Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2177 del 31/01/2011

Cassazione civile sez. II, 31/01/2011, (ud. 15/12/2010, dep. 31/01/2011), n.2177

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11759-2005 proposto da:

V.P. (OMISSIS), B.P.

(OMISSIS), U.A. (OMISSIS), R.

G. (OMISSIS), R.R. (OMISSIS),

VI.GI. (OMISSIS) in proprio e per conto della

propria madre sig.ra M.M., R.P.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE ex lege, rappresentati e difesi

dall’avvocato SARAGONI LUNGHI ALBERTO;

– ricorrenti –

contro

C.N. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA OVIDIO 20, presso lo studio dell’avvocato RESCIGNO DANIELA,

rappresentata e difesa dagli avvocati GIARDINI NERINO, GIARDINI LUCA;

– controricorrente –

e contro

R.R., R.V., MA.MA.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 223/2004 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 20/03/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/12/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l’Avvocato GIARDINI Luca, difensore della resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto che ha concluso per rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 27.2.02 il Tribunale di Pesaro respinse la domanda, con la quale la società Baia del Re s.r.l., ascrivendole l’illegittima detenzione, aveva chiesto a C.N. la restituzione di una striscia di terreno, di cui si assumeva proprietaria, ubicata alle spalle del demanio marittimo in tenimento di Fano, ed accolse la riconvenzionale, dichiarando il suolo acquisito in proprietà della convenuta, per usucapione.

Contro tale decisione proposero appello Vi.Gi., in proprio e quale procuratrice generale della madre M.M., V.P., B.P., Ma.Ma., U.A., R.P. e R.G., tutti quali aventi causa dalla disciolta società sopra indicata, convenendo davanti alla Corte di Ancona, oltre alla C., anche R.R. e R.V., altri aventi causa dall’attrice, per l’integrità del contraddittorio.

Questi ultimi si costituivano ed aderivano alla richiesta di riforma della gravata decisione.

Costituitasi, a sua volta, la C., chiese il rigetto dell’appello ed, in via di gravame incidentale, la condanna delle controparti anche al rimborso delle spese generali, relative ai diritti ed onorari in proprio favore liquidati in primo grado.

Con sentenza del 19.2-20.3.2004 l’adita corte respingeva l’appello principale ed accoglieva quello incidentale, condannando gli appellanti ed i litisconsorti R. al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, oltre a quelle generali di primo grado, nella misura del 10% dei diritti ed onorari liquidati dal Tribunale.

Ripercorsa l’analitica motivazione della sentenza di primo grado, con la quale si era ritenuto dimostrato, dalle testimonianze e documentazioni addotte dalla convenuta, l’esercizio pubblico, indisturbato e continuativo, a partire dal 1959, di atti di esclusivo godimento del suolo (pulizia dell’area, realizzazione di un parcheggio per i clienti del proprio stabilimento balneare, installazione di capanni e relative richieste di condono edilizio), senza renderne conto ad alcuno, poco o punto rilevando, sul piano soggettivo, la buona fede, mentre per converso la parte attrice non era riuscita a dimostrare, con i propri testi che si erano riferiti ad altra confinante proprietà della stessa, che la C. detenesse quel suolo in virtù di comodatola corte marchigiana osservava che gli appellanti si erano limitati ad esporre censure del tutto generiche, che rendevano il gravame inammissibile ex art. 342 c.p.c. per difetto di specificità. Non erano state, infatti, indicate, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza impugnatale contrarie ragioni di fatto o di diritto giustificative delle censure, non erano state specificate le contraddizioni o le imprecisioni in cui sarebbero caduti i testimoni, nè era stato citato il documento che avrebbe provato l’omesso utilizzo dell’area da parte della C. o il riconoscimento da parte della medesima della signoria della società “Baia del re” sul terreno; quanto al fatto che V.G. (legale rappresentante della società) fosse stato visto a colloquio con la suddetta convenuta la circostanza era del tutto irrilevante.

Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con unico motivo, Vi.Gi., in proprio e quale procuratrice generale della madre M.M., V.P., B.P., U.A., R.P., R.R. e R.G.. Ha resistito con controricorso C.N..

Non hanno svolto attività difensiva, benchè intimati, Ma.

