Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21716 del 27/09/2019

Cassazione civile sez. II, 27/08/2019, (ud. 26/02/2019, dep. 27/08/2019), n.21716

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7843-2015 proposto da:

D.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato GIUSEPPE DI

VITA e dall’Avvocato MAURO AMICONI, presso il cui studio a Roma,

viale Mazzini 88, elettivamente domicilia per procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato ACHILLE PALERMO

ed elettivamente domiciliato a Roma, viale Cardinal Ginnasi 8,

presso lo studio dell’Avvocati PIER LUIGI TIBERIO, per procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 213/2015 della CORTE D’APPELLO DI CATANIA,

depositata il 5/2/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

26/02/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale della Repubblica, Dott. CARDINO ALBERTO, il quale ha

concluso per il rigetto del ricorso;

sentito, per il ricorrente, l’Avvocato GIUSEPPE DI VITA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Catania, con sentenza del 7/11/2009, in parziale accoglimento della domanda proposta da R.S., ha condannato D.M. al ripristino di quattro finestre, meglio descritte nella consulenza tecnica d’ufficio, in modo da renderle conformi alla norma prevista dall’art. 901 c.c. in materia di luci. Il tribunale, invece, ha rigettato la domanda con la quale l’attore aveva chiesto la condanna alla chiusura ed alla eliminazione di due delle quattro vedute, vale a dire quelle realizzate nel lato ovest della proprietà del D., assumendo che l’attore non aveva provato che il convenuto le avesse realizzate ex novo anzichè modificate. Il tribunale, infine, ha dichiarato l’inammissibilità dell’eccezione riconvenzionale di usucapione, relativa alle pretese servitù di veduta, perchè tardivamente proposta.

D.M., con citazione notificata il 2/2/2010, ha proposto appello, articolando due motivi.

R.S. ha resistito al gravame, del quale eccepiva l’infondatezza chiedendone il rigetto, ed ha proposto appello incidentale.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello principale ed ha accolto l’appello incidentale ed, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato l’appellante ad arretrare, ai sensi dell’art. 905 c.c., comma 1, ovvero a chiudere le vedute che la consulenza tecnica d’ufficio indica come terza o quarta apertura, ubicate sulla parete lato ovest dell’immobile di proprietà del D..

La corte, innanzitutto, ha preso in esame il primo motivo d’appello, con il quale l’appellante aveva censurato la sentenza impugnata per avere erroneamente rigettato l’eccezione di usucapione la quale, invece, era stata tempestivamente e ritualmente proposta fin dal primo atto difensivo, e cioè la comparsa di costituzione e risposta, anche mediante il rinvio a documenti che comprovavano la prescrizione acquisitiva, e ne ha ritenuto l’infondatezza. La corte, infatti, dopo aver premesso che l’azione di accertamento dell’illegittimità delle luci e delle vedute e di riduzione in pristino, avendo natura reale, è stata ritualmente proposta nei confronti dell’attuale proprietario dell’immobile in questione, anche se l’asserita attività illecita era stata in precedenza materialmente realizzata da altri, ha ribadito che il convenuto non aveva, in realtà, sollevato, nella comparsa di risposta, alcuna eccezione di usucapione, essendosi limitato a prospettare circostanze di fatto (e cioè l’atto di accertamento delle proprietà immobiliare eseguito dall’ufficio tecnico erariale nel 1995 e la mancata alterazione dello stato dei luoghi da parte dello stesso convenuto) assolutamente irrilevanti e, comunque, inidonee a configurare la pretesa eccezione di usucapione, effettivamente proposta, come affermato dal tribunale, solo nella comparsa conclusionale.

La corte, inoltre, ha ritenuto che fosse fondato l’appello incidentale con il quale l’appellato aveva chiesto la chiusura e la eliminazione delle finestre realizzate dal convenuto nel lato ovest della sua proprietà. La corte, al riguardo, ha ritenuto errata la decisione con la quale il tribunale, dopo aver qualificato le predette finestre come vedute ed averne riconosciuto la illegittimità, perchè realizzate in violazione delle distanze prescritte dall’art. 905 c.c., non ne aveva, poi, disposto l’eliminazione, imponendone la regolarizzazione come luci. La corte, infatti, ha osservato che viola la corrispondenza tra chiesto ed il pronunciato il giudice di merito che, adito allo scopo di sentir dichiarare l’illegittimità di alcune vedute, ne abbia poi disposto la regolarizzazione come luci.

