, in relazione al tipo di vizi denunciati) nonchè ad evidenziare le modalità attraverso le quali il documento era stato ritualmente prodotto in giudizio e la sede (fascicolo di parte di primo o secondo grado, fascicolo di ufficio) in cui lo stesso era rinvenibile, tanto in considerazione anche delle prescrizioni dettate a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c. (cfr. sull’onere di integrale trascrizione del documento: Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav.

21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav. 12.6.2002 n. 8388. Per quanto concerne l’onere di specificazione delle modalità di acquisizione processuale: cfr. Corte cass. sez. lav. 7.2.2011 n. 2966; id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 25.5.2007 n. 12239).

La Agenzia delle Entrate non ha assolto all’onere indicato limitandosi a contestare le conclusioni della CTR ed a contrapporre la mera allegazione che “i militari avevano appurato che esisteva un commercio di auto con gli Stati Uniti e che vi era una attività di importazione di auto d’epoca” senza tuttavia indicare il mezzo di prova, ammesso nel processo di merito, sul quale era fondata tale asserzione, e senza evidenziare – mediante opportuna trascrizione dei contenuti rilevanti della fonte probatoria – le specifiche circostanze di fatto dalle quali (ad esempio: per la dimensione del volume affari, per la ripetitività dei negozi di cessione stipulati, per la ravvicinata distanza temporale tra l’acquisto e la rivendita delle auto, per la particolare rilevanza economica della singola operazione, per eventuali opere di trasformazione od incremento dei beni in funzione della futura vendita) poteva desumersi lo svolgimento di “attività commerciale” assoggettata ad imposta come reddito diverso – da parte del contribuente e non di meri atti isolati di compravendita.

Il motivo è, pertanto, inammissibile in relazione ad entrambe le censure prospettate.

Relativamente alle censure prospettate in ordine alla riduzione operata dai Giudici di merito dell’ammontare del reddito di lavoro autonomo determinato con metodo induttivo (supra sub lett. B), deve ritenersi infondato il motivo di censura con il quale viene dedotta la violazione dell’art. 50 T.U.I.R., nel testo vigente “ratione temporis” per avere la CTR applicato la deduzione, dal maggiore reddito di lavoro autonomo accertato dall’Ufficio, di costi “presunti” nella misura forfetaria del 50% (deve invece ritenersi priva di autonoma valenza la censura relativa alla violazione dell’art. 112 c.p.c. – per omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale veniva dedotta la errata applicazione della deduzione dei costi da parte della CTP, atteso che l’asserita omissione rimane contraddetta dalla stessa denuncia, formulata dalla ricorrente, di violazione e falsa applicazione dell’art. 50 T.U.I.R., con la quale, per l’appunto, si critica la CTR non per aver omesso di pronunciare ma per essersi pronunciata in contrasto con la previsione normativa proprio sulla questione dedotta con quello specifico motivo di appello).

Ed infatti se la norma invocata – nel testo vigente pro tempore – stabilisce che “il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione…”, e se la deduzione “analitica” dei costi inerenti l’esercizio dell’attività professionale pone a carico del contribuente l’onere della relativa prova documentale ed implica, quindi, la regolare annotazione delle spese sostenute nel registro previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 19 (cfr. Corte cass. 5 sez. 26.4.2001 n. 6086), è tuttavia pacificamente ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte che tali prescrizioni trovano applicazione esclusivamente nel caso in cui i componenti reddituali attivi e passivi siano rilevabili dalle scritture contabili, ma non anche nelle ipotesi di omessa dichiarazione del contribuente in cui alla determinazione del reddito possa pervenirsi soltanto con metodo induttivo.

Pertanto, al quesito di diritto formulato dalla ricorrente ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in calce al motivo in esame, con il quale si chiede di accertare la illegittimità della determinazione con “criterio presuntivo” delle spese deducibili, relative ad un determinato periodo di imposta, inerenti all’esercizio di un’arte o professione, deve darsi risposta negativa alla stregua del principio di diritto -espresso in materia di reddito di impresa ma che può essere esteso anche al reddito da lavoro autonomo- dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi in difetto di nuovi argomenti che richiedano una rimeditazione, secondo cui “in tema di accertamento della imposta sui redditi, qualora il contribuente ometta del tutto la presentazione della dichiarazione, e l’Amministrazione finanziaria proceda d’ufficio all’accertamento del reddito d’impresa con metodo induttivo, essa, dovendo procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, deve tenere conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti.

Nell’ipotesi considerata, infatti, non possono trovare applicazione le limitazioni previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 74, commi 2 e 3, in tema di prova dei costi e degli oneri ai fini dell’accertamento con metodo analitico induttivo, in quanto tale norma disciplina la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorchè infedele, sia comunque sussistente. Diversamente, d’altronde, si assoggetterebbe ad imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo, anzichè quello netto, in contrasto con l’art. 53 Cost.” (cfr. Corte cass. 5 sez. 25.11.2008 n. 28028. Cfr. Corte cass. 1 sez. 10.4.1996 n. 3317; id. 5 sez. 17.1.2001 n. 640; id. 5 sez. 10.2.2006 n. 2946; id. 5 sez. 19.2.2009 n. 3995).

Il motivo è dunque infondato.

p.5. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna della Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese di lite che vengono liquidale in dispositivo.

PQM

LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE – rigetta il ricorso e condanna la Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 7.100,00 per onorari di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, 6 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2011

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