Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21716 del 08/10/2020

Cassazione civile sez. II, 08/10/2020, (ud. 18/02/2020, dep. 08/10/2020), n.21716

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33778/2018 proposto da:

R.A., RO.AN., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

VITO GIUSEPPE GALATI 100/C, presso lo studio dell’avvocato ENZO

GIARDIELLO, e rappresentati e difesi giusta procura a margine del

ricorso, dall’avvocato GIOVANNI ANTONIO CILLO;

– ricorrenti –

contro

M.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POMPEO MAGNO

10/B, presso lo studio dell’avvocato MARIA ASSUNTA LAVIENSI, e

rappresentato e difeso giusta procura a margine del controricorso

dall’avvocato IDA IASI, e all’avvocato GIAN PAOLO LA SALA;

M.G. e M.A., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA POMPEO MAGNO 10/B, presso lo studio dell’avvocato MARIA

ASSUNTA LAVIENSI, e rappresentati e difesi giusta procura a margine

del controricorso dall’avvocato ANTONIO CARLO LA SALA;

D.L.M., D.L.V., D.L.A., DE.LE.MA.,

elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZALE CLODIO 14, presso lo

studio dell’avvocato ANDREA GRAZIANI, e rappresentati e difesi

giusta procura in calce al controricorso dall’avvocato GIOVANNI

SOLIMENE;

B.G., e B.E., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA VITTORIA COLONNA 18, presso lo studio degli avvocati ACHILLE

BENIGNI, e FABIO BENIGNI, che li rappresentano e difendono giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

nonchè

A.V., A.L., T.G., A.I.,

AL.LA., A.L., A.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1944/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 27/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Sentito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore

Generale, Dott. DE RENZIS Maria Luisa, che ha concluso per il

rigetto del ricorso;

Uditi l’Avvocato B.E., per delega dell’Avvocato Achille

Benigni, l’Avvocato Andrea Graziani, per delega dell’Avvocato

Giovanni Solimene, e l’Avvocato Laviensi Maria Assunta per delega

degli Avvocati La Sala Carlo Antonio e La Sala Gian Paolo per i

controricorrenti.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE

Con citazione del 29 gennaio 1998 B.G. e Be.Em. convenivano in giudizio gli altri comproprietari del fabbricato in (OMISSIS), S.G., S.S., D.L.M., V., A. e Ma., A.G., A., V. e L., e Ro.At. onde ottenere lo scioglimento della comunione sul fabbricato, gravemente danneggiato dal sisma del 1980 e demolito nei piani superiori, giusta ordinanza sindacale del 15/10/1986, con approvazione del progetto di ricostruzione da parte dell’assemblea, lamentando che non era stato possibile addivenire alla suddivisione interna ed alla distribuzione delle superfici delle singole proprietà nel rispetto delle quote millesimali preesistenti.

Si costituivano tutti i convenuti, ad eccezione di A.G., i quali aderivano alla domanda di divisione, con la sola eccezione dei germani D.L. che, invece, sostenevano che la stessa fosse improponibile.

All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Avellino con la sentenza n. 2416 del 19/12/2003 approvava il progetto di divisione come indicato in motivazione, ponendo le spese di lite a carico della massa come individualmente liquidate.

Avverso tale sentenza proponeva appello S.G., che lamentava l’erronea individuazione dei valori millesimali sulla scorta dei quali poi procedere all’attribuzione della proprietà del fabbricato ricostruito, denunciando anche errori di calcolo nella CTU.

I germani D.L. si costituivano e, pur mostrando di aderire alle censure del S., a loro volta proponevano appello incidentale chiedendo il rinnovo della CTU.

Anche gli appellati A. aderivano all’appello del S. e proponevano appello incidentale condizionato quanto ai coefficienti di valutazione degli immobili ed alla costituzione di una servitù di passaggio a carico delle unità immobiliari loro assegnate.

S.S. aderiva all’appello principale, mentre gli appellati B. chiedevano il rigetto del gravame.

Si costituiva anche Ro.At., il quale evidenziava di avere proposto a sua volta autonomo appello con cui si doleva che fosse stata sciolta anche la comunione in origine esistente su di un piccolo vano prospiciente (OMISSIS) e su di una cantina. Inoltre deduceva che una tabella millesimale era già stata approvata dal condominio e che, quindi, era erronea la decisione di attribuire analogo incarico al CTU.