La corte, infine, ha condannato l’appellante principale a rimborsare all’appellato le spese del giudizio.

D.M., con ricorso notificato il 19/3/2015, ha chiesto, per otto motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente non notificata.

R.S. ha resistito con controricorso notificato in data 30/4.14/5/2015.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, e la violazione dell’art. 2909 c.c., art. 111 Cost., comma 4 e art. 2653 c.c., comma 1, n. 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha completamente omesso di esaminare l’eccezione con la quale, all’udienza del 20/10/2014, l’appellante aveva dedotto: – di essersi spogliato, con atto del 6/10/2010, della proprietà dell’immobile nel quale sono ubicate le aperture oggetto della lite, avendolo trasferito a F.V., libero da iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli, in difetto della trascrizione della domanda giudiziale da parte del resistente, prevista dall’art. 2653 c.c., comma 1, sull’immobile oggetto della lite, ai fini dell’opponibilità della sentenza ai terzi; – tale omessa trascrizione ha determinato l’inammissibilità e/o la sopravvenuta improcedibilità dell’originaria domanda attorea, per difetto di legittimazione passiva del ricorrente, la quale, a sua volta, comporta che la sentenza della corte d’appello è inutiliter data, non potendo spiegare i suoi effetti nei confronti della parte che è rimasta estranea al giudizio in difetto di trascrizione della domanda; – tale circostanza non è stata contestata dal resistente, che, in tal modo, vi ha prestato acquiescenza.

2. Il motivo è infondato. Il ricorrente, al di là delle norme invocate, ha censurato, in sostanza, l’omessa pronuncia, da parte della corte d’appello, in ordine all’eccezione di inammissibilità e/o di improcedibilità dell’originaria domanda attore, che lo stesso aveva sollevato (“la sentenza della Corte Etnea omesse integralmente di esaminare tale profilo di inammissibilità e/o di improcedibilità sopravvenuta della domanda esperita dal resistente…”), in conseguenza, per un verso, del sopravvenuto difetto di legittimazione passiva del ricorrente, per aver venduto, in corso di causa, l’immobile nel quale sono ubicate le aperture oggetto della lite, e, per altro verso, dell’inopponibilità della sentenza al terzo acquirente, per non avere l’attore trascritto la domanda proposta. Solo che, com’è noto, il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito. La decisione di accoglimento della domanda proposta da una parte comporta, invero, la reiezione, sia pur implicitamente, dell’eccezione d’inammissibilità della domanda stessa, avanzata dalla controparte (Cass. n. 14276 del 2017, in motiv.) e non può, quindi, integrare la violazione della norma dell’art. 112 c.p.c.: se il giudice di merito omette di pronunciarsi su un’eccezione di inammissibilità, la sentenza di merito non è impugnabile per l’omessa pronuncia ma unicamente per l’invalidità già vanamente eccepita, in quanto ciò che rileva non è il tenore della pronuncia impugnata, bensì l’eventuale esistenza appunto di tale invalidità. Il rigetto implicito dell’eccezione processuale può, in altri termini, configurare un vizio della decisione ma per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., vale a dire solo se ed in quanto si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione prospettata dalla parte (Cass. n. 321 del 2016). Nel caso di specie, tuttavia, il ricorrente si è limitato, come detto, a denunciare il vizio di omessa pronuncia (“la sentenza della Corte Etnea omesse integralmente di esaminare tale profilo di inammissibilità e/o di improcedibilità sopravvenuta della domanda esperita dal resistente…”) ma non ha, a ben vedere, proposto, con il motivo in esame, una specifica censura in ordine decisione di implicito rigetto dell’eccezione, come sopra descritta, sulla quale la corte d’appello ha omesso di pronunciarsi.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, e la violazione dell’art. 2909 c.c., art. 111 Cost., comma 4 e art. 2653 c.c., comma 1, n. 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha del tutto ignorato l’esame della questione esposta nel motivo precedente, laddove, al contrario, avrebbe dovuto prendere atto della mancata trascrizione della domanda a norma dell’art. 2653 c.c. e, per l’effetto, dichiarare l’inammissibilità sopravvenuta della domanda stessa a causa della difetto di legittimazione passiva del convenuto.

