Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2174 del 31/01/2011

Cassazione civile sez. II, 31/01/2011, (ud. 13/12/2010, dep. 31/01/2011), n.2174

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso (iscritto a N.R.G. 13412/05) proposto da:

B.A., in qualità di titolare della omonima ditta,

rappresentato e difeso in forza di procura speciale a margine del

ricorso, dall’Avv.to Vernazzaro Fernando del foro di Napoli ed

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv.to Elena Ruggiero

Rubino in Roma, via C. Beccaria, n. 88;

– ricorrente –

contro

Società ESSE COSTRUZIONI a r.l. in persona del suo legale

rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.to

Simonelli Vincenzo del foro di Santa Maria Capua Vetere, in virtù di

procura speciale apposta a margine del controricorso e domiciliata

presso la cancelleria della Suprema Corte di Cassazione:

– controricorrente –

e

Società BETON CASERTA a r.l., in persona del suo legale

rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.to

Gaetano Trepiccione del foro di Capua;

– controricorrente non costituito –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli, Terza Sezione

Civile, n. 281/2005 depositata il 4 febbraio 2005.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 13

dicembre 2010 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

uditi gli Avv.ti Roberto Carlino (con delega dell’Avv.to Ferdinando

Vernazzaro), di parte ricorrente, e Vincenzo Simonelli, di parte

resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Russo Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto

del ricorso per manifesta infondatezza, con condanna alle spese

processuali.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 22 dicembre 1992 S. D., nella qualità di legale rappresentante della società Esse Costruzioni a r.l., evocava in giudizio, dinanzi al Pretore di Santa Maria Capua Vetere, nel termine concesso dallo stesso Pretore cui era ricorso ex art. 700 c.p.c., la impresa Geom. B. A. per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle inadempienze della ditta convenuta al contratto di appalto concluso per la esecuzione dei lavori di costruzione di due strutture portanti di fabbricati.

Precisava parte attrice di avere in precedenza presentato ricorso ex art. 700 c.p.c. avanti alla medesima autorità affinchè venisse disposta la sospensione degli effetti del contratto stipulato e l’allontanamento della appaltatrice dal cantiere in quanto nella realizzazione dell’opera commissionata la ditta aveva utilizzato materiale inidoneo e diverso da quello pattuito, ponendo in tal modo le costruzioni realizzande a rischio di crollo.

Instauratosi i contraddittorio. nella resistenza della appaltatrice, il pretore adito aveva accolto il ricorso di urgenza, ordinando l’allontanamento della ditta Battiniello dai lavori in esecuzione.

Anche all’udienza fissata in riassunzione per il merito si costituiva la ditta convenuta che, oltre a contestare le pretese di controparte, spiegava domanda riconvenzionale per il pagamento delle opere eseguite ed il risarcimento dei danni per la intempestiva ed unilaterale risoluzione del contratto. Chiedeva, altresì, ed otteneva di chiamare in giudizio la Beton Caserta s.r.l. fornitrice del calcestruzzo “non idoneo” e, quindi, eventuale responsabile dell’inadempimento.

Si costituiva anche la società chiamata in giudizio, chiedendo l’estromissione dal giudizio in quanto estranea ai fatti oggetto di lite.

All’esito dell’istruzione della causa, il Tribunale (già Pretore) adito, con sentenza non definitiva n 2689/2000 cosi provvedeva:

“dichiara la estromissione della s.r.l. Beton Caserta dal presente giudizio; revoca il provvedimento interdittale emesso dal Pretore di Santa Maria Capua Vetere inerente la risoluzione del contratto di appalto tra la istante Esse Costruzioni ed il convenuto B.; rimette la causa sul ruolo per la ulteriore istruttoria…”.

