Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21717 del 08/10/2020

Cassazione civile sez. II, 08/10/2020, (ud. 14/07/2020, dep. 08/10/2020), n.21717

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21433/2019 proposto da:

D.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato GIANLUIGI

BONIFATI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in LODI

– VIA COLLE EGHEZZONE – VIA ALDO MORO 13,

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 4877/2019 del TRIBUNALE di MILANO depositato il

05/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/07/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.M., proponeva ricorso avanti al Tribunale di Bologna avverso il provvedimento della competente Commissione Territoriale di diniego della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, chiedendo il riconoscimento della protezione sussidiaria o, in subordine, il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il ricorrente, privo di documenti di identità del paese di origine dichiarato (Mali), affermava di aver fatto ingresso irregolare in Italia il (OMISSIS) attraverso la frontiera marittima siciliana. Dichiarava di essere nato e cresciuto a (OMISSIS) (regione di Koulikoro), di appartenere al gruppo etnico bambara e di essere di religione musulmana; che quanto ai motivi che lo avevano indotto a espatriare dichiarava di aver preso contatti con fedeli dei Testimoni di Geova che si recavano nel suo villaggio per svolgere attività di evangelizzazione, per cui aveva deciso di diventare Testimone di Geova e ne aveva prima parlato con il padre che si era decisamente opposto in quanto la famiglia era musulmana. C’era stato un violento diverbio con il padre (che lo aveva ferito con un coltello e quindi costretto a un ricovero in ospedale) a causa del rifiuto del ricorrente di unirsi alle preghiere. In questa contrapposizione familiare il ricorrente si era trovato in minoranza, trovando soltanto l’appoggio nella sorella minore che era andata da un amico del ricorrente per dirgli di fare tutto per farlo partire dal Mali, altrimenti sarebbe stato ucciso dai familiari; che, arrivato in Benin dove non conosceva nessuno, incontrava un uomo della Costa d’Avorio che, dopo aver ascoltato il suo racconto, lo teneva con sè. Dopo aver trovato un lavoro come guardiano, che gli consentiva di guadagnare il denaro appena sufficiente per mangiare, decideva di recarsi in Algeria, dietro suggerimento dell’uomo ivoriano, che gli dava i soldi. Giunto in Algeria, aveva preso contatti con un conoscente dell’ivoriano, per il quale il ricorrente aveva lavorato per un anno, ma poi l’uomo era ritornato in Costa d’Avorio e il ricorrente decideva di andare in Libia, dove rimaneva per due anni. Era stato arrestato e nei due mesi di detenzione era stato derubato dei risparmi che aveva.

Con decreto n. 4877/2019 depositato il 05/06/2019, il Tribunale rigettava il ricorso.

Avverso tale decreto il richiedente propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi; l’intimato il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8” poichè la domanda di protezione internazionale doveva essere esaminata dal Tribunale alla luce di informazioni precise e aggiornate sulla situazione generale esistente nel paese d’origine. Il Giudice non avrebbe tenuto conto che tutti gli osservatori internazionali ritengono che in Mali vi sia una situazione di grave pericolo, caratterizzata da conflitti armati, attacchi terroristici, violenza generalizzata, abusi e crimini di diritto internazionale.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – questa questa Corte ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. n. 16925 del 2018).

Come, inoltre precisato (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”.

1.3. – Tanto premesso, va rilevato che il Tribunale ha analiticamente motivato (con il dovuto specifico riferimento e richiamo a quanto affermato dai internazionali accreditati aggiornati: cfr. Cass. n. 15794 del 2019) le ragioni per cui si debba escludere che il richiedente provenga da una zona del Mali, che presenti una generalizzata situazione di violenza indiscriminata in cui si registri un clima di tensione tale da far presumere che in caso di suo rientro possa andare incontro a torture o altre forme di trattamento inumano e degradante; deducendo viceversa che la situazione del luogo in cui il richiedente dovrebbe ragionevolmente ricollocarsi non errpolitica quantomeno di tale zona del Paese risulta, al momento, sufficientemente stabile (decreto, pag. 13).

La nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15, direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Egafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018).

Anche tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra detto) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

Nel caso, il giudice di merito ha puntualmente valutato la situazione del paese di origine del richiedente, giungendo ad escludere la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), all’esito di un’articolata ed analitica valutazione desunta (come detto) da siti internazionali accreditati, senza peraltro che il ricorrente abbia, in senso contrario, addotto specificamente altre idonee e/o più aggiornate fonti.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e/o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5”, là dove il richiedente aveva rappresentato i suoi motivi di particolare vulnerabilità: la provenienza da una famiglia di musulmani fondamentalisti, la conversione alla religione dei Testimoni di Geova e il rischio, ove rimpatriato, di essere ucciso per apostasia dalla sua famiglia d’origine.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – In ordine alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria – incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine. Nella specie, il Tribunale territoriale non ha violato il suddetto principio nè è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (non applicabile ratione temporis alla fattispecie, non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019).

2.3. – Riguardo inoltre al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero questa Corte (Cass. n. 4455 del 2018; e successivamente Cass., sez. un., n. 29460 del 2019) ha precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

A tal riguardo il motivo appare ulteriormente inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, valutazione in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede.

3. – Per concludere va, infine, rilevato che le proposte censure, come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

4. – Il ricorso va dichiarato inammissibile, ex art. 360 bis, n. 1, come reinterpretato da Cass., sez. un., n. 7155 del 2017. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non ha svolto attività difensiva. Va emessa la dichiarazione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2020

 

 

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