Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2174 del 25/01/2019

Cassazione civile sez. trib., 25/01/2019, (ud. 15/11/2018, dep. 25/01/2019), n.2174

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 8456 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

PI.MA. FIBRE s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Alberto Marcheselli e

Raimondo Fulcheri per procura speciale a margine del ricorso,

elettivamente domiciliata in Roma, via Marianna Dionigi, n. 29,

presso lo studio dell’Avv. Marina Milli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, n.

180/23/2012, depositata il giorno 26 settembre 2012;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 15 novembre

2018 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

Fatto

RILEVATO

che:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: la società contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Livorno avverso l’avviso di accertamento e rettifica con il quale era stato richiesto il pagamento di maggiori diritti doganali in relazione all’importazione di colli di fibre sintetiche in fiocco di poliestere, atteso che, a seguito di una missione OLAF del 2008, era risultato che il Paese di origine della merce importata non era la Malesia ma la Cina, con conseguente revisione del dazio sull’importazione; la Commissione tributaria provinciale di Livorno aveva rigettato il ricorso; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello la contribuente; la Commissione tributaria regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, in epigrafe, ha rigettato l’appello della contribuente; avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte la contribuente affidato a sei motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente eccepisce, in via pregiudiziale, l’avvenuta formazione del giudicato esterno di cui alla sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 88/28/2010, depositata in data 19 novembre 2010, non impugnata, con cui, relativamente al ricorso proposto dalla contribuente avverso un avviso di accertamento per maggiori dazi e Iva relativi alla medesima importazione, è stata confermata la sentenza di primo grado che aveva ritenuto violato il principio del contraddittorio preventivo;

il motivo è inammissibile; dall’esame della documentazione prodotta si evince che parte ricorrente ha prodotto copia della sentenza sopra indicata con riportata unicamente l’attestazione della segreteria recante la formula: “Per la presente sentenza non risulta allo stato richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio ai sensi dell’art. 369 c.p.c.”;

tale dicitura non può costituire attestazione di passaggio in giudicato della sentenza, atteso che l’art. 124, disp. att., c.p.c., prevede espressamente che “A prova del passaggio in giudicato della sentenza il cancelliere certifica, in calce alla copia contenente la relazione di notificazione, che non è stato proposto nei termini di legge appello o ricorso per Cassazione, nè istanza di revocazione per i motivi di cui all’art. 395 del codice, nn. 4 e 5. Ugualmente il cancelliere certifica in calce alla copia della sentenza che non è stata proposta impugnazione nel termine previsto dall’art. 327 del codice”;

questa Corte (Cass. civ. Sez. Sesta 18 aprile 2017, n. 9746), sul punto, ha ribadito il principio secondo cui “la parte che eccepisce il giudicato esterno ha l’onere di provare il passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio, non soltanto producendo la sentenza stessa, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere nè che la mancata contestazione di controparte sull’affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, nè che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità della sentenza” (cass. civ. Sez. Terza, 29 agosto 2013, n. 19883);

non può quindi ritenersi che sia stata offerta la prova del passaggio in giudicato della sentenza, il che induce alla non valorizzabilità in questa sede della medesima;

2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12 e del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, per mancato rispetto del principio del contraddittorio preventivo, nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per violazione del principio comunitario del contraddittorio preventivo. In via subordinata, ha chiesto la disapplicazione delle norme in esame, e, in via ulteriormente subordinata, ha prospettato questione di illegittimità costituzionale delle relative disposizioni;

in particolare, parte ricorrente lamenta che l’ufficio doganale non ha proceduto alla revisione dell’accertamento in contraddittorio con la medesima, non concedendo il termine, di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prima di notificare l’atto di accertamento e, a tal proposito, ha evidenziato, in primo luogo, che il diritto al contraddittorio non può dirsi sussistente solo nel caso di attività di verifica presso la contribuente, e, in secondo luogo, che non potrebbe valere, ai fini della esclusione del diritto al contraddittorio preventivo, la circostanza, evidenziata dal giudice del gravame, che il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 7 e ssgg. prevede la facoltà, per il contribuente, di attivare una “controversia amministrativa”, in quanto questa non eviterebbe l’adozione del provvedimento amministrativo ma, anzi, presuppone proprio che tale atto sia stato emesso;

ii motivo è infondato;

