Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21771 del 20/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 20/10/2011, (ud. 04/05/2011, dep. 20/10/2011), n.21771

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Presidente –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14599/2008 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

M.R., M.A., F.C., personalmente

e in qualità di Soci del IL GABBIANO PIZZERIA di MASSONE ROBERTO e

C. S.a.s., elettivamente domiciliati in ROMA VIA COLLAZIA 2/F, presso

lo studio dell’avvocato CANALINI Federico, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato BONA CESARE, giusta delega a margine;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 25/2007 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 23/04/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

04/05/2011 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIORENTINO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Agenzia delle Entrate ricorre contro i sigg. F.C., M.A. e M.R., in proprio e quali soci della società IL Gabbiano Pizzeria di Massone Roberto e C. sas. per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano che ha confermato la sentenza di primo grado che aveva annullato l’atto con cui l’Ufficio di Voghera aveva irrogato agli odierni resistenti la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 3, comma 3, del decreti) L. n. 12 del 2002 (convertito con modificazioni con la L. n. 73 del 2002), nel lesto all’epoca vigente, per l’impiego, accertato all’esito di ispezione dell’INPS del 27.9.03, di un aiuto pizzaiolo non risultante dalle scritture o altra documentazione obbligatoria.

La sentenza gravata ha confermato l’annullamento della sanzione irrogata dall’Ufficio (determinata con riferimento al periodo dall’inizio dell’anno in cui era intervenuto l’accertamento alla data di constatazione della violazione, per l’importo di Euro 43.885.80), richiamando la sentenza 144/2005 della Corte Costituzionale (dichiarativa della illegittimità costituzionale del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, nel testo allora vigente, nella parte in cui non ammetteva la possibilità di provare che il rapporto di lavoro irregolare avesse avuto inizio successivamente al primo gennaio dell’anno in cui era stata constatata la violazione) e argomentando che nella specie la presunzione legale di decorrenza del rapporto di lavoro irregolare dall’inizio dell’anno poteva ritenersi superata in base alle dichiarazioni rese nel verbale ispettivo dell’INPS dal socio accomandatario della società Il Gabbiano Pizzeria, sig. M.R., secondo il quale l’aiuto pizzaiolo aveva lavorato presso la pizzeria solo nei giorni 6, 13, 20 e 27 settembre:

cosicchè l’Ufficio avrebbe dovuto “stabilire la sanzione sul periodo effettivo di lavoro da considerarsi in nero o comunque irregolare, stante che ciò risultava dal verbale degli ispettori dell’INPS” (pag. 4. rigo 23 della motivazione).

Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate si fonda su due motivi.

Col primo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Commissione Tributaria Regionale annullato l’atto sanzionatorio sulla base di un accertamento della decorrenza del rapporto di lavoro basato esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal datore di lavoro, in tal modo sostanzialmente gravando l’Agenzia dell’onere della prova della durata del rapporto: col secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Commissione Tributaria Regionale, dopo aver accertato l’effettivo periodo lavorato dal dipendente non denunciato, omesso di rideterminare la sanzione in relazione a tale periodo, limitandosi ad annullare il provvedimento con cui l’Ufficio aveva irrogato la sanzione commisurata al maggior periodo decorrente dall’inizio dell’anno.

I contribuenti si sono costituiti con controricorso.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza de 4.5.011 in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via preliminare è opportuno precisare che – sebbene la presente controversia esuli dalla giurisdizione tributaria (come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 15846 del 2009, in esito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 130 del 2008, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, come sostituito dalla L. n. 448 del 2001, art. 12, comma 2, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative a tutte le sanzioni irrogate da uffici finanziari, anche quando conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura fiscale) – non è possibile rilevare in questa sede il difetto di giurisdizione del giudice tributario (conf. Cass. 26874/2009), in quanto tale difetto non è stato dedotto come motivo di ricorso per cassazione (ma sollevato dalla difesa erariale solo nella memoria ex art. 378 c.p.c.), nè era stato dedotto come motivo di appello (principale o incidentale condizionato) della sentenza di primo grado, cosicchè sul punto si è formato il giudicato (implicito) interno (cfr., Cass. SSUU nn. 24883/2008, 26019/2008, 27531/2008, 29523/2008 e, da ultimo, 2067/2011, così massimata: Allorchè il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di parte vittoriosa, diversamente, l’esame della relativa questione è preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione).

Passando all’esame dei motivi di ricorso, si osserva che il primo motivo è inammissibile per due ragioni.

