Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21718 del 06/09/2018

Cassazione civile sez. lav., 06/09/2018, (ud. 10/05/2018, dep. 06/09/2018), n.21718

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28224/2016 proposto da:

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIAMBATTISTA VICO, 22, presso lo studio dell’avvocato MARIOLINA

BERNARDINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIOVANNI BERNARDINI;

– ricorrente –

contro

FENIG S.R.L., in persona del legale rappresentante, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA EZIO 12, presso lo studio dell’avvocato

prof. CARLO PISANI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4464/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/9/2016 R.G.N. 1263/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/5/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARIOLINA BERNARDINI;

udito l’Avvocato CARLO PISANI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Con ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, commi 47 e 48, al Tribunale di Roma B.A. impugnava il licenziamento intimatole dalla dalla Fenig s.r.l., società che gestiva la Casa di cura Karol Wojtila, ex L. n. 223 del 1991.

1.2. Il Tribunale, in sede sommaria, respingeva il ricorso.

1.3. All’esito del giudizio di opposizione, riunita la causa promossa dalla B. con quelle promosse da M.d.F.S. e D.B., il Tribunale, ritenuta l’inosservanza formale della procedura L. n. 223 del 1991, ex art. 4, per incompletezza della comunicazione preventiva, dichiarava risolti i rapporti con le indicate lavoratrici e condannava la società al pagamento in loro favore rispettivamente di 20, 16 e 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

1.4. La Corte d’appello di Roma accoglieva il reclamo principale proposto avverso la sentenza del Tribunale dalla Fenig s.r.l. e, in riforma della decisione del Tribunale, rigettava il ricorso delle lavoratrici (dipendenti addette a servizi esternalizzati); dichiarava, altresì, improcedibile il reclamo incidentale dalle medesime proposto.

La Corte territoriale, superata la preliminare eccezione di inammissibilità del reclamo per violazione dell’art. 434 c.p.c. e rilevata, sempre in via preliminare, l’improcedibilità del reclamo incidentale mai notificato dalle reclamate, riteneva che la comunicazione di avvio della procedura di mobilità fosse sufficientemente specifica e completa delle indicazioni circa le ragioni del ricorso alla procedura collettiva, dei profili eccedenti, ciò nonostante l’omessa indicazione della posizione rivestita da una dipendente ( M.) rimasta in servizio, non essendosi tale omissione risolta in un elemento impeditivo della proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato che aveva poi stipulato il successivo accordo fondato sulla completa esternalizzazione delle funzioni di “servizio e amministrazione” in conseguenza della quale anche la dipendente M. (responsabile amministrativo) sarebbe stata licenziata.

2. Per la Cassazione della sentenza ricorre la sola B.A. con quattro motivi.

3. La Fenig s.r.l. resiste con controricorso.

4. Non sono state depositate memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, dell’art. 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte territoriale ritenuto l’inammissibilità del reclamo proposta dalla Fenig s.r.l..

1.2. Il motivo, oltre a presentare profili di inammissibilità per non essere prospettato il rilievo come “error in procedendo”, è infondato.

Va premesso che, come da questa Corte già affermato, l’impugnazione della sentenza pronunciata ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 57, è, nella sostanza, un appello, sicchè per tutti i profili non regolati dalle disposizioni specifiche trova applicazione la disciplina dell’appello nel rito del lavoro, che realizza il ragionevole equilibrio tra celerità ed affidabilità. Ne deriva che la disciplina dell’atto introduttivo del reclamo è quella dell’art. 434 c.p.c. (nel testo, “ratione temporis” vigente, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. con modif. in L. n. 134 del 2012) – v. Cass. 9 settembre 2016, n. 17863.

Inoltre, come da questa Corte affermato, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (cfr. Cass., Sez. U., 16 novembre 2017, n. 27199).

Nella specie la Corte territoriale ha ben spiegato come la Fenig s.r.l. avesse sottoposto a critica specifica la motivazione del Tribunale sulla violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 12, rilevandone l’errata applicazione di norme sostanziali (l’adempimento di cui all’art. 4, comma 12 cit. con particolare riferimento al contenuto della comunicazione), processuali (l’essere il Tribunale incorso in una pronuncia ultra petita) e l’errata valutazione del materiale istruttorio (in relazione alla posizione della dipendente M.).

