Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21701 del 08/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 08/10/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 08/10/2020), n.21701

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25158-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

FINANZIARIA D’INVESTIMENTO FININVEST SPA, in persona

dell’Amministratore Delegato e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA GIUSEPPE AVEZZANA N. 45,

presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO LEO, che la rappresenta e

difende, giusta procura in calce;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 103/2012 della COMM.TRIB.REG. di MILANO,

depositata il 17/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO che ha concluso per la rimessione alle SS.UU. e in

subordine per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta al

ricorso e insiste per l’accoglimento del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato DI GIOVANNI per delega

dell’Avvocato LEO MAURIZIO che ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 103/27/2012, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia il 17 settembre 2012, con cui erano stati annullati gli avvisi di accertamento relativi agli anni d’imposta 2004 e 2005, notificati alla Finanziaria d’Investimento Fininvest s.p.a., quale consolidante della società A.C. Milan.

Ha rappresentato che l’Ufficio aveva recuperato ad imponibile minusvalenze dichiarate dalla contribuente a seguito della cessione a costo “zero” dei diritti alle prestazioni sportive dei giocatori D. e D., ritenendoli indeducibili ai fini Ires sul rilievo della inapplicabilità del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 101, comma 1, che richiede l’onerosità della cessione. Erano state inoltre recuperate a reddito imponibile le quote d’ammortamento relative ai predetti giocatori, sull’assunto che fossero state indebitamente rapportate ad un valore di immobilizzo superiore all’esborso finanziario effettivamente sopportato dalla società.

L’adita Commissione tributaria provinciale di Milano, previa riunione dei ricorsi, con sentenza n. 128/19/2009 aveva annullato solo il primo recupero ad imponibile, confermando invece l’atto impositivo con riguardo alle quote d’ammortamento.

La pronuncia era stata appellata da entrambe le parti, ciascuna per quanto soccombente, dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, che con la sentenza ora al vaglio della Corte aveva rigettato l’appello principale dell’Ufficio ed accolto quello incidentale della contribuente, annullando dunque integralmente gli avvisi di accertamento.

Il giudice regionale ha ricostruito la disciplina sui rapporti tra società e atleti professionisti, regolata dalla L. 23 marzo 1981, n. 91, ritenendo che l’operazione di cessione del contratto prevista dall’art. 5, pur formalmente a costo zero, non poteva essere compresa tra gli atti di liberalità. Essa, regolamentando interessi reciproci delle società calcistiche, mancava del requisito dell’impoverimento del cedente, così riconducendosi ai negozi a titolo oneroso. Conseguentemente, emergendo una minusvalenza, come nel caso di specie, all’atto di cessione ha ritenuto applicabile l’art. 101 TUIR.

Con riguardo alla seconda contestazione dell’Amministrazione finanziaria ha considerato corretta l’iscrizione della quota d’ammortamento ricondotta al costo originario dei giocatori, avendo peraltro provveduto la società a iscrivere nell’attivo un importo pari alla differenza tra tale costo e quello di riacquisto, differenza che aveva concorso alla formazione del reddito d’impresa nel periodo d’imposta controllato.

Avverso la sentenza l’Amministrazione finanziaria ha formulato due motivi di censura:

con il primo per violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c., della L. 23 marzo 1981, n. 91, art. 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 101, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente negato la natura gratuita della cessione a “zero” dei contratti aventi ad oggetto i diritti alle prestazioni sportive dei calciatori;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 103, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto conto del costo dell’operazione di riacquisto finale degli atleti, inferiore a quello preso a riferimento per determinare la quota d’ammortamento.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale provvedimento.

Si è costituita la società, che ha contestato il fondamento dei motivi di ricorso, del quale ha chiesto il rigetto.

All’udienza pubblica del 12 febbraio 2020, dopo la discussione, il P.G. e le parti hanno concluso. La causa è stata trattenuta in decisione.

Prima dell’udienza la controricorrente ha ritualmente depositato memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo, con cui l’Amministrazione finanziaria si duole del riconoscimento delle minusvalenze conseguite dalla contribuente, va rigettato.