sul punto, va osservato che questa Suprema Corte (Cass. civ., Sez. Sesta, 23 maggio 2018, n. 12832) ha ribadito l’orientamento secondo cui, relativamente agli avvisi di rettifica in materia doganale precedenti alla entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (art. 92, comma 1) convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, che ha introdotto, al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, il comma 4-bis, non trova applicazione la L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, (Cass. n. 8399/13; Cass. nn. 10070/14, 9799/14, 9800/14, 9801, 9802/14, 9803/14, 10070/14, 15032/14, 15033/14, 15034/14, 15035/14, 15036/14, 15037/14, 2592/14, 25973/14, 25074/14, 25975/14);

più in particolare, va precisato che la norma dello Statuto del contribuente che si assume violata, ed in ordine alla quale viene richiesto il sindacato di legittimità, è invocata a torto, in quanto la disciplina procedimentale in essa contenuta non trova, comunque, applicazione al procedimento di revisione doganale in esame che è regolato da uno “jus speciale”: invero, il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, nel testo vigente “ratione temporis”, prevedeva infatti che, quando dalla revisione eseguita d’ufficio dell’accertamento divenuto definitivo – ancorchè le merci che hanno formato l’oggetto siano state lasciate alla libera disponibilità dell’operatore o siano già uscite dal territorio doganale – emergono inesattezze, omissioni, o errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, “l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne dà comunicazione all’operatore interessato notificando apposito avviso” di rettifica motivato (commi 1, 5 e 6). Entro trenta giorni dalla data della notifica dell’avviso, l’operatore può contestare la rettifica ed in tal caso viene redatto apposito verbale dall’Ufficio doganale “ai fini della eventuale instaurazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dal TU delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 66 e segg.”;

in considerazione del suddetto quadro normativo, i procedimenti amministrativi cui rinvia la norma consentono proprio la instaurazione, in via preventiva, del pieno contraddittorio con il contribuente, posto che il procedimento amministrativo in questione è preordinato a garantire un contraddittorio pieno, in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale dell’atto, nel corso del quale il contribuente è posto in grado di esporre tutte le ragioni difensive ed allegare nuovi fatti, deducendo le prove opportune, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela dell’Amministrazione doganale e quindi l’annullamento o la revoca dell’avviso di rettifica;

va, infatti, precisato che il sistema del TU n. 43 del 1973, cui rinviava il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, realizzava, attraverso il procedimento contenzioso amministrativo, una forma anticipata di contraddittorio pieno, che, solo in seguito, è venuta ad essere sostituita da una diversa modalità di assicurazione della garanzia del contraddittorio “…ma soltanto a far data dalla entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (art. 92, comma 1) convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, che ha introdotto al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, il comma 4-bis” – intervento normativo successivamente completato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 12, conv. dalla L. 26 aprile 2012, n. 44 (recante “disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficienza e potenziamento delle procedure di accertamento”) con l’abrogazione del comma 7 e parzialmente del comma 6 del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 e la conseguente eliminazione del sistema dei ricorsi amministrativi contenziosi in materia doganale;

nè può valere la considerazione espressa dalla ricorrente secondo cui il procedimento amministrativo in esame non assolverebbe alla finalità di garantire il contraddittorio, in quanto presuppone che il provvedimento impositivo sia stato già adottato, mentre le scopo del contraddittorio preventivo sarebbe quello di evitare proprio la sua adozione;

a tal proposito si osserva che i procedimenti amministrativi cui rinvia la norma consentono proprio la instaurazione, in via preventiva, del pieno contraddittorio con il contribuente, atteso che: a) il TU n. 43 del 1973, art. 66, prevede che l’operatore presenti ricorso gerarchico avverso l’avviso di rettifica “producendo i documenti ed indicando i mezzi di prova ritenuti utili”; b) dal combinato disposto del TU n. 43 del 1973, art. 70, u.c. e art. 76, comma 1, emerge che solo all’esito dell’indicato procedimento amministrativo contenzioso – nel caso di decisione parzialmente o totalmente sfavorevole al ricorrente gerarchico – si determina la “definitività” dell’avviso di accertamento in rettifica ed il contribuente è legittimato ad esperire il ricorso giurisdizionale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21 avverso l’atto impositivo. Sicchè il procedimento amministrativo in questione, è preordinato a garantire un contraddittorio pieno, in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale dell’atto, nel corso del quale il contribuente era posto in grado di esporre tutte le ragioni difensive ed allegare nuovi fatti, deducendo le prove opportune, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela dell’Amministrazione doganale e quindi l’annullamento o la revoca dell’avviso di rettifica;

