Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21704 del 27/10/2016


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Cassazione civile sez. VI, 27/10/2016, (ud. 29/09/2016, dep. 27/10/2016), n.21704

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13038/2015 proposto da:

COMUNE DI FIRENZE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso

lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, rappresentato e difeso

dall’avvocato SERGIO PERUZZI, giusta procura in calce al ricorso e

giusta Det. Dirigenziale n. 2015/DD/01516 del 16/03/2015;

– ricorrente –

contro

P.A., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO

LUBERTO, che la rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente

all’avvocato ANDREA CONTI giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 120/2010 della CORTF D’APPELLO di FIRUNZE,

emessa e depositata il 3/3/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/9/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato ANDREA CONTE, per la controricorrente, che si

riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza n. 120/2015, depositata in data 3 marzo 2015, la Corte di appello di Firenze, decidendo sul gravarne del Comune di Firenze, confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso di P.A. e condannato il Comune resistente al pagamento in favore della ricorrente di quindici mensilità retributive dell’ultima globale di fatto. Riteneva la Corte territoriale che i plurimi contratti stipulati tra le parti, come oggettivamente dimostrato dalla sequenza delle assunzioni, non fossero sorretti da alcuna ragione oggettiva che corrispondesse ad una esigenza temporanea. Riteneva, poi, che, esclusa essendo la possibilità di conversione del rapporto, ostandovi il T.U. n. 165 del 2001, art. 36, tuttavia l’abuso comportasse il diritto del dipendente ad essere risarcito per effetto della violazione delle norme imperative in materia. Evidenziava che l’unica alternativa alla trasformazione del contratto fosse rappresentata – in coerenza con le indicazioni europee – dall’applicazione al datore di lavoro di una sanzione economica avente al contempo la funzione di ristorare il lavoratore dal pregiudizio subito per il solo fatto della reiterata violazione della legge e quella di dissuadere lo stesso dal ripetere l’operazione vietata. A tal fine, secondo la Corte, la sanzione poteva ragionevolmente coincidere con le quindici mensilità che la legge (art. 18, comma 5 Statuto dei Lavoratori) attribuiva al lavoratore per il caso in cui quest’ultimo, avendo diritto alla reintegra nel posto di lavoro a causa della illegittima privazione, vi rinunciasse.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il Comune di Firenze, affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la P..

Con il primo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali: del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 (testo vigente sino al 17/7/2012), della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 3 (testo vigente dal 18/7/2012), del D.L. n. 701 del 1978, art. 5, comma 12, conv. in L. n. 3 del 1979, della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 e dei principi in tema di risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo. Si evidenzia che il Giudice comunitario non ha mai mostrato di autorizzare il giudice nazionale a creare misure sanzionatorie non previste dall’ordinamento interno per contrastare l’abusivo ricorso al contratto a termine, ma ha affermato soltanto che la misura sanzionatoria va rinvenuta all’interno del singolo ordinamento nazionale, spettando all’autorità nazionale interna l’accertamento sulla sua adeguatezza. Si sostiene, in definitiva, l’erroneità dell’impugnata sentenza laddove individua ed attribuisce il risarcimento del danno nella misura dell’indennità sostitutiva della reintegra, in quanto misura ritenuta idonea a compensare le perdite proprie della condizione di precarietà del lavoratore e assunta come valore forfetizzato ex lege della rinuncia ad un posto di lavoro a seguito di un rapporto illegittimamente interrotto. Si osserva che invero nella specie la P. non avrebbe mai potuto essere parte di un contratto a tempo indeterminato, posta la impossibilità di costituzione di rapporti di lavoro con un Ente Locale in violazione e senza l’osservanza delle procedure di reclutamento previste dalle normativa in materia, sicchè non è possibile attribuire effetti alla ipotetica ed astratta rinuncia ad una situazione soggettiva che la legge vieta di conseguire.