Riunite le due impugnazioni, rinnovata la CTU, decedeva Ro.At., cui subentravano gli eredi R.A. ed An..

Decedeva anche S.G. cui subentravano gli eredi testamentari M.G. ed A., e decedeva ab intestato anche S.S., cui succedevano il marito M.E. ed i figli M.G. ed A..

Era poi deceduto anche A.A. al quale subentravano la moglie T.G. ed i figli A.I., La. e L..

La Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 1944 del 27/4/2018 accoglieva per quanto di ragione l’appello principale di S.G. e gli appelli incidentali al medesimo adesivi, e disponeva procedersi allo scioglimento della comunione in conformità del progetto redatto dal CTU nominato in appello secondo l’ultima relazione del 23/4/2016; rigettava gli altri appelli incidentali e rideterminava le spese di lite per il primo grado, compensando invece quelle di appello. Evidenziava che nella fattispecie non poteva trovare applicazione il disposto di cui alla L. n. 219 del 1981, art. 12, che permette l’approvazione di Delibere condominiali di ricostruzione e riparazione di edifici danneggiati dal sisma del 23 novembre 1980 con le maggioranze di cui all’art. 1136 c.c., comma 2, posto che era stata approvata una ricostruzione con modalità difformi dall’edificio originario.

Pertanto, secondo la Corte territoriale, operavano le norme in materia di accessione con la nascita di una comunione sull’edificio riedificato, edificio da attribuire secondo le quote originarie ai comproprietari del suolo.

Dovendosi, quindi, pervenire allo scioglimento della comunione così generata (atteso che il nuovo edificio presentava ben quattro piani in più rispetto al fabbricato danneggiato), la sentenza rilevava, altresì, che tutti i condividenti, ad eccezione dei soli R., avevano aderito alle conclusioni cui era pervenuto l’ausiliario d’ufficio nell’ultima relazione peritale, dovendosi quindi incentrare il giudizio sui soli rilievi formulati dagli stessi R..

Si osservava che il CTU non aveva ritenuto vincolanti le tabelle redatte dall’ing. R., che erano state sì approvate nel corso di un’assemblea, ma non all’unanimità.

E’ pur vero che la più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite aveva riconosciuto la possibilità di approvazione delle tabelle millesimali a maggioranza, ma ciò non inficiava la correttezza delle conclusioni del CTU.

Contrastava con il carattere vincolante delle tabelle approvate in assemblea la circostanza che già in precedenza era stato affidato al CTU l’incarico di redigere nuove tabelle; ancora la loro utilizzazione non era oggetto di consenso unanime, essendo anche state oggetto di numerose contestazioni; inoltre la stessa consulenza d’ufficio aveva denotato che i coefficienti invocati dai R. non potevano essere ritenuti vincolanti in quanto tecnicamente erronei.

La sentenza d’appello rilevava, quanto alla comunione originaria su di un piccolo vano tra i R. ed i D.L., che la stessa era da reputarsi sciolta a seguito dell’avvenuta demolizione del fabbricato, mancando peraltro una richiesta di rimanere in comunione.

In merito alle contestazioni circa la destinazione dei locali posti al piano terra ed al primo piano, in origine appartenenti a S.G., la Corte d’Appello riteneva che non rivestisse carattere vincolante la destinazione catastale, attesa la finalità essenzialmente fiscale della medesima, dovendo prevalere la circostanza che i locali in oggetto erano destinati ad utilizzo commerciale anche con regolare autorizzazione comunale.

In ogni caso le contestazioni dovevano reputarsi superate alla luce del fatto che il nuovo progetto del CTU aveva assegnato agli eredi S. i locali a piano terra in collegamento con quelli al primo piano, avendo peraltro tutti i locali un’altezza che ne consentiva qualsivoglia tipo di utilizzo, anche di tipo abitativo.