M., R.R. e R.V..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., lamentando che la sentenza impugnata, dopo aver riassunto “in modo molto sintetico” i motivi di appello, non avrebbe tenuto in nessun conto “la lunga ed articolata esposizione effettuata dagli appellanti nella citazione”, riducendo detti motivi a “pochi punti svincolati dalla pregresse motivazioni ed argomentazioni”, così venendo meno al compito essenziale del giudice di appello, che in considerazione del carattere devolutivo del gravame, che aveva investito la sentenza impugnata nella sua integralità, tenendo conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe dovuto comunque procedere ad un riesame globale della controversia, comportante una nuova valutazione delle relative risultanze.

Il motivo non merita accoglimento.

L’esame dell’atto d’appello, in relazione al contenuto della sentenza di primo grado, in questa sede consentito dalla natura processuale delle doglianze esposte nel mezzo d’impugnazione, conferma la valutazione di genericità del gravame compiuta dalla Corte d’Appello. Gli appellanti, infatti, dopo aver esposto la loro versione dei fatti (pagg. 3-6), nella parte conclusiva dell’atto d’impugnazione (pagg. 6-7), si erano limitati a lamentare: a) la mancata valutazione del “ruolo fondamentale rivestito dal V. nella vicenda”, per il solo fatto che il medesimo fosse stato visto “reiteratamente a colloquio con il C. sul terreno..”; b) il mancato rilievo delle “numerose contraddizioni tra i fatti riportati dai vari testimoni” e l’illogica valutazione di “alcune delle testimonianze”, senza alcuna ulteriore precisazione al riguardo; c) le “molte imprecisioni riscontrabili nelle testimonianze, per la maggior parte permeate dal senso d’indeterminatezza dell’oggetto della vicenda”, senza specificarle; d) la mancata menzione della “maggior parte delle numerose prove documentali versate in atti dalla difesa dell’attrice”, dalle quali sarebbe stato possibile ricavare “l’omesso utilizzo di gran parte dell’area …da parte di chicchessia” ed il “riconoscimento della signoria della Baia del Re …da parte della C.”; senza precisare quali fossero state tali documenti e gli specifici contenuti (precisazione che neppure in questa sede si fornisce, così non ottemperando all’onere dell’autosufficienza); e) la mancata valutazione delle “richieste di sanatoria”, senza precisare come, quando e da chi presentate, mentre il primo giudice aveva dato atto di istanze di condono della sola C.; f) la mancata valutazione di rilievi aerofotogrammetrici, senza precisare cosa avrebbe dovuto desumersi dagli stessi e con quale incidenza ai fini della prova del possesso. Nessuna specifica censura, in particolare, veniva mossa, nell’atto di gravame, alla principale ratio decidendi su cui si era basata la sentenza di primo grado, secondo cui, a fronte della prova della protratta signoria di fatto sul bene esercitata, come riferito dalla maggior parte dei testi, dalla C., la parte attrice non era riuscita a dimostrare che tale godimento derivasse da un titolo detentivo (così da superare la presunzione di cui all’art. 1141 c.c.).

Correttamente, dunque, i giudici di appello hanno ritenuto carenti di specificità le doglianze in precedenza elencate, conformandosi al consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la valutazione, circa il rispetto dell’obbligo dell’appellante di indicare specificamente le critiche rivolte contro la sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., va compiuta tenendo presente le argomentazioni addotte dal primo giudice (n. 7786/10), sicchè, pur non essendo richiesta una rigorosa e formalistica enunciazione delle censure, i motivi di appello devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità di quella motivazione (n. 17790/07), indicandone, sia pur succintamente, gli errori in modo da incrinarne il fondamento logico-giuridico (n. 20261/06), non essendo sufficiente la mera riproposizione o il complessivo richiamo delle argomentazioni esposte nel precedente grado (n. 21816/06).

Conclusivamente il ricorso, che neppure in questa sede precisa quali fossero state le specifiche censure rivolte contro le essenziali argomentazioni reiettive della sentenza di primo grado e la concreta rilevanza delle prove offerte dalla parte attrice, che sarebbero state oggetto di omessa o inadeguata valutazione da parte del primo giudice, deve essere respinto.

Le spese, infine, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso, in favore della resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in misura di complessivi Euro 1.700,00, di cui 200 per esborsi.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2011

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