La controversia trova origine nella cessione dei diritti alle prestazioni sportive di due calciatori, militanti nel campionato di calcio della massima serie nazionale, già tesserati presso l’A.C. Milan (società consolidata della Finanziaria d’Investimento Fininvest s.p.a., cui pertanto sono stati anche indirizzati gli atti impositivi opposti). Nel 2004 l’A.C. Milan aveva ceduto all’A.C. Piacenza, a costo zero, i diritti alle prestazioni sportive dei calciatori D. e D. (in precedenza acquistati rispettivamente al corrispettivo di Euro 4.000.000,00 e di Euro 260.000,00), sottoscrivendo poi -in forza di accordi pregressi- l’acquisizione del 50% in compartecipazione (e dunque di Euro 2.000.000,00 per il calciatore D. ed Euro 130.000,00 per il calciatore D.). Nel 2005 l’accordo di compartecipazione era stato risolto, con cessione definitiva dei giocatori al Milan (che ne aveva riacquistato l’altro 50% al diverso e minor prezzo di Euro 800.000,00 per il primo e di Euro 30.000,00 per il secondo).

Ebbene, secondo la prospettazione dell’Amministrazione finanziaria, illustrata nell’atto impositivo e nelle difese tenute durante il contenzioso, le minusvalenze sono deducibili ai sensi dell’art. 101 Tuir solo a fronte di cessioni a titolo oneroso. Nel caso di specie la cessione a costo zero dal Milan al Piacenza avvenuta nel 2004, collocando l’atto negoziale di trasferimento dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori tra quelli a titolo gratuito, impedirebbe la deducibilità delle minusvalenze.

Di contro, secondo le prospettazioni difensive della società contribuente, illustrate nel controricorso e nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., la cessione avrebbe ad oggetto un contratto di lavoro, cioè un rapporto giuridico che, esulando dal concetto di trasferimento di beni, sarebbe escluso dalla applicabilità dell’art. 101 TUIR, comma 1. In ogni caso, prosegue la difesa della contribuente, quand’anche ritenuta applicabile questa norma, occorrerebbe valorizzare l’oggetto dell’operazione, che si concretizza nella cessione del contratto tra datori di lavoro, con conseguente venir meno in capo alla società cedente dell’obbligo del pagamento dell’ingaggio annuale in favore dell’atleta, e di contro l’assunzione del medesimo obbligo a carico della società cessionaria. Pertanto l’atto di cessione, ancorchè formalmente a costo zero, rivelerebbe natura di cessione del contratto a titolo oneroso, rientrando nel cono applicativo dell’art. 101 TUIR, comma 1, con deducibilità delle eventuali minusvalenze.

La controversia trova i suoi riferimenti normativi nella L. 23 marzo 1981, n. 91. In particolare, per quanto qui d’interesse, nell’art. 3, comma 1, si prevede che “La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme contenute nella presente legge.”; nell’art. 4 si afferma che “17 rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta e con la stipulazione di un contratto in forma scritta, a pena di nullita, tra lo sportivo e la società destinataria delle prestazioni sportive, secondo il contratto tipo predisposto, conformemente all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate. La società ha l’obbligo di depositare il contratto presso la federazione sportiva nazionale per l’approvazione.” (1 e 2 comma); in forza dell’art. 5 infine

contratto di cui all’articolo precedente può contenere l’apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque anni dalla data di inizio del rapporto….. E’ ammessa la cessione del contratto, prima della scadenza, da una società sportiva ad un’altra, purchè vi consenta l’altra parte e siano osservate le modalità fissate dalle federazioni sportive nazionali.” (1 e 3 comma).

Quanto alle minusvalenze, occorre fare rinvio al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1, secondo cui “le minusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli indicati nell’art. 85, comma 1, e art. 87, determinate con gli stessi criteri stabiliti per la determinazione delle plusvalenze, sono deducibili se sono realizzate ai sensi dell’art. 86 TUIR, comma 1, lett. a) e b) e comma 2”. L’art. 86 TUIR, comma 1, lett. a) riconosce le plusvalenze quando realizzate mediante cessione a titolo oneroso.

Ciò chiarito, le censure proposte con il primo motivo di ricorso e le difese della controricorrente richiedono l’esame di due questioni.