Il Giudice del reclamo è stato, dunque, messo in condizione di comprendere con chiarezza quale fosse il contenuto dei rilievi mossi alla pronuncia appellata e quali argomenti si fosse inteso contrapporre a quelli indicati dal primo giudice, così da pervenire alla decisione nel merito delle questioni poste, nel pieno rispetto della natura di “revisio prioris instantiae” che il giudizio di appello ha conservato pur con l’indicata modifica normativa.

2.1. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 53 e 60 e dell’art. 436 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte territoriale dichiarato l’improcedibilità del reclamo incidentale.

2.2. Il motivo presenta gli stessi profili di inammissibilità del primo motivo ed è comunque infondato.

Dalla natura sostanziale di appello del reclamo consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata – Cass. 29 ottobre 2014, n. 23021; Cass. 3 marzo 2016, n. 4223; Cass. 13 giugno 2016, n. 12095 -. Di conseguenza il reclamo, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza non sia avvenuta, non essendo consentito al giudice, alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., comma 2, di assegnare all’appellante, ai sensi dell’art. 421 c.p.c., un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell’art. 291 c.p.c. (cfr. Cass. 19 ottobre 2017, n. 24742; Cass. 29 dicembre 2016, n. 27395; Cass. 19 gennaio 2016, n. 837).

3.1. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, in relazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto completa e conforme alle indicazioni legislative la comunicazione preventiva laddove la stessa non recava la dipendente M. tra le amministrative ed inseriva quest’ultima nella graduatoria delle infermiere.

3.2. Il motivo è infondato.

La comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro avvia la procedura di licenziamento collettivo, che deve avere i contenuti prescritti dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, ma non predeterminare criteri di scelta, ha essenzialmente la finalità di consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale (tra molte: Cass. 7 settembre 2002, n. 13031; Cass. 11 aprile 2003, n. 5770; Cass. 11 luglio 2007, n. 15479; Cass. 2 marzo 2009, n. 5034); tuttavia compete al giudice del merito verificare con accertamento di fatto non censurabile nel giudizio di legittimità ove assistito da idonea motivazione – l’adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura (ex aliis, Cass. n. 15479/2007 cit.; Cass. n. 17 aprile 2014, n. 8971; Cass. 14 aprile 2015, n. 7490); in particolare tale comunicazione è in contrasto con l’obbligo normativo di trasparenza quando: a) i dati comunicati dal datore di lavoro siano incompleti o inesatti; b) la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata; c) sussista un rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale (Cass. 16 marzo 2007, n. 6225; Cass. 16 gennaio 2013, n. 880; Cass. n. 7490/2015 cit.); in proposito si è sovente affermato che, in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale (Cass. 5 maggio 2016, n. 9061; Cass. 3 luglio 2015, n. 13794), per cui, in relazione ad essi, “l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza” (in termini: Cass. 18 novembre 2016, n. 23526); occorre poi ribadire che la L. n. 223 del 1991, nel prevedere, agli artt. 4 e 5, la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda; i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541; Cass. 3 marzo 2009, n. 5089; Cass. 21 febbraio 2012, n. 2516; Cass. 7 febbraio 2017, n. 3176).

Nella specie, come evidenziato dalla Corte territoriale, nella comunicazione preventiva la Fenig s.r.l., determinatasi ad effettuare una riorganizzazione aziendale con riduzione dei costi cui pervenire con la modifica dell’assetto organizzativo della Casa di cura mediante l’esternalizzazione di tutti i servizi non costituenti il core business della struttura stessa e comunque estranei ad attività sanitarie quali pulizie, amministrazione, cucina, manutenzione, accettazione e centralino, aveva indicato il numero complessivo delle unità eccedenti (48) di cui tutto il personale “addetto ai servizi” e quello “amministrativo (39 posizioni) e solo una parte (9) del personale addetto all’assistenza” ed altresì indicato i profili professionali e la collocazione aziendale (es. ausiliari, impiegati amministrativi, addetti al centralino/telefonia, operaio non specializzato e specializzato, cuoco, infermieri, capo sala ecc.), il livello di inquadramento. La procedura era quindi passata ripetutamente al vaglio delle oo.ss. che da ultimo erano addivenute all’accordo del 23 luglio 2014 il quale aveva previsto il licenziamento senza applicazione dei criteri di scelta in relazione alle 39 unità addette ai servizi/amministrazione ed il licenziamento con applicazione dei criteri di scelta in relazione alle 9 unità addette all’assistenza diretta dei pazienti.