nè sussiste, come invece sostenuto dalla ricorrente, una violazione dei principi unionali in materia di contraddittorio preventivo, con conseguente disapplicazione delle norme in esame, in quanto l’orientamento giurisprudenziale sopra indicato è in linea con i suddetti principi;

la Corte di giustizia, sez. 5, 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics, dopo avere ricordato che il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante (sentenze n. C-349/07 Sopropè, punti 33 e 36, nonchè sentenza n. C-277/11, M.M., punti 81 e 82), ha ricordato che, quando il diritto dell’Unione non fissa nè le condizioni alle quali deve essere garantito il rispetto dei diritti della difesa nè le conseguenze della violazione di tali diritti, tali condizioni e tali conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purchè i provvedimenti adottati in tal senso siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) (v. Corte giust., G. e R., punto 35, nonchè giurisprudenza ivi citata). Siffatta soluzione è applicabile alla materia doganale nella misura in cui l’art. 245 codice doganale rinvia espressamente al diritto nazionale, precisando che “le norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri”, fermo restando che gli Stati membri possono legittimamente consentire l’esercizio dei diritti della difesa secondo le stesse modalità previste per la disciplina delle situazioni interne purchè esse siano conformi al diritto dell’Unione e, in particolare, non compromettere l’effetto utile del codice doganale (sentenza G. e R.,cit., punto 36);

inoltre, la Corte, con la successiva sentenza resa in data 20.12.2017 nella causa C-276/16, Preqù, ha quindi precisato che le disposizioni del diritto dell’Unione, come quelle del codice doganale, devono essere interpretate alla luce dei diritti fondamentali e che le disposizioni nazionali di attuazione delle condizioni previste all’art. 244 codice doganale, comma 2, per la concessione di una sospensione dell’esecuzione devono, in mancanza di una previa audizione, garantire che tali condizioni non siano applicate o interpretate restrittivamente (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punti 69 e 70). Secondo la Corte UE, se il destinatario di avvisi di rettifica dell’accertamento come quelli di cui trattasi nel procedimento principale ha la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione di detti atti fino alla loro eventuale riforma e se il giudice nazionale verifica che nell’ambito del procedimento amministrativo, le condizioni di cui all’art. 244 codice doganale non sono applicate in modo restrittivo, non può ritenersi pregiudicato il rispetto dei diritti della difesa del destinatario degli avvisi di rettifica dell’accertamento;

in definitiva, il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’art. 244 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’art. 244, comma 2, di detto regolamento da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato;

la Corte UE (con la medesima pronuncia 20.12.2017 nella causa C276/16, Preqù, cit.) ha, infine, tenuto a rimarcare che l’obbligo incombente sul giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione non ha sempre come conseguenza l’annullamento di una decisione impugnata, laddove quest’ultima sia stata adottata in violazione dei diritti della difesa. Ed infatti, una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere ascoltati, determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso;

le deduzioni di parte ricorrente, a tal proposito, si limitano a sostenere, in generale, la violazione del diritto al contraddittorio, senza, tuttavia, prospettare alcuna concreta lesione del proprio diritto di difesa;

pertanto, in considerazione di quanto sopra esposto, non può ritenersi che, nel caso di specie, vi sia stata violazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale e la pronuncia del giudice di appello, che ha ritenuto tutelato il diritto della contribuente al contraddittorio preventivo è, quindi, in linea con l’orientamento giurisprudenziale interno e unionale;

nè, infine, sussistono i presupposti per sollevare questione di costituzionalità delle norme in esame, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto, come detto, il particolare procedimento di ricorso amministrativo, previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, tutela il diritto al contraddittorio del contribuente e, quindi, il diritto di difesa del medesimo;

3. Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis, della L. n. 212 del 2000, art. 7, per avere ritenuto che l’atto impositivo era sufficientemente motivato nonostante la mancata allegazione del rapporto OLAF, essendo questo frutto di indagine conoscitiva e quindi sottoposto a segreto istruttorio;

il motivo è infondato;

in primo luogo, va osservato che il giudice del gravame ha ritenuto che l’atto impugnato era sufficientemente motivato in quanto dal contenuto del medesimo si evince che sono stati indicati i presupposti di fatto e di diritto che hanno portato al disconoscimento dell’origine preferenziale dei prodotti importati, in particolare la circostanza che il certificato d’origine presentato a corredo delle importazioni risulta falso secondo quanto emerso dall’indagine OLAF in Malesia, evidenziando che il verbale di revisione dell’accertamento dettaglia che il certificato di origine presentato in dogana è stato emesso in base a informazioni false, con ciò imputandosi al documento la falsità ideologica;