Occorreva poi evidenziare che l’appello del R., laddove pretendeva di invocare un previo accertamento delle quote di comproprietà, si palesava in parte inammissibile, atteso che, a fronte della domanda riconvenzionale del S. di accertare ex novo i valori millesimali del vecchio fabbricato, sulla scorta dei quali poi procedere all’assegnazione della proprietà esclusiva del nuovo edificio, la deduzione circa l’esistenza di un preventivo accertamento delle quote costituiva una vera e propria eccezione di merito che non era stata tempestivamente avanzata da parte della difesa dei R..

Ne derivava che la pretesa degli stessi di avvalersi delle tabelle approvate in una precedente assemblea equivaleva alla proposizione di un’eccezione nuova ex art. 345 c.p.c. e come tale inammissibile.

Alla luce dell’infondatezza dei rilievi degli appellanti R., e della fondatezza invece delle deduzioni degli altri appellanti, andava approvato il nuovo progetto di divisione redatto dal CTU nominato in appello.

Avverso tale sentenza R.A. e Ro.An. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

M.E., M.G., M.A., D.L.M., D.L.V., D.L.A., De.Le.Ma., B.G. e B.E. hanno resistito con controricorso. Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa fase.

I controricorrenti M. hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Diritto

RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1111 e 1113 c.c., nonchè dell’art. 784 c.p.c., per avere la Corte d’Appello di Napoli omesso di verificare la sussistenza della qualifica e del diritto in capo alle parti del giudizio.

Si assume che non erano stati prodotti i titoli di proprietà degli immobili oggetto di causa così come era carente la produzione della certificazione ipo-catastale.

Trattandosi di verifiche da operare d’ufficio, l’assenza del relativo riscontro avrebbe dovuto inficiare la stessa integrità del contraddittorio.

Il motivo è infondato.

In disparte l’evidente novità della questione sollevata, atteso che nei precedenti gradi di merito non era mai stata posta in discussione la circostanza che tutte le parti del giudizio fossero le uniche effettive titolari dei diritti di proprietà sulle unità immobiliari ricomprese nell’edificio danneggiato dal sisma e poi interessato dalla demolizione e successiva ricostruzione, rileva il Collegio che non ricorrano le dedotte violazioni di legge.

In tal senso si osserva che la sentenza gravata ha ritenuto, anche alla luce della non contestazione tra le parti, che il contraddittorio fosse stato correttamente introdotto tra tutti gli effettivi interessati alla divisione, sicchè nella fattispecie vanno richiamati i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 2951/2016) secondo cui, se è pur vero che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto, essedo la sua carenza, sia attiva che passiva rilevabile di ufficio dal giudice, ciò presuppone che risulti dagli atti di causa.

Inoltre, ancorchè le contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso dedotte dall’attore abbiano natura di mere difese, proponibili in ogni fase del giudizio, senza che l’eventuale contumacia o tardiva costituzione assuma valore di non contestazione o alteri la ripartizione degli oneri probatori, restano ferme le eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti.

Rileva il Collegio che sebbene sia auspicabile che il giudice investito della domanda di scioglimento della comunione verifichi in limine litis l’effettiva titolarità del diritto di comproprietà in capo ai condividenti (e ciò preferibilmente mediante l’acquisizione dei titoli di provenienza, corredati anche dalla documentazione ipo-catastale, che consente di verificare se nelle more siano intervenute delle modifiche del regime proprietario rispetto alla data cui risale il titolo di provenienza), ove però le parti convenute in giudizio non contestino l’effettiva appartenenza dei beni ai soggetti evocati in giudizio, ed ove, come nella specie, dalle indagini svolte dal consulente tecnico d’ufficio non emergano dubbi o incertezze circa la titolarità dei beni comuni in capo alle stesse parti, la contestazione mossa in sede di legittimità, in assenza di una puntuale allegazione di elementi probatori che denotino l’erroneità del convincimento del giudice circa la situazione di comproprietà, sia inammissibile, in quanto formulata, anche in relazione alla pretesa violazione del principio del litisconsorzio necessario, in via del tutto ipotetica, ed in contrasto, quanto a tale ultimo profilo, al principio secondo cui colui che eccepisce il difetto di integrità del contraddittorio, è tenuto puntualmente ad individuare le altre parti necessarie che siano state illegittimamente pretermesse dalla partecipazione al giudizio (Cass. n. 19400/2019).