3. Il motivo è infondato. Rileva, infatti, la Corte, per un verso, che il trasferimento inter vivos dell’immobile da parte del convenuto non lo priva della legittimazione passiva per tutto il corso del giudizio, salvo che, in conseguenza dell’intervento in giudizio dell’acquirente o della sua chiamata in causa, non sia stato estromesso con il consenso delle altre parti (art. 111 c.p.c., commi 1 e 3), e, per altro verso, che l’eventuale inopponibilità della sentenza al terzo acquirente dell’immobile può essere al più invocata dal terzo stesso nei confronti dell’attore che pretendesse di portare ad esecuzione la pronuncia ai suoi danni (come nel caso deciso da questa Corte con la sentenza n. 7761 del 2013, che il ricorrente ha invocato), ma non può certamente valere, come lo stesso pretende, quale vizio della sentenza pronunciata tra le parti originarie del giudizio, che sono vincolate al relativo giudicato (art. 2909 c.c.) a prescindere, evidentemente, dalla trascrizione della domanda introduttiva del giudizio (artt. 2652 e 2653 cc..) o della sentenza stessa (art. 2651 c.c.).

4. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 180,183 e 184 c.p.c., nella formulazione applicabile ai giudizi intrapresi prima del 1/3/2006, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che il convenuto non aveva sollevato, nella comparsa di risposta, alcuna eccezione di usucapione, essendosi limitato a prospettare circostanze di fatto (e cioè l’atto di accertamento delle proprietà immobiliare eseguito dall’ufficio tecnico erariale nel 1995 e la mancata alterazione dello stato dei luoghi da parte dello stesso convenuto) assolutamente irrilevanti e, comunque, inidonee a configurare la pretesa eccezione di usucapione, effettivamente proposta, come affermato dal tribunale, solo nella comparsa conclusionale. Sennonchè, ha osservato il ricorrente, così opinando la corte d’appello ha omesso di considerare che il convenuto, nella comparsa di risposta depositata alla prima udienza del giudizio innanzi al tribunale, aveva tempestivamente dedotto l’esistenza delle luci e delle vedute prima del 1995 e la loro mancata modifica per forma e dimensioni, vale a dire, mediante l’allegazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi dell’azione negatoria esperita dall’attore, una eccezione riconvenzionale di usucapione del diritto di servitù di veduta, la quale, del resto, non richiede formule sacramentali, essendo a tal fine sufficiente qualsiasi deduzione, anche implicita, come l’istanza di ammissione di un mezzo di prova, che la riveli. Il convenuto, infatti, ha proseguito il ricorrente, non solo ha dedotto i fatti estintivi o modificativi dell’altrui diritto, al momento della sua costituzione in giudizio, ma ha anche prodotto i documenti comprovanti la propria eccezione riconvenzionale ed ha articolato in primo grado e poi reiterato in appello una prova testimoniale strumentale a tale accertamento, assumendo, in tal modo, una condotta processuale che aveva la sua ragion d’essere unicamente nella sua volontà di esperire un’eccezione riconvenzionale tesa a paralizzare l’azione della controparte.