in sostanza, il giudice di appello ha espresso la propria valutazione sul contenuto dell’atto impositivo e sulla adeguata motivazione del medesimo, chiarendo che da esso erano ricavabili sia i presupposti di fatto che di diritto sulla cuì base lo stesso era stato emesso;

nè può assumere rilevanza, in questo contesto, la circostanza, evidenziata con il presente motivo, della mancata allegazione del rapporto OLAF;

questa Corte ha precisato (Cass. civ. Sez. Quinta, 21 aprile 2017, n. 10118) che “L’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso va inteso, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, in relazione alla finalità “integrativa” delle ragioni che sorreggono l’atto impositivo: il contribuente ha diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare la motivazione, ma non anche di tutti quelli cui, comunque, vi sia un riferimento ove la motivazione sia già sufficiente oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (nella parte rilevante ai fini della motivazione) sia già riportato nell’atto noto, spettando ad egli provare che almeno una parte del contenuto di tali atti sia necessaria ad integrarne la motivazione (Cass. n. 26683 del 2009 Rv. 610991). Inoltre, l’avviso di accertamento in materia doganale, che si fondi su verbali ispettivi OLAF, i quali hanno carattere riservato (Reg. CE n. 1073 del 1999, art. 8) ma possono essere utilizzati dall’Amministrazione nei procedimenti giudiziari per inosservanza della regolamentazione doganale, è legittimamente motivato ove risponda alle prescrizioni del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, ossia riporti nei tratti essenziali, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, il contenuto di quegli atti presupposti richiamati per relationem ancorchè non allegati (Cass. n. 23985 del 2008), dovendosi ritenere la produzione del rapporto finale OLAF non inclusa tra i requisiti di validità della motivazione dell’atto impositivo (Cass. n. 8399 del 2013)”;

4. Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, c.c., nonchè, in subordine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,comma 1, n. 5), per carenza di motivazione su un punto decisivo e controverso per il giudizio;

in particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice di appello ha ritenuto che sussisteva la prova dell’origine cinese della merce, mentre nè il rapporto OLAF nè la documentazione prodotta erano idonei a provare l’origine cinese della merce, ma semmai la eventuale provenienza materiale dalla Cina;

il motivo è inammissibile;

lo stesso articola, in un medesimo contesto, ragioni di censura per violazione di legge e per vizio di motivazione, senza, tuttavia, una precisa diversificazione dei presupposti fondanti i ritenuti vizi della sentenza in esame;

in ogni caso, con riferimento al ritenuto vizio di violazione di legge, lo stesso è articolato come violazione delle regole in materia di onere della prova, ma la pronuncia in esame ha, correttamente, ritenuto che la pretesa dell’amministrazione doganale era legittima in quanto fondata su idonei elementi di prova, sicchè non sussiste alcuna alterazione delle regole in materia di riparto dell’onere probatorio;

con riferimento, poi, al ritenuto vizio di motivazione, lo stesso è privo di autosufficienza, in quanto parte ricorrente si limita ad affermare che nè il rapporto OLAF nè gli altri documenti provavano l’origine cinese del prodotto, senza, tuttavia, riportare, a supporto del motivo di censura, il contenuto dei suddetti atti, non consentendo, in tal modo, a questa Corte, di esprimere una valutazione sulla decisività dei fatti indicati ai fini della decisione;

5. Con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione del Reg. Cee n. 2913 del 1992, art. 220, par. 2, lett. b);

in particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame ha ritenuto non sussistenti, nella fattispecie, i presupposti configurati dal Reg. cit., art. 220, par. 2, lett. b), posto che, invece, vi era un errore attivo dell’autorità che aveva emesso il certificato di origine e la buona fede della contribuente, avendo questa svolto con diligenza quanto ad essa esigibile in relazione all’importazione della merce in esame;

il motivo è infondato;

il giudice di appello ha ritenuto che non poteva darsi luogo all’esimente di cui alla previsione normativa sopra citata in quanto non sussisteva un errore attivo delle autorità competenti, non potendo questo essere configurato quando sia accertato che l’attestazione d’origine rilasciata dall’autorità del paese di esportazione è falsa in quanto fondata sulle dichiarazioni non veritiere dell’esportatore;

a tal proposito si osserva che le Autorità doganali devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali, a meno che sussistano contemporaneamente tutte le condizioni poste dal Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 220, n. 2, lett. b), del Consiglio del 12 ottobre 1992;