Nè vale addurre la considerazione secondo cui, in assenza della produzione dei titoli e della certificazione ipo-catastale (la cui acquisizione a cura delle parti in sede di merito risponde, è opportuno ribadirlo, a commendevoli esigenze di prudenza e di agevolazione dell’accertamento probatorio, onde prevenire il rischio che in prosieguo di giudizio possa essere riscontrata l’esistenza di altri soggetti parti necessarie del giudizio di divisione) vi sarebbe il rischio che la divisione intervenga tra parti non legittimate, con il sacrificio del diritto di comproprietà alieno, atteso che tale sacrificio trova adeguata tutela sul piano processuale tramite il rimedio dell’opposizione di terzo, alla quale possono ricorrere il terzo pregiudicato ovvero il litisconsorte pretermesso.

Ove il giudice di merito, sulla scorta dell’atteggiamento processuale di non contestazione delle parti evocate in giudizio ovvero sulla base di altri elementi di carattere probatorio, quali possono essere anche le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio, si convinca della titolarità del diritto di comproprietà in capo alle parti effettivamente presenti nel giudizio di cui all’art. 784 c.p.c., al fine di far valere la violazione del principio del litisconsorzio necessario dettato dallo stesso art. 784 c.p.c., non basta, come avvenuto nella fattispecie, limitarsi ad allegare la sola circostanza della mancata acquisizione dei titoli di proprietà ovvero della documentazione ipo-catastale, ma è invece necessario addurre, con la specifica individuazione della parte pretermessa, che la divisione si è svolta senza la partecipazione di tutte le parti necessarie.

Ad opinare diversamente, e cioè addivenendo alla tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo cui anche la sola mancata acquisizione dei titoli e della certificazione ipo-catastale imporrebbe la cassazione della sentenza di emerito, si verrebbe a trasformare tale acquisizione in una sorta di presupposto processuale di ammissibilità della domanda, in assenza di una espressa volontà del legislatore, e con il rischio, in mancanza come detto di una opzione normativa in tal senso, di legittimare la cassazione di pronunce emesse tra le parti effettivamente legittimate a prendere parte al processo, sol perchè la prova della loro titolarità non sarebbe stata fornita con modalità documentali, che certamente offrono maggiori garanzie di certezza, ma che non esauriscono però gli strumenti dei quali può avvalersi il potere di autonomo accertamento del giudice di merito (si pensi a tal fine all’ipotesi in cui il diritto di comproprietà scaturisca da un acquisto a titolo originario, come in caso di usucapione, laddove sarebbe vano ricercare un titolo di acquisto formale ovvero un riscontro nella documentazione ipo-catastale, non potendosi però sol per questo negare che il soggetto sia effettivo titolare del bene di cui si chiede lo scioglimento della comunione).

2. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1136,1137 e 1138 c.c., nonchè dell’art. 68 disp. att. c.c..

Si deduce che erroneamente il giudice di appello ha fatto proprie le conclusioni del CTU quanto alla predisposizione delle nuove tabelle millesimali, trascurando che vi erano delle preesistenti tabelle già approvate dall’assemblea.

Il richiamo a tali tabelle era stato operato nella difesa di Ro.At., dante causa dei ricorrenti, sin dal primo grado di giudizio e nel primo atto difensivo, con il riferimento a quanto statuito nelle assemblee del 26 febbraio e del 12 marzo 1989, onde provvedere alla divisione attenendosi al contenuto di tali tabelle.

Ne discende che in presenza di una valida tabella approvata in sede assembleare – non essendo necessaria una Delibera con il voto favorevole totalitario di tutti i condomini, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite nel 2010 – la decisione non avrebbe potuto prescindere dal contenuto di tali tabelle ancora vincolanti.

Nè infine – sostengono ancora i ricorrenti – può addursi che la questione sia stata tardivamente dedotta solo in grado di appello, atteso che la portata precettiva delle tabelle assembleari era stata già sollevata nel primo atto difensivo in Tribunale.

Il motivo è infondato.

Correttamente la sentenza gravata, e richiamando sul punto le considerazioni già svolte dal giudice di primo grado, ha sottolineato come nella fattispecie non potesse trovare applicazione la previsione di cui alla L. n. 219 del 1981, art. 12, posto che la ricostruzione dell’edificio danneggiato dal sisma era stata deliberata con la previsione di una ricostruzione in maniera difforme dal manufatto originario, con la realizzazione di nuovi piani aggiunti, il che impediva di ritenere che potesse ipotizzarsi il protrarsi del vecchio condominio.