La prima ragione di inammissibilità è che la censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.p.c., non coglie la ratio decidendi della sentenza gravata, la quale non poggia sul principio di diritto che, ai fini di cui al D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, la prova della effettiva decorrenza del rapporto di lavoro graverebbe sull’Amministrazione, bensì sul giudizio di fatto (non censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) che il datore di lavoro avrebbe soddisfatto l’onere della prova su di lui gravante (“può ritenersi vero quanto dichiarato dal sig. M. sulla presenza del sig. N. nei giorni indicati del mese di settembre dell’anno 2003)”.

La seconda ragione di inammissibilità è che il quesito di diritto proposto all’esito dell’illustrazione del motivo (“Dica codesta Suprema Corte se sia corretta la sentenza con cui la CTR adita ha confermato l’annullamento della sanzione per lavoro irregolare irrogata ai sensi del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, attribuendo valore probatorio pieno alla dichiarazione del datore di lavoro – riportata nel p.v.c. – secondo cui l’attività irregolare sarebbe stata prestata dal dipendente in sole quattro ben identificate giornate lavorative. Dica codesta Suprema Corte se, al contrario, alle dichiarazioni del lavoratore in sede di accesso vada riconosciuto valore di mero indizio, con conseguente necessità che le stesse siano supportate da riscontri aggettivi (nel caso di specie del tutto assenti) che costituisce onere del contribuente apportare in giudizio”) non è conforme al paradigma fissato, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c..

Al riguardo si osserva che le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che il quesito deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e deve quindi porre la Corte di Cassazione in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata; ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare: in conclusione, l’ammissibilità del motivo e condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione (cfr., Cass., sez. un., n. 28054 del 2008, cit.: n. 26020 del 2008;

n. 18759 del 2008; n. 3519 del 2008; n. 7197 del 2009). I principi espressi dalle Sezioni Unite sono poi stati ulteriormente dettagliati dalla Terza Sezione con la precisazione che e inammissibile il motivo di impugnazione in cui il quesito di diritto non indichi le due opzioni interpretative alternative, quella adottata nel provvedimento impugnato e quella proposta dal ricorrente (vedi la sentenze n. 24339/08; “Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile”: nello stesso senso. Ord. 4044/09).

Nei caso di specie, la parte ricorrente non ha adempiuto all’onere, dai contenuti sopra precisati, della proposizione di una valida impugnazione, in quanto il quesito formulato a conclusione del motivo non investe la Corte della richiesta di indicare quale sia l’interpretazione corretta dell’art. 2697 c.c., tra due ipotesi alternative (quella adottata nella sentenza impugnata e quella, diversa, che il ricorrente assume essere esatta), ma si risolve in una censura della valutazione del materiale probatorio operata dal giudice di merito.

Venendo all’esame del secondo motivo, esso va giudicato fondato.

Questa Corte ha infatti già chiarito (vedi le sentenze nn. 15825/2006, 16252/2007) che il processo tributario non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra i processi di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio: da tale premessa discende che il giudice tributario – ove ritenga invalido un atto impositivo per motivi non formali, ma di carattere sostanziale – non può limitarsi ad annullarlo, ma deve esaminare nel merito la pretesa dell’Amministrazione e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte.

Tali principi operano anche quando il giudice tributario debba conoscere di una pretesa dell’Amministrazione avente contenuto sanzionatorie) ed anche se si tratti di sanzione non derivante da illeciti tributari, in quanto anche nel sistema della L. n. 689 del 1981 (in cui risiede la disciplina del procedimento di applicazione della sanzione prevista dal D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, cfr., Cass. 26874/2009. già citata) è previsto – in particolare nell’art. 23, comma 11, di citata legge – che il giudice possa annullare in tutto o in parte l’ordinanza o modificarla “anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta”: con la conseguenza che il mancato esercizio di tale potere/dovere di modificazione riconosciuto dalla legge al giudice integra il vizio di omissione di pronuncia rilevante ex art. 112 c.p.c..

La sentenza gravata si pone in contrasto con tali principi nella parte in cui, accertata la decorrenza del rapporto di lavoro del pizzaiolo dal 6 settembre 2003, si è limitata ad affermare che l’Agenzia delle Entrate avrebbe potuto stabilire la sanzione sul periodo effettivo di lavoro, anzichè provvedere essa stessa a stabilire detta sanzione. Il secondo motivo di ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rimessione della causa alla stessa Commissione Tributaria Regionale di Milano, in altra composizione, che dovrà provvedere alla determinazione della sanzione ritenuta dovuta e regolerà anche le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto. Rinvia la causa alla Commissione Tributaria Regionale di Milano, in altra composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2011

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