in particolare, detto errore non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni inesatte dell’esportatore, dato che l’Amministrazione non deve verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento attivo, perchè il legittimo affidamento del debitore è protetto solo se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la sua fiducia, mentre la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Cass. civ., n. 4022 del 2012);

di conseguenza all’Autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di dare dimostrazione delle irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato che risulti inesatto autorizza il recupero a posteriori, senza necessità di alcun procedimento intermedio che convalidi la non autenticità, provvedendo gli stessi organi dell’esecutivo comunitario a fornire tramite le disposte commissioni di inchiesta le conclusioni cui debbono attenersi le Autorità nazionali (Cass. civ., n. 13680/2009);

sotto tale profilo, parte ricorrente si limita ad affermare (pag. 48 del ricorso) che l’autorità dello stato esportatore che aveva rilasciato il certificato di origine, avendo affermato lo stato di produttore malese di fiocco di poliestere della società esportatrice, all’esito dell’istruttoria compiuta, si trovava a conoscenza o comunque nelle condizioni di conoscere la diversa origine della merce, sicchè sarebbe configurabile un errore attivo della medesima autorità;

la circostanza evidenziata è priva di pregio, in quanto la sentenza censurata ha precisato che il rilascio del certificato di origine era stato rilasciato sulla base delle dichiarazioni dell’esportatore, sicchè, rispetto a tale punto motivazionale, nessun elemento concreto viene prospettato col presente motivo che possa, invece, indurre a ritenere che l’autorità estera fosse a conoscenza della diversa provenienza della merce;

d’altro lato, nessuna rilevanza può avere la considerazione espressa dalla ricorrente in ordine alla propria buona fede, in quanto secondo questa Corte (Cass. civ. 23 novembre 2011, n. 24675) “è irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo all’importatore, in considerazione dell’obbligo che grava su quest’ultimo di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi”;

il suddetto principio, peraltro, trova conferma nella giurisprudenziale unionale, che ha affermato che: “il debitore non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati EUR i per il fatto che essi siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalla autorità doganale di uno Stato membro dato che le operazioni effettuate da detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi” (Corte giustizia, 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV, richiamata da Corte di giustizia, 8 novembre 2012, C438/11, Lagura, in riferimento ai certificati FORM A, documenti giustificativi utili a fruire delle preferenze generalizzate unilateralmente concesse dalla UE);

6. Con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere pronunciato ultra petita laddove ha ritenuto che la lavorazione subita in Malesia non è sufficiente a conferire al prodotto lo status di merce di origine malese;

il motivo è inammissibile;

va in primo luogo osservato che il presente motivo di ricorso è articolato sia come vizio di violazione di legge che come vizio di violazione di legge processuale, prospettandosi, peraltro, una contraddittorietà della motivazione, profilo che interessa, piuttosto, il vizio di motivazione della sentenza impugnata;

sul punto, questa Corte ha stabilito che, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma primo, sussumendole, indifferentemente, quale vizio di norme di diritto ovvero quale error in procedendo; in tal modo da un lato viene negata la regola della chiarezza del motivo di ricorso per cassazione e dall’altro viene, inammissibilmente richiesto alla Corte di dare essa forma e contenuto giuridici al ricorso, enucleando dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure. (cass. civ., Sez. V, 14 settembre 2016, n. 18021);

in ogni caso, lo stesso è privo di autosufficienza, in quanto, nell’argomentare sul mancato rispetto dei limiti del thema decidendum, parte ricorrente si limita a sostenere che, la circostanza tenuta in considerazione dal giudice del gravame, non aveva trovato alcuna considerazione nell’avviso di accertamento nè nelle ragioni di difesa delle parti, senza, tuttavia, riprodurre il contenuto dei suddetti atti al fine di verificare la rilevanza del motivo in esame;

7. In conclusione, vanno dichiarati inammissibili il primo, quarto e sesto motivi di ricorso, infondati il secondo, terzo e quinto, con rigetto del ricorso.

Con riferimento alle spese di lite, atteso che la pronuncia sopra citata (Corte di giustizia 20.12.2017 causa C-276/16, Preqù) è successiva alla proposizione del presente ricorso, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

PQM

La Corte:

dichiara inammissibili il primo, quarto e sesto motivi di ricorso, infondati il secondo, terzo e quinto, rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese di lite del presente grado di giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma delle stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 15 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2019

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