In tal caso, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 12775/2008), il perimento, totale o per una parte che rappresenti i tre quarti dell’edificio condominiale, determina l’estinzione del condominio per mancanza dell’oggetto, in quanto viene meno il rapporto di servizio tra le parti comuni mentre permane tra gli ex condomini soltanto una comunione “pro indiviso” dell’area di risulta, potendo la condominialità essere ripristinata solo in caso di ricostruzione dell’edificio in modo del tutto conforme al precedente. Ne consegue che, in caso di ricostruzione difforme, la nuova costruzione sarà soggetta esclusivamente alla disciplina dell’accessione e la sua proprietà apparterrà ai comproprietari dell’area di risulta in proporzione delle rispettive quote (in senso conforme Cass. n. 11201/1996, che precisa come il condominio nasca solo quando i comunisti individuano gli appartamenti di proprietà esclusiva di ciascuno di essi, con un’operazione negoziale che assume la portata di una vera e propria divisione; Cass. n. 1543/1999).

Tale conclusione non è sostanzialmente contestata nemmeno dai ricorrenti, i quali però al fine di pervenire allo scioglimento della comunione, e quindi di ripartire le varie unità immobiliari inserite nell’edificio ricostruito, ritengono che abbiano assunto carattere vincolante le tabelle millesimali oggetto di approvazione nel corso dell’assemblea del 26 febbraio 1988 e confermate con successivo verbale del 15/6/1988, sia pur con il voto non unanime di tutti i comproprietari.

Risulta poi dalla sentenza gravata che i comproprietari delle varie unità immobiliari inserite nel fabbricato danneggiato dal sisma con precedente Delib. 28 marzo 1984 (a quanto risulta assunta all’unanimità) avevano statuito di procedere alla demolizione delle parti residue dell’edificio, provvedendosi alla ricostruzione secondo un progetto già approvato dalla PA, che però non contemplava il riparto tra i comproprietari delle unità interne.

Emerge altresì che l’edificio distrutto e ricostruito (sebbene con evidenti difformità rispetto al passato), non aveva delle tabelle millesimali ponendosi quindi la necessità di dover individuare i criteri sulla scorta dei quali poi procedere alla divisione dell’edificio ricostruito in relazione alle quote di contitolarità vantate sull’area di risulta, secondo le modalità sopra richiamate.

Poste tali premesse, rileva il Collegio che, sebbene non appaiano del tutto corrette le affermazioni del giudice di appello quanto alla intempestività delle allegazioni difensive dei ricorrenti in merito alla pretesa di dare applicazione alle tabelle approvate nel corso delle dette assemblee (e ciò sia in ragione del fatto che effettivamente la questione, come si ricava dal contenuto degli scritti difensivi dei ricorrenti, come riportato in ricorso, era stata posta già con il primo atto difensivo in Tribunale, e non potendosi ascrivere tale deduzione nel novero delle eccezioni in senso stretto, in mancanza di un’espressa indicazione del legislatore che la qualifichi come tale, tenuto conto dell’interpretazione che questa Corte ha offerto del dettato dell’art. 112 c.p.c.; cfr. Cass. S.U. n. 10531/2013), deve però escludersi che sul piano sostanziale possa invocarsi, ai fini della divisione del fabbricato oggetto di comunione ordinaria, quale conseguenza della ricostruzione dell’edificio diruto in termini difformi dal preesistente, una determinazione dei valori proprietari non oggetto di decisione unanime da parte di tutti i condomini, ma assunta con il voto maggioritario. Effettivamente, questa Corte con la sentenza a Sezioni Unite n. 18477/2010, innovando rispetto al precedente orientamento maggioritario in giurisprudenza, ha affermato che in tema di condominio, l’atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non ha natura negoziale, con la conseguenza che il medesimo non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 c.c., comma 2, ma trattasi di principio che appare suscettibile di trovare applicazione fin quando un condominio sia ancora in essere, e le tabelle mirino ad assicurare il suo funzionamento, tramite l’individuazione dei criteri sulla base dei quali pervenire alla valida formazione della volontà in ordine alla gestione del bene comune.

