Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21702 del 27/10/2016


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Cassazione civile sez. VI, 27/10/2016, (ud. 29/09/2016, dep. 27/10/2016), n.21702

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25178/2014 proposto da:

T.G., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GIUSEPPE FERRARI 10, presso lo studio dell’avvocato IGNAZIO

CASTELLUCCI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI CIMINO;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., ((OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

AUROPA 190, presso lo studio dell’avvocato DORA DE ROSE, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONINO AMATO, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1436/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO del

20/11/2013, depositata il 15/4/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

29/9/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato ROBERTA AIAZZI per delega orale dell’Avvocato

ANTONINO AMATO che si riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con ricorso al Giudice del lavoro di Milano, T.G. chiedeva che fosse dichiarato nullo il termine apposto al contratto a tempo determinato con il quale era stato assunto alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a., stipulato ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, per il periodo dal (OMISSIS), con proroga fino al (OMISSIS), per “ragioni di carattere organizzativo rappresentate dalla necessità di far fronte alla temporanea carenza di personale di sportelleria sussistente anche presso la struttura cui Ella viene assegnata….”. Il Tribunale respingeva la domanda ritenendo fondata l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso formulata dalla società. La decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Milano sul rilievo che il lavoratore aveva lasciato decorrere più di tre anni (1266 giorni) da una prima impugnativa del (OMISSIS) e l’introduzione del giudizio, avvenuta il 18/10/2011 ed aveva, nelle more, prestato attività lavorativa presso altro datore.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre T.G. affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso Poste Italiane S.p.A..

Con il due motivi lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione degli artt. 1372, 2697 e 2729 c.c., del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e vizio di motivazione. Si duole del fatto che l’impugnata sentenza abbia desunto un mutuo consenso alla risoluzione del contratto di lavoro, oltre che dal mero decorso del tempo fra la scadenza del rapporto a termine e l’esperimento dell’azione stragiudiziale, dallo svolgimento di altra attività lavorativa. Rileva che l’essersi adoperato per la ricerca nelle more di altre occupazioni per sopperire alle primarie necessità di vita personali e familiari (peraltro, nella specie, si era trattato di un rapporto precario presso un cali center di pochi mesi) non poteva risolversi in un pregiudizio per il lavoratore. Rileva che la Corte territoriale non tenuto conto della volontà manifestata dal T. con i documenti 3) e 4) della propria produzione di parte dai quali emergeva, grazie all’uso di termini non ambigui, l’intenzione di proseguire nel rapporto.

I motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono manifestamente fondati.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto) a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (si veda Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; id. 28 settembre 2007, n. 20390; 17 dicembre 2004, n. 23554; si vedano anche le più recenti Cass. 18 novembre 2010, n. 23319; 11 marzo 2011, n. 5887; 4 agosto 2011, n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della “cessazione della funzionalità di fatto del rapporto”, valutato “in modo socialmente tipico” cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13891 e Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).

Come è stato anche precisato da Cass. 19 novembre 2010, n. 23501, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass. 15 dicembre 1997, n. 12665; Cass. 25 marzo 1993, n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v, anche Cass. 2 dicembre 2000, n. 15403; Cass. 20 aprile 1998, n. 4003).

inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. ex multis Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279; 12 luglio 2010, n. 16303; 19 novembre 2010, n. 23499 ed altre ancora).

Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n. 5782, “quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sè neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632 -. Neppure può essere sufficiente al fine della risoluzione del rapporto la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti (v. fra le altre Cass. 7 luglio 1998, n. 6615 ripresa da Cass. 28 gennaio 2014, n. 1780)

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale ha fondato la propria decisione, oltre che sulla prolungata inerzia del lavoratore, sullo svolgimento di altra attività lavorativa.

Quanto al primo aspetto, in aggiunta a quanto già sopra ricordato, va ulteriormente considerato che le esigenze di certezza dei rapporti giuridici sottese al decisum dell’impugnata sentenza sono già affrontate dal legislatore, che proprio a tal fine calibra eventuali termini di prescrizione (in quanto tali, legati al mero decorso del tempo): la stessa operazione non è, invece, consentita all’interprete per trasformare – in assenza di diversi indici sintomatici – il mero decorso del tempo in una tacita manifestazione di volontà negoziale.

Quanto al secondo aspetto va osservato che trattasi di un fatto sostanzialmente estraneo al comportamento successivo delle parti nei termini sopra specificati. Ed infatti la ricerca di un nuovo lavoro è imposta al lavoratore dalla elementare necessità di sopperire comunque ai bisogni della vita.

Entrambe le circostanze valorizzate dalla Corte territoriale (su un piano meramente oggettivo, in contrasto con l’indirizzo consolidato qui ribadito), non possono, dunque, costituire indizi gravi, precisi e concordanti della chiara e certa comune volontà risolutiva di ogni rapporto.

Deve, dunque, concludersi per l’erroneità in diritto di una decisione fondata su un fatto (il mero decorso del tempo – poco più di tra anni tra una prima – tempestiva – impugnativa del (OMISSIS) e l’introduzione del giudizio, avvenuta il 18/10/2011) di per sè giuridicamente non rilevante e accompagnato dalla valorizzazione di un’altra circostanza (svolgimento di altra attività lavorativa) non suscettibile di essere interpretata come sintomatica di una chiara e certa volontà di entrambe le parti di considerare definitivamente chiuso il rapporto lavorativo (si vedano, in termini, anche le più recenti Cass. 25 novembre 2015, n. 24068; Cass. 4 marzo 2016, n. 4273; Cass. 1 aprile 2016, n. 6386).

In virtù di quanto precede, si propone l’accoglimento del ricorso, la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio, anche per le spese, ad altra Corte di appello, che procederà ad un nuovo esame attenendosi ai sopra ricordati principi di diritto, il tutto con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5″.

2 – La società controricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale la società si limita a ribadire le difese spiegate nel controricorso.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Milano che, in diversa composizione, rivaluterà la fattispecie alla luce dei principi sopra indicati e regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2016

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