Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21738 del 08/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 08/10/2020, (ud. 02/10/2019, dep. 08/10/2020), n.21738

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16450/2017 proposto da:

V.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CAIO MARIO N.

8, presso lo studio dell’avvocato LEONARDO PALLOTTA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato DOMENICO ZERBINATI;

– ricorrente –

contro

ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO DI FERRARA, in persona del Capo

dell’Ispettorato in carica, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 2909/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 22/12/2016 R.G.N. 1656/2015.

 

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Venezia, con sentenza pubblicata in data 22.12.2016, ha accolto il gravame interposto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali-Direzione Territoriale del Lavoro di Rovigo, nei confronti di V.O., in qualità di legale rappresentante della società Club Motor Oil, avverso la pronunzia del Tribunale di Rovigo n. 289/2015, resa il 22.4.2015, con cui era stata accolta l’opposizione proposta dal V. all’ordinanza ingiunzione n. 20207/150/08, emessa il 24.9.2008 dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Rovigo, con la quale era stata contestata al medesimo la violazione del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, convertito nella L. n. 73 del 2002, “per aver impiegato alle proprie dipendenze, presso il circolo Club Motor Oil di (OMISSIS), dieci lavoratrici straniere non risultanti nelle scritture o in altra documentazione obbligatoria”, ed applicata la sanzione amministrativa di Euro 37.629,20;

che la Corte di merito, per quanto ancora rileva in questa sede, ha osservato che la presenza di lavoratori in un sito di lavoro non può, in mancanza di specifica e rigorosa prova sul punto, configurarsi come atto di mera liberalità o cortesia, dovendosi, invece, ritenere, per una presunzione di favor dell’attività lavorativa e per la repressione delle assunzioni illegali, come attività retribuita di lavoro;

che per la cassazione della sentenza V.O. ha proposto ricorso, articolando cinque motivi;

che l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ferrara-Rovigo ha resistito con controricorso;

che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali non ha svolto attività difensiva;

che sono state comunicate memorie nell’interesse del V.; che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 12, perchè i giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto che sussistesse la prova della subordinazione dei rapporti di cui si tratta, mentre, a parere della società ricorrente, l’autorità pubblica intimante nulla avrebbe offerto, al riguardo, in termini di prova e, dunque, “nessuna prova in senso proprio” sarebbe stata acquisita in relazione al profilo della subordinazione, da poter porre ragionevolmente a fondamento della decisione (ed anzi, con riferimento a 6 presunti lavoratori sono risultate contrarie le dichiarazioni rese in sede ispettiva): per la qual cosa, sarebbe stato violato, altresì, la L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 12, ai sensi del quale “Il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2700 c.c., perchè la Corte di Appello avrebbe attribuito eccessiva efficacia probatoria al contenuto del verbale ispettivo ed alle dichiarazioni raccolte in sede ispettiva, e non avrebbe considerato che “i verbali e le attestazioni provenienti dai funzionari ispettivi degli istituti previdenziali ed assistenziali possono far fede fino a querela di falso soltanto della loro provenienza dal pubblico ufficiale che li ha sottoscritti, del contenuto delle dichiarazioni e di altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o di quanto egli stesso dichiara di aver compiuto in riferimento alle attività di polizia amministrativa o giudiziaria al medesimo attribuite”; 3) la “violazione (o falsa applicazione) del D.L. n. 12 del 2002, art. 3 comma 3, convertito dalla L. n. 73 del 2002, come modificato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, in relazione alle violazioni contestate nella suddetta notifica di illecito prot. n. 1064 del 17/1/2008”, per avere i giudici di seconda istanza erroneamente individuato ed applicato la disciplina prevista dalla citata normativa, ritenendola oggetto dell’ordinanza ingiunzione contestata al V.; 4) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione (o falsa applicazione) del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, convertito dalla L. n. 73 del 2002, come modificato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, anche in relazione a quanto previsto negli artt. 2094 e 2222 c.c.”, per non avere i giudici del gravame operato alcuna distinzione “tra il lavoro subordinato ed il lavoro c.d. autonomo il quale ultimo trova la sua principale fonte di disciplina negli artt. 2222 c.c. e segg.”; 5) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere i giudici di appello “tenuto in considerazione quanto argomentato ed eccepito a pagg. 5/6 della comparsa di costituzione e risposta da V.O. ossia “come tutte le deduzioni ed argomentazioni svolte alle pagine 8, 9, 10 e 11 dell’atto di appello risultano relative a dichiarazioni estranee a questo processo, per cui la presente difesa le contesta fermamente ritenendole inammissibili e infondate””;

che i motivi non sono meritevoli di accoglimento, in quanto tutti tesi, nella sostanza, ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede;

che, più specificamente, si osserva che il primo, il secondo ed il quinto motivo – da trattare congiuntamente per ragioni di connessione – sono inammissibili, innanzitutto perchè censurano la valutazione degli elementi probatori operata dalla Corte di Appello, che è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità del relativo apprezzamento (nella fattispecie, peraltro, del tutto adeguato, condivisibile e scevro da vizi logici), secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Suprema Corte (cfr., ex multis, Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014; 6023/2009);

che, inoltre, nel caso di specie, la contestazione sulla pretesa errata valutazione delle emersioni probatorie non specifica i punti ritenuti fondamentali al fine di consentire il vaglio di decisività, che avrebbe eventualmente dovuto condurre i giudici ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa valutazione anche alle dichiarazioni testimoniali relativamente alle quali si denunzia il vizio; la stessa si risolve, dunque, in una inammissibile richiesta di riesame di elementi di fatto e di verifica dell’esistenza di fatti decisivi sui quali la motivazione sarebbe mancata o sarebbe stata illogica (cfr. Cass. nn. 24958/2016; 4056/2009), finalizzata ad ottenere una nuova pronunzia sul fatto, certamente estranea, come innanzi sottolineato, alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014);

che, infine, in particolare nel primo e nel quinto motivo, si fa riferimento a “dichiarazioni contrarie rese da sei lavoratori in sede ispettiva” ed alle “deduzioni ed argomentazioni svolte alle pagine 8, 9, 10 e 11 dell’atto di appello” senza che, però, i relativi atti vengano prodotti (e neppure indicati nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), nè trascritti, in violazione del principio (v. art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., tra le altre, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle doglianze svolte;

che il terzo motivo è inammissibile per difetto di specificità, in quanto la parte ricorrente non ha indicato analiticamente sotto quale profilo le norme oggetto di censura sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009);

che il quarto motivo non è fondato, poichè la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi che regolano il rapporto di lavoro subordinato, reputando, all’esito dell’espletata istruttoria, che, nella fattispecie, vi fosse il vincolo di soggezione delle lavoratrici al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, date, appunto, le ricostruite e condivisibili concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, dalle quali, inequivocabilmente, si evince che sussistesse l’inserimento delle stesse nella organizzazione del Circolo di cui il V. era il legale rappresentante, mediante la messa a disposizione, in favore del medesimo, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro (ex multis, Cass. nn. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994; e, più di recente, Cass. n. 4770/2003; 5645/2009);

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va respinto; che le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, in favore dell’Ispettorato, seguono la soccombenza; che nulla va disposto per le spese nei confronti del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, rimasto intimato;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2020

 

 

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