Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21759 del 20/09/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 20/09/2017, (ud. 01/03/2017, dep.20/09/2017),  n. 21759

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in Roma, Corso

d’Italia n. 19, presso l’avv. Ruggero Stendardi, che lo rappresenta

e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio

n. 134/7/10, depositata il 31 maggio 2010.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’1

marzo 2017 dal Relatore Cons. Dott. Biagio Virgilio;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, il quale ha concluso per l’inammissibilità

o, in subordine, il rigetto del ricorso;

uditi l’avvocato dello Stato Giancarlo Caselli per la

controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.P. ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio indicata in epigrafe, con la quale, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, è stata affermata la legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti del contribuente a titolo di IRPEF per l’anno 2001, in ragione della omessa dichiarazione della plusvalenza realizzata a seguito della cessione della licenza per l’esercizio del servizio di taxi.

Il giudice d’appello ha ritenuto che l’avviso di accertamento è “ampiamente motivato avendo l’Ufficio descritto la fonte da cui ha tratto la certezza dell’avvenuta cessione, del resto mai smentita dal ricorrente, e riepilogato l’intera vicenda che lo ha portato, in assenza di dichiarazione dei redditi, ad un accertamento di tipo induttivo del valore della cessione”, “dopo che il contribuente aveva rifiutato la proposta per un accertamento con adesione”. Ha aggiunto che: a) nell’atto impugnato sono indicate “le disposizioni di legge che sostengono l’accertamento e gli elementi di valutazione che hanno condotto alla determinazione del valore accertato”; b) in mancanza di dichiarazione l’Ufficio può, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, accertare il reddito sulla base di dati e notizie comunque raccolti, anche in base a presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza; c) non vi era l’obbligo di allegare la relazione dell’Università della Tuscia, come eccepito dal contribuente in appello con memoria aggiuntiva, poichè della sua utilizzazione ai fini della valutazione operata “non c’è traccia nell’avviso”.

2. L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione circa un fatto decisivo, costituito dalla “prescrizione e decadenza dell’Ufficio dal potere impositivo”, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43.

Il motivo è inammissibile per più profili.

Da un lato, infatti, la censura deve ritenersi nuova, in quanto la sentenza impugnata non ne fa cenno, nemmeno nell’esposizione in fatto, e il ricorrente, in violazione del principio di specificità, avrebbe dovuto indicare se essa era stata effettivamente proposta – e in quali termini – sin dal ricorso introduttivo e riproposta in appello; inoltre, e in ipotesi, si tratterebbe di vizio di omessa pronuncia su questione di diritto e non, quindi, di vizio di motivazione, che concerne esclusivamente l’accertamento dei fatti.

2.1. Col secondo motivo è denunciata la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, primo periodo, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.: il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere il giudice a quo ritenuto “ampiamente motivato” l’avviso d’accertamento, laddove, invece, l’atto, di tipo induttivo anzichè analitico, conterrebbe una motivazione del tutto apparente e sfornita di qualsiasi prova circa gli elementi costitutivi della pretesa fiscale.

Con la terza censura, è dedotta la violazione della citata L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, secondo periodo e nuovamente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, per violazione dell’obbligo di allegazione all’avviso impugnato degli atti in esso richiamati (in particolare, della relazione dell’Università della Tuscia).

Il quarto motivo denuncia il vizio di omessa, o quanto meno insufficiente o contraddittoria, motivazione della sentenza per avere il giudice inferito dal solo fatto della cessione della licenza la determinazione del quantum della plusvalenza, sulla base, peraltro, di presunzioni prive dei requisiti di legge.

Con il quinto motivo è dedotta l’ulteriore omissione di motivazione e la violazione delle norme (art. 2697 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38,39 e 42) in tema di ripartizione dell’onere della prova, avendo la CTR violato il principio secondo cui incombe all’Ufficio l’onere di dimostrare i fatti costitutivi della pretesa fiscale.

Infine, con la sesta doglianza, il ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2 (richiamato dall’Ufficio in appello, ma non nell’atto impositivo), che prevede l’accertamento induttivo, per essere stato applicato in assenza dei relativi presupposti e limiti.

2.2. I motivi, da esaminare congiuntamente per stretta connessione, sono inammissibili o, comunque, infondati.

Va ricordato che nella sentenza impugnata, come riportato in narrativa, è detto, in sintesi, che: a) nella fattispecie si è trattato – con qualificazione giuridica che spetta al giudice effettuare – di un accertamento d’ufficio in assenza di presentazione della dichiarazione dei redditi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, il quale consente il ricorso a dati e notizie comunque raccolti e a presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza; b) l’avviso era ampiamente motivato, conteneva l’indicazione delle disposizioni di legge applicate e gli elementi di valutazione adottati per la determinazione della plusvalenza; c) si era svolto il contraddittorio con il contribuente, che non aveva accettato la proposta dell’Ufficio; d) non vi era obbligo di allegare la relazione dell’Università della Tuscia – censura sollevata con memoria aggiuntiva nell’atto di controdeduzioni in appello -, perchè della sua utilizzazione non v’era traccia nell’atto impugnato.

A fronte di ciò, e premesso che il giudice d’appello non ha affatto negato che l’onere della prova della pretesa fiscale (cosa ben diversa dall’obbligo di motivazione dell’atto impositivo) spettasse all’Ufficio, i motivi esposti consistono in una serie di censure, da un lato, del tutto prive di specificità, risolventisi quindi nella mera e generica contrapposizione alle valutazioni compiute dal giudice di merito di quelle prospettate dal ricorrente, e, dall’altro, alcune, non attinenti alle riportate rationes decidendi. Va, inoltre, rilevato che il ricorrente non dimostra che la questione – oggetto del terzo motivo – relativa alla omessa allegazione all’avviso degli atti richiamati (in primis, dello studio dell’Università della Tuscia) sia stata da lui proposta sin dal ricorso introduttivo e non, come si evince dalla sentenza ed eccepisce la controricorrente, solo nell’atto di controdeduzioni in grado di appello.

3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 4000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 1 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2017

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