5. Il motivo è infondato. La parte convenuta in un giudizio di carattere reale può utilmente contrastare l’azione così esercitata nei suoi confronti anche sollevando un’eccezione riconvenzionale di usucapione, senza necessità di formulare la relativa domanda (Cass. n. 20330 del 2007; conf., Cass. n. 26884 del 2013). La proposizione di tale eccezione, peraltro, non richiede che la parte impieghi formule sacramentali ma è sufficiente qualsiasi deduzione, anche implicita, che la riveli. Incorre, pertanto, in error in procedendo il giudice di merito che, in un’azione volta alla rimozione di vedute asseritamente collocate a distanza inferiore rispetto a quella legale, di fronte alla deduzione da parte del convenuto del possesso ultraventennale della corrispondente servitù, e quindi astrattamente idonea a paralizzare la pretesa azionata dall’attore, ometta di esaminare l’eccezione riconvenzionale di usucapione in essa implicita, anche se non espressamente formulata (cfr. Cass. n. 8225 del 2004; Cass. n. 6400 del 1984). Ne consegue che, ove il convenuto nel giudizio per il rispetto delle distanze legali nelle costruzioni abbia eccepito in via riconvenzionale l’usucapione della contraria servitù, allo scopo di far respingere la pretesa attorea, il giudice non può esimersi dal procedere al suo accertamento (cfr. Cass. n. 22552 del 2009). L’eccezione di usucapione costituisce, tuttavia, un’eccezione in senso stretto (Cass. n. 21484 del 2007, in motiv., lì dove ha ritenuto che l’eccezione di usucapione costituisca un’eccezione in senso proprio, che il giudice non può rilevare d’ufficio, necessitando affinchè operi l’effetto estintivo, modificativo, impeditivo, che caratterizza l’eccezione, una dichiarazione di volontà della parte) e dev’essere, come tale, sollevata in giudizio, mediante la deduzione di tutti i relativi fatti costitutivi, nel termine che, secondo la normativa processuale applicabile ratione temporis, il convenuto deve rispettare, a pena di decadenza, per la tempestiva deduzione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio (Cass. n. 10206 del 2015), vale a dire, nel caso di specie, trattandosi di giudizio introdotto con atto di citazione pacificamente notificato in data 22/3/2005, entro il termine previsto dall’art. 180 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alle modificazione apportate dal D.L. n. 35 del 2005, conv. con la L. n. 80 del 2005. Ora, come emerge dagli atti del giudizio di merito, cui la Corte accede direttamente in ragione della natura processuale del vizio denunciato, il convenuto, alla prima udienza del giudizio innanzi al tribunale, ha depositato comparsa di costituzione e risposta nella quale ha dedotto, per un verso, che le aperture contestate dall’attore emergevano già nelle planimetrie allegate al certificato rilasciato dall’ufficio tecnico erariale di Catania il 3/1/1995, e, per altro verso, che tali aperture non erano mai state da lui modificate nè per forma nè per dimensione. Risulta, quindi, evidente che, come correttamente ritenuto dalla corte d’appello, il convenuto, in mancanza di qualsivoglia riferimento alla verificazione almeno ultraventennale – rispetto alla notifica della citazione introduttiva nell’anno 2005 di tali fatti – non aveva, in realtà, sollevato, neppure implicitamente, un’eccezione riconvenzionale di acquisto, per usucapione, della servitù di veduta, onde ottenere il rigetto della domanda di rimozione delle stesse che l’attore aveva proposto. Nè, a tal fine, può valere, per le medesime ragioni espresse, il fatto che l’attore avrebbe ammesso, nella citazione introduttiva, che tutte le aperture oggetto del giudizio “erano esistenti da prima del 1995”, e neppure, infine, che il convenuto, nella memoria depositata a norma dell’art. 184 c.p.c., aveva chiesto l’ammissione di prove orali sul fatto, riprodotto a p. 6 del ricorso, che “le finestre ubicate nell’immobile di proprietà del Dott. D.,…, prospicienti sul cespite di proprietà dell’architetto R. sono sempre state nella loro dimensione attuale da oltre venti anni”: in effetti, se è vero che la proposizione di un’eccezione non richiede l’impiego di formule sacramentali, essendo a tal fine sufficiente qualsiasi deduzione, compresa l’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio, che riveli l’intento del deducente di contrastare la domanda avversaria, con la conseguenza che incorre in error in procedendo il giudice di merito che, di fronte a una richiesta di prova, da parte del convenuto, rivolta a dimostrare il possesso ultraventennale del bene controverso e a paralizzare, così, la pretesa di controparte, ometta di esaminare l’eccezione riconvenzionale di usucapione implicita in tale richiesta, anche se non espressamente formulata, e di valutare, conseguentemente, l’ammissibilità e la rilevanza del mezzo invocato (Cass. n. 8225 del 2004; Cass. n. 6400 del 1984), è anche vero, tuttavia, che, ove si tratti di eccezione che, come quella di usucapione, dev’essere sollevata, a pena di decadenza, nel termine perentorio previsto per le eccezioni non rilevabili d’ufficio (nella specie, il termine fissato ai sensi dell’art. 180 c.p.c., comma 2, nel testo in vigore ratione temporis), è necessario che tutti i relativi fatti costitutivi siano appunto, dedotti in giudizio (pur se, in ipotesi, come oggetto di una richiesta di ammissione di un mezzo di prova) entro il predetto limite preclusivo, con la conseguenza che, in difetto, non sono a tal fine utilizzabili i fatti che, seppur astrattamente riconducibili a tale eccezione, siano stati dedotti in giudizio dal convenuto solo con la memoria depositata a norma dell’art. 184 c.p.c.: come, appunto, è accaduto nel caso in esame.

6. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 949 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha accolto le domande proposte dall’attore in palese violazione dell’onere della prova che incombe su chi vuoi far valere in giudizio un proprio diritto. Nei due gradi di giudizio, infatti, ha osservato il ricorrente, non è stato dimostrato, in dispregio all’art. 2697 c.c., che il convenuto avesse modificato le luci e le vedute che esistono dal 1973, come lo stesso aveva eccepito nella comparsa di costituzione e risposta e poi accertato dal consulente tecnico d’ufficio. L’attore, del resto, non ha chiesto l’accertamento dell’inesistenza della servitù prima del decorso del termine ventennale che consente l’acquisto, per usucapione, della servitù di veduta, nè ha fornito la prova di aver compiuto atti interruttivi della prescrizione acquisitiva, avendo, anzi, confessato, in citazione, che tutte le aperture oggetto del giudizio “erano esistenti da prima del 1995”.

7. Con il quinto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del comb.disp. dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, in dispregio del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sancito dall’art. 112 c.p.c., ha completamente omesso di pronunciarsi sul primo motivo d’appello con il quale il convenuto aveva lamentato la violazione dell’art. 2697 c.c. per non avere l’attore fornito la prova che l’appellante aveva modificato le luci e le aperture che esistono nella sua proprietà sin dal 1973, come eccepito nella comparsa di costituzione e risposta e confermato dal consulente tecnico d’ufficio.

8. Il quarto e il quinto motivo, da trattare congiuntamente, sono infondati. Nell’azione volta alla rimozione di vedute collocate a distanza inferiore rispetto al limite di legge, non rileva, invero, il fatto che l’attuale proprietario dell’immobile nel quale sono collocate non sia stato l’autore materiale della loro realizzazione. Il proprietario del fondo danneggiato da opere eseguite sul fondo del vicino, in violazione delle distanze legali, può esperire, infatti, oltre all’azione risarcitoria, di natura obbligatoria, quella ripristinatoria, di natura reale, ex art. 872 c.c.: la prima, mirando al ristoro del pregiudizio patrimoniale conseguente all’edificazione illegittima, è esercitabile anche nei confronti dell’autore materiale di questa; la seconda, volta all’eliminazione fisica delle modifiche apportate sul fondo contiguo, dev’essere, invece, necessariamente proposta nei confronti del proprietario della costruzione, anche se materialmente realizzata da altri, potendo egli soltanto essere destinatario dell’ordine di demolizione che il ripristino delle distanze legali tende ad attuare (Cass. n. 458 del 2016).