In virtù di rituale appello interposto dalla Esse Costruzioni s.r.l., con il quale venivano evidenziate le numerose contraddizioni in cui era incorso il giudice di prime cure, nella resistenza dell’appellato, che peraltro aveva presentato anche appello incidentale per il pagamento delle opere effettivamente eseguite, la Corte di Appello di Napoli, accoglieva l’appello principale, nonchè parzialmente quello incidentale, ed in riforma della sentenza di primo grado dichiarava risolto il contratto di appalto stipulato in data 30.5.1992 per inadempimento della ditta Battiniello, disciplinando le voci di dare ed avere tra le parti. A sostegno dell’adottata sentenza, la corte territoriale evidenziava che nel contratto di appalto concluso fra le parti, avente ad oggetto la costruzione di due strutture portanti di altrettanti edifici da destinare ad abitazione civile, erano concordate sia le opere da realizzare sia i materiali da utilizzarsi, nonchè i vari ed eventuali controlli da effettuarsi da parte del direttore dei lavori ovvero del committente. Aggiungeva che dai rilievi effettuati dal C.T.U., nel corso del giudizio dinanzi al Pretore di Santa Maria Capua Vetere, condotti attraverso saggi ed analisi accurate dei materiali in contestazione, era emerso che “il calcestruzzo adoperato è da considerarsi assolutamente non conforme a quanto stabilito nel contratto di appalto”; lo stesso consulente aveva accertato e descritto le opere necessarie per ovviare alla notevole insufficienza del materiale adoperato, indicandone il costo, quantificato in L. 53.914.000, oltre al danno derivante alla committente per il ritardo nella consegna degli appartamenti già promessi in vendita. Dunque doveva ritenersi provato l’inadempimento dell’appaltatore per avere utilizzato non solo materiali totalmente difformi da quanto pattuito, ma anche inidonei all’uso, sì da far propendere per la demolizione dei manufatti e la loro ricostruzione, per cui l’appaltatore era chiamato a rispondere per responsabilità ex art. 1667 c.c..

Quanto alla quantificazione del danno subito dal committente, anche tenendo conto delle opere già realizzate dall’appaltatore – che andavano adeguatamente retribuire, perchè utilizzate dal committente – ha determinato in L. 3.162.000 (pari ad Euro 1.633,00) il saldo ancora da corrispondere dalla committente, ed in Euro 15.211,00 (pari a L. 29,452.340), il credito vantato dalla stessa a titolo di risarcimento danni.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione il B., che risulta articolato in quattro motivi al quale ha resistito la Esse Costruzioni s.r.l., non costituita la Beton Caserta s.r.l..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1668 c.c., comma 2, in quanto l’inadempimento della ditta appaltatrice non doveva essere considerato grave e quindi tale da interrompere immediatamente il rapporto, tant’è che le opere realizzate erano state utilizzate dal committente, seppure con interventi riparatori il cui esborso doveva considerarsi “irrisorio”, di L. 10.000.000, rispetto al costo preventivato dal C TU di circa L. 40.000.000 ovvero la demolizione. Errore grave in cui è incorso il giudice del gravame sulla base della consulenza tecnica di ufficio.

Con il secondo motivo si duole che la corte distrettuale abbia messo a base della propria decisione la consulenza tecnica di ufficio, che non è tecnicamente un mezzo di prova, così sovvertendo il principio dell’onere della prova.

Con il terzo motivo viene censurata la errata interpretazione delle risultanze istruttorie, in specie delle consulenze tecniche espletate, non avendo considerato che la seconda aveva accertato la non necessità della demolizione e la riparabilità dei vizi escludeva la sussistenza delle condizioni per la risoluzione dell’appalto ex art. 1668 c.c.; dunque, vizio di omessa motivazione su un punto decisivo potendo essere i vizi eliminati senza la demolizione della struttura.

I motivi vanno esaminati congiuntamente per la stretta connessione ed interdipendenza, poichè tutti attengono ad una critica sull’accertamento effettuato dai giudici di merito in ordine all’inadempimento grave dell’appaltatrice, dedotto sulla base delle disposte consulenze tecniche di ufficio.

Le censure non possono essere condivise.

Premesso che per la risoluzione delle controversie che possono implicare questioni che esulano dalle nozioni di comune esperienza, l’ordinamento processuale prevede che il giudice possa giovarsi della collaborazione di persone fornite di particolare competenza tecnica nella materia in decisione, la consulenza tecnica di ufficio offre al giudice la possibilità di ricevere lumi in materia tecnica della quale non abbia esperienza e conoscenza, anche se ciò non esclude che egli possa prescindere da tale sussidio, procurandosi aliunde le cognizioni necessarie.

