Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21735 del 06/09/2018
Cassazione civile sez. VI, 06/09/2018, (ud. 20/06/2018, dep. 06/09/2018), n.21735
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12950/2017 proposto da:
G.D.L. SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO DELLA GANCIA 1, presso lo
studio dell’avvocato DOMENICO MAMMOLA, rappresentata e difesa
dall’avvocato GIUSEPPE MACINO;
– ricorrente –
contro
L.V., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,
presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato
SABINA PIZZUTO;
– controricorrente –
contro
B.M.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1619/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO
CALABRIA, depositata il 17/05/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non
partecipata del 20/06/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA.
Fatto
RILEVATO
che con sentenza del 27 novembre 2015- 17 maggio 2016 nr. 1619 la Corte d’Appello di Reggio Calabria – giudice del rinvio in esito alla sentenza di questa Corte numero 3797/2011, che cassava la originaria pronunzia di inammissibilità dell’appello – riformava la sentenza del Tribunale di Palmi, nella parte in cui aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva della ditta ITALMEC DI LO.AN. sulla domanda proposta da L.V. per il pagamento delle differenze di retribuzione maturate per il rapporto di lavoro dipendente intercorso dal 5 gennaio 1998 al 30 aprile 2000; per l’effetto condannava al pagamento delle suddette differenze la società GDL Srl, subentrata alla ditta individuale ITALMEC;
che a fondamento della decisione la Corte territoriale osservava che dalla deposizione della teste N.T., acquisita nel grado di appello, era emerso che il datore di lavoro della L. nel periodo e negli orari indicati nel ricorso introduttivo del giudizio – e neppure contestati – era stato LO.AN., quale titolare del supermercato “ITALMEC”.
La tesi difensiva del LO., secondo cui il reparto macelleria del supermercato, nel quale la L. aveva lavorato, era gestito in proprio dal signor B.M., chiamato in causa, era stata invece smentita.
Non era decisivo in senso contrario il fatto, riferito dalla lavoratrice nel libero interrogatorio, che fosse il B. a corrispondere materialmente la retribuzione ed a dare direttive circa lo svolgimento della attività lavorativa. che avverse la sentenza ha prQpgatQ ricorso la società GDL Srl, adir alato in un unico motivo, cui ha opposto difese L.V. con controricorso;
che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione del l’udienza, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
Diritto
CONSIDERATO
che con l’unico motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 116 e 117 c.p.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c.; omesso esame del fatto, decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, della confessione giudiziale resa dalla lavoratrice nel primo grado alla udienza di comparizione; apparenza ed inesistenza della motivazione.
Ha esposto che in sede di interrogatorio libero la lavoratrice aveva dichiarato: di essere stata contattata da B.M., di avere ricevuto da lui le direttive lavorative ed il pagamento delle retribuzioni, di avere concordato con il B. l’importo della retribuzione, di avergli indirizzato le richieste di ferie e permessi. Tali dichiarazioni, ignorate dal giudice dell’appello, avevano valore di confessione giudiziale. La sussistenza del rapporto di lavoro con la ditta ITALMEC era stata pacificamente esclusa dalla stessa lavoratrice sin dal primo grado; la lavoratrice aveva censurato con l’appello la sentenza di primo grado per non avere dato corso ai mezzi istruttori circa la attività del B. all’interno del supermercato nè fatto ricorso ai poteri istruttori d’ufficio.
che ritiene il Collegio si debba respingere il ricorso;
che, invero, in punto di violazione delle norme di diritto va rilevato che le dichiarazioni rese dalle parti nel corso del libero interrogatorio, contrariamente a quanto assunto in ricorso, non hanno valore di confessione giudiziale, con effetti vincolanti per il giudice, essendo tale efficacia riservata alle sole dichiarazioni assunte all’esito dell’interrogatorio formale. Questa Corte ha già evidenziato (Cass. civ., sez. lav., 22.07.2010 nr. 17239; 26.08.2003 nr. 12500) che le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero o non formale, istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria sussidiaria, non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art. 229 c.p.c., sicchè rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la scelta relativa alla concreta utilizzazione di tale strumento processuale, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità e la mancata considerazione delle sue risultanze da parte del giudice non integra il vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia.
La titolarità del rapporto di lavoro costituiva un fatto controverso nel grado di appello, per quanto risultante dalla sentenza impugnata (a foglio 4: “per altro verso però l’appellante ha contestato anche la decisione di estromettere dal giudizio LO. titolare del supermercato, senza aver accertato chi fosse il gestore del reparto macelleria”).
Per quanto attiene, invece, al dedotto vizio di motivazione, la parte ricorrente non allega un fatto storico, avente rilievo decisivo ed oggetto di discussione tra le parti, che non sarebbe stato esaminato dalla sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo vigente ad applicabile ratione temporis – ma si duole genericamente delle valutazioni espresse dal giudice dell’appello all’esito della assunzione della prova testimoniale, in tal modo devolvendo a questa Corte un non-consentito esame di merito. La deduzione del vizio di inesistenza e di apparenza della motivazione risulta, da ultimo, del tutto infondata, essendo concretamente esposto in sentenza il percorso argomentativo;
che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso può essere definito con ordinanza in Camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.;
che le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza nei confronti della controricorrente L.V.;
che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater) della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per spese ad Euro 3.500 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 20 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2018