Sulla base di tale lettura degli atti di causa la Corte territoriale ha concluso che l’eventuale omessa indicazione della effettiva posizione rivestita dalla M. (quale responsabile amministrativo) e l’inserimento della stessa nell’ambito del personale infermieristico non costituisse elemento tale da pregiudicare l’adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura.

Ed infatti, ad avviso dei giudici di appello, una volta accertata l’effettiva esternalizzazione dei servizi amministrativi (la questione della eventuale simulazione di tale esternalizzazione era risultata preclusa dall’improcedibilità del reclamo incidentale) ed il totale venire meno della gestione interna di tali funzioni in Fenig, anche la M. sarebbe stata licenziata. La sua diversa collocazione nel settore amministrativo avrebbe influito semmai nella graduatoria delle infermiere, dove ella aveva avuto, in base all’applicazione dei criteri di scelta previsti dai sindacati, un punteggio tale da rimanere in servizio, ma tale circostanza non aveva avuto alcun rilievo quanto al controllo sulla programmata riduzione del personale addetto ai servizi e all’amministrazione, nè poteva aver fuorviato il sindacato, che al più avrebbe dovuto acconsentire al suo licenziamento (cfr. sentenza impugnata pagg. 7 e 8).

In sostanza, la comunicazione preventiva di cui si discute ha consentito all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, dovendosi ribadire che non ogni incompletezza o inesattezza dei dati, così come la stessa divergenza nel numero degli esuberi tra comunicazione preventiva e comunicazione finale, automaticamente determinano l’insufficienza della comunicazione, essendo necessario che la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata e che sussista un rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale, circostanze nella specie non emerse. Inoltre, l’imprenditore può limitarsi, come accaduto nel caso che ci occupa, all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, avuto riguardo alle unità addette al servizio (esternalizzato) coinvolto dall’esigenza di riduzione del personale, senza che occorrano, in tale ipotesi, altre e più specifiche indicazioni (v. Cass. 7 novembre 2016, n. 22543).

In definitiva corretto è il ragionamento secondo cui le lamentate omissioni o inesattezze della comunicazione preventiva non siano state tali da determinare una falsa o incompleta rappresentazione della realtà, tale da compromettere il corretto svolgimento dell’esame congiunto con il sindacato, e quindi, da incidere sulla correttezza dei provvedimenti finali adottati.

Del resto, come sopra evidenziato, la valutazione della adeguatezza della comunicazione spetta al giudice di merito, e deve essere compiuta anche in relazione al fine che la comunicazione stessa persegue, che è quello di sollecitare e favorire la gestione contrattata della crisi.

Quella, nella specie, operata è del tutto logica e coerente con i residui spazi di controllo devoluti al giudice che non riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione, per cui non possono trovare ingresso, in sede giudiziaria, tutte quelle censure con le quali, senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine che attiene invece al “merito” delle scelte imprenditoriali circa la riduzione o trasformazione dell’attività produttiva.

4.1. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, in riferimento agli artt. 99,101,112,420,421,437 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui la Corte territoriale avrebbe ritenuto fondato il reclamo anche con riferimento al denunciato vizio di ultrapetizione ed in particolare ritenuto che le ricorrenti si fossero dolute solo della totale mancanza nella comunicazione preventiva della collocazione aziendale e dei profili del personale eccedente e non anche della mancanza di informazioni sulla collocazione aziendale della M..

4.2. Il motivo presenta profili di inammissibilità per non essere formulato come error in procedendo e per essere promiscuamente e contemporaneamente denunciata, art. 360 c.p.c., ex nn. 3 e 5, la violazione di plurime disposizioni di legge o di codice e del vizio di motivazione con una modalità di formulazione che risulta non rispettosa del canone della specificità del motivo allorquando – come nella specie – nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (Cass., Sez. U, 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. U, 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862).

Peraltro il lamentato vizio motivazionale non risulta neppure corrispondente al paradigma del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale risultante a seguito della riformulazione da parte del D.L. n. 83 del 2012, art. 54 (conv. con L. n. 134 del 2012).

Come infatti precisato da Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053, può essere dedotto in sede di legittimità soltanto l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, restando viceversa esclusa la possibilità di dolersi dell’omesso esame di elementi istruttori, qualora il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

In ogni caso il motivo non è conferente con il decisum della Corte d’appello che ha ritenuto non pregiudicata la regolarità dell’informazione preventiva dall’eventuale omessa indicazione della esatta collocazione aziendale della M..

5. Il ricorso va, quindi, rigettato.

6. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

7. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2018

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