8. Con il sesto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 245 c.p.c. e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha ammesso la prova testimoniale che il ricorrente aveva richiesto in primo grado e reiterato in appello fino all’udienza di precisazione delle conclusioni del 20/10/2014, sulle circostanze dedotte nella memoria istruttoria del 19/11/2006. La corte d’appello, infatti, ha osservato il ricorrente, non ha fornito alcuna ragione per negare l’ammissione di tale prova.

9. Il motivo, vertendo sulla mancata ammissione delle prove richieste per la dimostrazione dei fatti riprodotti a p. 6 del ricorso, vale a dire che “le finestre ubicate nell’immobile di proprietà del Dott. D.,…, prospicienti sul cespite di proprietà dell’architetto R. sono sempre state nella loro dimensione attuale da oltre venti anni” e che “il Dott. D.M. non ha mai modificato le dimensioni delle finestre ubicate nell’immobile di cui è proprietario che sono prospicienti sul cespite di proprietà dell’architetto R.”, risulta, evidentemente, assorbito, per difetto di decisività, dai rigetto di quelli precedenti.

10. Con il settimo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. e degli artt. 902 e 905 c.c. e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha erroneamente accolto l’appello incidentale proposto dall’appellato, non avendo la corte considerato che: a) l’impugnazione incidentale esperita in appello doveva essere dichiarata inammissibile, trattandosi di domanda nuova: l’appellato, infatti, ha osservato il ricorrente, aveva impugnato in via incidentale la sentenza di primo grado chiedendo che, in parziale riforma di tale sentenza, l’appellante fosse condannato ad eliminare le vedute insistenti al piano primo e secondo, lato ovest del suo fabbricato, individuate dal consulente tecnico d’ufficio come terza e quarta apertura, laddove, al contrario, nell’atto di citazione, l’attore aveva fatto riferimento alle aperture ubicate nel lato est del fabbricato e al lato sud, mai al iato ovest; b) l’accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di usucapione del diritto di mantenere le aperture esistenti sul fondo dell’attore comportava il rigetto delle domande contenute nell’appello incidentale; c) l’apertura contraddistinta dal numero 3, come accertato dal consulente tecnico, aveva dimensioni maggiori di quelle attuali ed esiste dal 1973, mentre la luce indicata con il numero 1 aveva un’altezza che era precedentemente superiore a quella attuale; d) la finestra ubicata ad ovest, contraddistinta dal n. 4 della perizia, è ubicata in un vano non abitabile e che era certamente esistente in data anteriore al 1994 senza che tale circostanza sia mai stata smentita dal R. il quale ha esplicitamente riconosciuto l’esistenza delle aperture in data anteriore al 1995.

11. Il motivo, per i profili non assorbiti dal rigetto di quelli precedenti (come quello di cui alla lett. b e all’ultima parte della lett. d), è infondato. La censura a), alla luce dell’incontestato rilievo svolto dal resistente a p. 16 del controricorso, non tiene, infatti, conto che già il tribunale, con statuizione che non risulta essere stata specificamente impugnata, aveva affermato che la citazione per mero errore materiale aveva fatto riferimento ad aperture collocate sul lato est anzichè sul lato ovest dell’immobile di proprietà del convenuto: e, non a caso, proprio ed esclusivamente su quest’ultime si è appuntato l’appello incidentale, così come riprodotto a p. 14 del ricorso, svolto dall’appellato. Le residue censure, invece, si risolvono in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte, in punto di fatto, dal giudice del merito, laddove è noto che compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008).

12. Con l’ottavo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e del D.M. n. 140 del 2012, art. 41 che ha dato attuazione al D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 2, conv. con la L. n. 27 del 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, a fronte del mero deposito di una memoria di replica di appena tre pagine, ha liquidato in Euro 1.820,00 il compenso maturato per la sola fase decisoria di secondo grado.

13. Il motivo è inammissibile. Il superamento, da parte del giudice, dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura, infatti. un vizio in iudicando e, pertanto, per l’ammissibilità della censura, è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli conteggi contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate, al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità, senza dover espletare un’ammissibile indagine sugli atti di causa: ciò che, nel caso di specie, non risulta accaduto.

14. Il ricorso devèessere, quindi, rigettato.

15. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

16. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2019

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