Nella vicenda in esame rileva invece la diversa considerazione che, attesa la precedente Delib. del 1984, con la quale si era statuito di abbattere anche le parti rimaste in piedi dopo la devastazione del sisma e di procedere alla ricostruzione con modalità diverse dal passato, come esplicitato dal progetto già approvato in sede amministrativa, era venuto meno il condominio originario e la determinazione dei valori millesimali era funzionale non più alle finalità cui ordinariamente assolvono le tabelle millesimali, ma al diverso ed esclusivo scopo di statuire in merito alla quota di compartecipazione di ognuno dei condividenti sul bene oggetto di comunione, onde predeterminare i criteri (sebbene sulla scorta dei valori proprietari originari) in base ai quali addivenire allo scioglimento della comunione sul nuovo edificio.

In tale diversa prospettiva, che risulta sottolineata dalla difesa dei controricorrenti M., e che si evince anche dal tenore della domanda riconvenzionale formulata dal loro dante causa, e riportata in sentenza a pag. 20, deve richiamarsi il costante principio di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 8520/2017), poichè le tabelle millesimali hanno funzione accertativa e valutativa delle quote condominiali, al fine di ripartire le relative spese e stabilire la misura del diritto di partecipazione alla volontà assembleare, non possono incidere sui diritti reali spettanti a ciascun condomino, di guisa che nel caso di specie, poichè l’intento di tali tabelle non era quello di individuare un criterio strumentale all’ordinato svolgimento della vita condominiale, bensì quello di accertare l’entità dei diritti vantati dai singoli (ex) condomini sul nuovo edificio, la loro approvazione non poteva che avvenire all’unanimità, con l’effetto che, una volta manifestatasi l’impossibilità di addivenire a tale esito in via stragiudiziale, era specifico compito del giudice, chiamato a sciogliere la comunione, procedere autonomamente alla fissazione dei criteri sulla scorta dei quali procedere al frazionamento della proprietà indivisa.

Colgono nel segno le considerazioni del giudice di appello di cui a pag. 20 dell’impugnata sentenza, laddove, sebbene abbia ritenuto che la questione fosse oggetto di un’eccezione in senso stretto, ha però evidenziato (con richiamo alle argomentazioni del Tribunale di cui all’ordinanza del 1/7/1999) che attenendo la misurazione delle quote di proprietà ad una divisione di cosa futura, la predeterminazione dei valori spettanti ad ognuno degli originari condomini, ove intervenuta in via negoziale, si configurava alla stregua di un negozio di accertamento, che presuppone però l’approvazione unanime degli interessati, la cui assenza legittima ed impone, quindi, l’indagine affidata al perito d’ufficio, occorrendo supplire all’inerzia negoziale con la determinazione giudiziale.

Peraltro l’esito della censura non potrebbe essere diverso ove anche si accedesse all’idea posta alla base della prospettazione dei ricorrenti, secondo cui la tabella approvata nell’assemblea del febbraio e del giugno del 1988 fosse una valida tabella millesimale, suscettibile di assumere portata vincolante in ordine alla predeterminazione delle quote di proprietà vantate sul bene comune, in quanto anche a seguito del menzionato intervento delle Sezioni Unite del 2010, e proprio alla luce del carattere non negoziale della relativa approvazione, si è affermato che la revisione (sempre che le tabelle non abbiano carattere negoziale, in quanto volte consapevolmente a derogare ai criteri di cui all’art. 1123 c.c.) possa essere approvata anche con la maggioranza qualificata di cui all’art. 1136 c.c., comma 2 (Cass. n. 27159/2018), aggiungendosi altresì che (Cass. n. 21950/2013) l’atto di approvazione delle tabelle millesimali non preclude al condomino che le ha approvate di potere chiedere la loro revisione, che ben può essere sollecitata anche in ragione dell’esistenza di un errore, a norma dell’art. 69 disp. att. c.c., costituito dalla obiettiva divergenza fra il valore effettivo delle unità immobiliari e quello tabellarmente previsto (non essendo a tal fine necessario provare la reale divergenza tra i valori effettivi e quelli accertati in tabella, potendo la parte interessata limitarsi a fornire la prova anche implicita di siffatta divergenza, dimostrando in giudizio l’esistenza di errori, obiettivamente verificabili, che comportano necessariamente una diversa valutazione dei propri immobili rispetto al resto del condominio; conf. Cass. n. 11290/2018).