Con il secondo motivo, si denunzia violazione e/o falsa applicazione delle norme già indicate nel primo motivo, nonchè dei principi in tema di eguaglianza e uniformità di trattamento e dei principi in tema di proporzionalità e graduazione delle sanzioni, sempre con riferimento al vizio di violazione di leggi e di contratti collettivi, osservandosi che, quantificando il danno con riferimento alla misura dell’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, la Corte del gravarne ha impedito ogni personalizzazione e ragionevole graduazione della misura risarcitoria e della sanzione, laddove il principio suddetto è ora presente nel settore privato, ove è prevista una indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità L. n. 183 del 2010, ex art. 32, comma 5. Si sottolinea che il pubblico dipendente, a differenza del lavoratore privato, non detiene alcun diritto alla conversione del rapporto, per cui, sotto tale specifico aspetto, non può ritenersi titolare di alcun diritto risarcitorio, e si rileva che l’applicazione del criterio suddetto (L. n. 183 del 2010, art. 32) impedirebbe di attribuire un indennizzo di 15 mensilità anche a chi abbia lavorato solo pochi mesi con il Comune, con palese violazione dei principi in tema di uguaglianza.

I motivi, da trattare congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, sono fondati alla luce di quanto precisato dalla decisione di questa Corte a sezioni unite del 15 marzo 2016 n. 5072, ai cui principi, di seguito esposti, occorre riportarsi.

Il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicchè non può predicarsi la conversione del rapporto quale “sanzione” dell’illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente – anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicchè può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale.

La pronuncia delle S.U. citata ha, poi, richiamato la decisone della Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) che ha escluso ogni contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni. infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso – enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati. In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello (…)dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione”. Ed ha sottolineato che “L’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui dello stesso art. 97 Cost., comma 1, di per sè rende palese la non omogeneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”. In termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo. Anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare “il buon andamento e l’efficacia dell’Amministrazione”, valori presidiati dell’art. 97 Cost., dal comma 1 e dal comma 3 (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 34 del 2004 e n. 1 del 1999).

Sempre nella suddetta decisione a sezioni unite è stato anche evidenziato che la Corte di giustizia, nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C- 50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonchè ordinanze del 12 giugno 2008, /7assilakis e a.,C-364107; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162108, e del 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10), ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato. La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così “lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia”. Neppure la direttiva contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5). Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5; precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-33/04, cit.) che “l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

Quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato) posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte cost. n. 89/2003, cit.).

Le considerazioni svolte sull’obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni consentono, dunque, di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione – come detto – è legittima sia secondo i parametri costituzionali sia secondo quelli europei. Non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni.

Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perchè una tale prospettiva non c’è mai stata.

Come è stato precisato, il danno è altro.

Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.

Si può ipotizzare una perdita di chance (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato); ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.

Tuttavia, l’esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede, in analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’esonero dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo. Ad avviso delle sezioni unite, “la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perchè – si ripete la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione”.

stato così conclusivamente affermato che: “Il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perchè ciò richiede l’interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perchè impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato”.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha errato nel quantificare il risarcimento con riferimento alla misura dell’indennità sostituiva della reintegra.

Si propone, pertanto, l’accoglimento del ricorso, la cassazione dell’impugnata pronuncia, con rinvio ad altro giudice di merito che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”; il tutto con ordinanza ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5.

2 – Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2 (nel caso del Comune si tratta di memoria adesiva).

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., depositata dalla controricorrente con la quale quest’ultima insiste nella prospettata eccezione di inammissibilità del ricorso per avere il Comune ricorrente omesso ogni riferimento al proprio atto di appello ed ai rilievi in esso formulati così da non consentire di comprendere se i temi posti con il ricorso per cassazione fossero stati già in precedenza sottoposti al vaglio della Corte territoriale. A tal riguardo va rilevato che le censure di cui al ricorso, come in relazione puntualmente riassunte, danno adeguatamente conto dei rilievi mossi alla decisione impugnata ed alle soluzioni da questa date alle questioni sottoposte alla sua attenzione con l’atto di appello. Del resto, come si evince sia dal contenuto della sentenza della Corte territoriale sia dal ricorso per cassazione, tali questioni avevano riguardato i due capi della sentenza di primo grado implicanti la soccombenza del Comune – e cioè quello riferito alla riscontrata illegittimità del termine apposto ai contratti a termine e quello relativo all’accoglimento della domanda risarcitoria -, in quanto reputati erronei e gravemente punitivi per il Comune medesimo.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va accolto e va cassata l’impugnata sentenza, con rinvio anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2016

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