Nell’ordinamento processuale vigente manca, inoltre, una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi prova, ond’è che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite da raffronto critico con le altre risultanze processuali, operazione, questa, riservata al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivata (v. Cass., Sez 3^, 26 settembre 2000 n. 12763; Cass., Sez. 1^, 19 febbraio 1990, n. 1223).

Ne consegue che non viola il principio di disponibilità delle prove il giudice che, facendo riferimento alle caratteristiche squisitamente tecniche degli accertamenti che si vogliono conseguire, preferisca disporre una consulenza, ammissibile ex officio (v. Cass., Sez. 3^, 9 maggio 1969, n. 1596).

Quanto ai rilievi critici che si muovono in punto di condotta inadempiente (parte ricorrente sostiene che sarebbero stati eliminati i vizi dalle opere con un esborso irrisorio, senza alcuna demolizione dell’opera realizzata), occorre premettere che, secondo i principi costantemente affermati da questa Corte, ai fini della risoluzione de contratto di appalto per i vizi dell’opera si richiede un inadempimento grave, perchè ai sensi dell’art. 1668 c.c., comma 2, la risoluzione può essere dichiarata soltanto se i vizi dell’opera siano tali da renderla del tutto inidonea alla sua destinazione.

Pertanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l’opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria, in quanto affetta da vizi che incidano in misura notevole sulla struttura e funzionalità della medesima, sì da impedire che essa fornisca la sua normale utilità; mentre se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può solo richiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dall’art. 1668 c.c., comma 1, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore. A tal fine, la valutazione della difformità o dei vizi deve avvenire in base a criteri obiettivi, ossia considerando la destinazione che l’opera riceverebbe dalla generalità delle persone, mentre deve essere compiuta con criteri subiettivi quanto la possibilità di un particolare impiego o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto (in tal senso, tra le tante, v. Cass., Sez. 2^ 15 marzo 2004, n. 5250; Cass., Sez. 2^, 15 maggio 2002, n. 7061).

Alla luce di tale condiviso principio, deve ritenersi corretta la valutazione data dalla Corte territoriale, che, accertata la destinazione abitativa del fabbricato realizzando, ha valorizzato l’interesse della committente oggettivamente inteso, ad ottenere la consegna di un’opera conforme a tutte le prescrizioni di legge, finalizzate a garantire la stabilità del manufatto oggetto dell’appalto, dal momento che il c.t.u. ha accertato che il calcestruzzo adoperato non era da considerare assolutamente conforme a quello stabilito nel contratto di appalto, tanto da fare optare per la demolizione dei manufatti eseguiti come migliore soluzione.

Nè il ricorrente ha indicato i parametri e gli elementi in forza dei quali sarebbe da ritenere non corretto l’accertamento tecnico, peraltro non contestato, se non genericamente.

Del resto l’accertamento svolto dal c.t.u. che ha prospettato quale soluzione migliore l’abbattimento e la ricostruzione dell’opera per eliminare i vizi riscontrati nella struttura cementizia, mentre la committente vi ha provveduto con la realizzazione di opere ed un esborso definito “irrisorio”, va valutato non solo sotto un profilo strettamente economico, giacchè la risoluzione scelta ha comportato anche una modifica dell’originario progetto dell’opera.

Con l’ultimo motivo il ricorrente denuncia la omessa motivazione su un punto decisivo, in quanto il giudice del gravame non avrebbe considerato che il materiale, in particolare il cemento, era stato fornito da ditta appositamente evocata in giudizio per garanzia.

Detta circostanza, ossia la fornitura del calcestruzzo da parte della terza chiamata Beton Caserta s.r.l., non è stata esaminata dalla corte distrettuale in quanto l’estromissione della stessa dal giudizio è stata disposta con separato provvedimento, di cui alla sentenza non definitiva del giudice di prime cure n. 2689/2000, con il quale è stato esaurito ogni potere di decisione sul punto.

Occorre aggiungere che le obbligazioni costituite con contratto di subappalto, ancorchè dipendenti dal contratto di appalto, hanno propria autonomia ed individualità e nell’ipotesi di azione di regresso spettante all’appaltatore nei confronti del subappaltatore trova applicazione, per il suo esercizio, l’art. 1670 c.c..

Le censure non possono, pertanto, essere accolte.

Per tutte le considerazioni sopra svolte, il ricorso deve, dunque, essere respinto.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.700.00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 13 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2011

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