Avuto riguardo a tali principi, emerge con evidenza che, anche a voler restare legati alla posizione difensiva dei ricorrenti, la domanda riconvenzionale di S.G., quale trascritta in sentenza, con il riferimento alla presenza di errori nella tabella redatta dall’ing. R.A., che minava la loro corrispondenza con l’effettiva situazione dominicale, ben può essere intesa come finalizzata a richiedere la revisione delle tabelle in precedenza approvate a maggioranza, essendosi poi dato atto in precedenza da parte del giudice di appello (cfr. pag. 18), che i coefficienti di cui alle tabelle invocate dai ricorrenti non erano vincolanti, in quanto “inammissibile tecnicamente l’utilizzo”, con una valutazione che chiaramente sottende il riscontro di un errore che ne giustificava la revisione, secondo i criteri individuati dal CTU e ritenuti corretti dal giudice di appello.

3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102,720 e 727 c.c., laddove la sentenza gravata ha attribuito agli immobili in origine di proprietà dei S. dei coefficienti errati, che hanno portato un ingiustificato vantaggio ai loro danti causa.

Si sostiene che erroneamente sono stati ritenuti dei beni con destinazione commerciale, senza però che il CTU procedesse, come pure era in sua facoltà, ad alcuna verifica presso gli uffici comunali.

Inoltre, anche se i beni fossero stati oggetto di autorizzazione per il commercio, mancava una valida comunicazione agli altri condomini.

Anche tale motivo deve essere disatteso, in quanto volto nel complesso a contestare non già la violazione di norme di diritto, quanto a sottoporre a critica accertamenti in fatto compiuti dal giudice di merito, critica che però esula dal novero di quelle sottoponibili al giudice di legittimità.

Quanto all’individuazione delle caratteristiche dei locali oggetto del motivo in esame, la sentenza impugnata, sposando le conclusioni del CTU, ha rilevato che non potesse rivestire carattere vincolante la classificazione catastale (che assume rilievo nei rapporti con il fisco), aggiungendo che anche i locali ubicati al primo piano avevano ricevuto una destinazione ad uso commerciale, come emergeva dalle licenze di commercio allegate alla produzione dei S. già in primo grado).

Ha inoltre aggiunto che sia i locali a piano terra che quelli posti al primo piano avevano delle caratteristiche che ne consentivano un utilizzo plurimo, tra cui rientrava anche quello abitativo (il cui coefficiente, come ammesso anche dai ricorrenti, è stato assegnato per i locali ubicati al primo piano). Risulta evidente che la contestazione di cui al motivo solo in apparenza denunci una violazione di legge, assumendo che risulti derogato il criterio di composizione omogenea delle quote, ma ha come obiettivo effettivo quello di criticare l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito in ordine alla destinazione potenziale (e comunque attuale, almeno sino alla data della demolizione dell’originario fabbricato) dei locali in oggetto, aspirazione che però non può avere seguito in sede di legittimità.

Così come del pari risulta destituita di fondamento la deduzione della violazione dell’art. 1102 c.c., per avere i condomini destinato alcuni dei beni ad utilizzazione commerciale, rientrando ciò, ed in assenza di un divieto convenzionale eventualmente contenuto nel regolamento di condominio, nel legittimo esercizio delle facoltà proprietarie.

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione ai difensori anticipatari.

Nulla a disporre quanto alle parti che non hanno svolto difese in questa fase.

5. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in favore del controricorrente M.E. in complessivi Euro 7.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, con attribuzione agli avv. Ida Iasi e Gian Paolo La Sala; in favore dei controricorrenti M.A. e G. in complessivi Euro 7.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, con attribuzione all’avv. Antonio Carlo La Sala; in favore dei controricorrenti D.L.M., Ma., A. e V. in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge; in favore dei controricorrenti B.G. ed E. in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che ricorrono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti, in solido fra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per la proposizione del ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2020

 

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