La prima è se il trasferimento da una società ad altra del rapporto giuridico con cui un atleta si obbliga in via esclusiva a prestazioni sportive verso una società (dietro corrispettivo) configuri una cessione del contratto, inquadrabile nell’art. 1406 c.c. come sostiene l’Amministrazione-, oppure l’insorgenza di un rapporto negoziale complesso, distinto in almeno tre atti -come innanzitutto prospettato dalla contribuente- (accordo tra società sportive e atleta per il trasferimento; accordo tra le società per la risoluzione del contratto in essere; stipulazione di un nuovo contratto tra l’atleta e la nuova società).

La scelta dell’opzione interpretativa non è indifferente ai fini delle regole sul trattamento fiscale del prezzo concordato tra le società per liberare anticipatamente l’atleta professionista dal contratto di esclusiva con la cedente. In particolare solo con la prima opzione, che implica che il negozio si traduca nella cessione di diritti ed obblighi, e dunque nella cessione di un bene immateriale strumentale all’esercizio dell’impresa, possono generarsi plusvalenze (o minusvalenze). Con la seconda opzione invece il negozio di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro del calciatore con la società cedente, quale fase di una fattispecie negoziale frazionata, non evidenzierebbe di per sè alcuna autonoma funzione produttiva.

La questione è stata superata a seguito del parere n. 5285/2012 dell’11.12.2012, espresso dal Consiglio di Stato, investito dal Ministero dell’economia e delle finanze in materia di regime fiscale ai fini Irap delle cessioni dei contratti di prestazione sportiva dei calciatori, che ha ritenuto corretta la prima interpretazione, affermando che “il contratto con cui è ceduto il diritto all’utilizzo esclusivo della prestazione dell’atleta verso corrispettivo ben può essere ricondotto allo schema tipico della cessione del contratto.”. Conseguentemente ha ritenuto che le eventuali plusvalenze realizzate in occasione della cessione dei contratti di prestazione sportiva dei calciatori siano fiscalmente rilevanti ai fini Irap.

L’interpretazione normativa resa dal Consiglio di Stato è stata condivisa dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., n. 24588/2015; da ultimo n. 9433/2019), senza che questo Collegio ravvisi ragioni o argomenti di segno contrario alla continuità di questo indirizzo.

Ne consegue che la cessione del contratto, nella quale sia concordato tra le società un corrispettivo per la risoluzione anticipata del rapporto di prestazioni sportive esclusive tra calciatore e società cedente, con trasferimento del primo alla cessionaria, è suscettibile di evidenziare plusvalenze o minusvalenze anche quando si tratti, come nel caso che ci occupa, di accertamenti ai fini Ires, con applicabilità tanto dell’art. 86 TUIR, comma 1, lett. a), quanto dell’art. 101 TUIR, comma 1.

Il superamento della prima questione consente di affrontare la seconda, ancora più pertinente alla controversia oggetto di causa. Con essa ci si chiede se, sulla premessa ormai acquisita che si tratti di fattispecie riconducibile nell’alveo dell’art. 1406 c.c., possano riconoscersi minusvalenze anche quando nell’operazione di cessione del contratto le società non abbiano previsto alcun corrispettivo per la risoluzione anticipata del rapporto tra società cedente e atleta professionista.

L’Agenzia, censurando la sentenza che ha annullato l’avviso di accertamento con cui erano state recuperate ad imponibile le minusvalenze riportate dalla contribuente, ha sostenuto che l’art. 101 TUIR, comma 1, rimandando all’art. 86 TUIR, comma 1, lett. a) e b), richiede che l’operazione si concretizzi in una cessione a titolo oneroso. Nel caso di specie la mancata previsione di un corrispettivo per la risoluzione anticipata dei contratti di esclusiva tra calciatori e cedente, al contrario di quanto affermato dal giudice d’appello, evidenzierebbe la gratuità del negozio e la conseguente indeducibilità delle minusvalenze.

Anche su questa questione questa Corte è già intervenuta, ma con due opposte soluzioni. Secondo una prima interpretazione la cessione, da una società sportiva all’altra, di un contratto di prestazioni calcistiche L. n. 91 del 1981, ex art. 5, ha ad oggetto un bene immateriale strumentale all’esercizio dell’impresa, idoneo a generare minusvalenze deducibili, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1 (nel testo applicabile ratione temporis), solo se l’atto è a titolo oneroso, mentre ciò non avviene ove non sia previsto il pagamento di un corrispettivo per detta cessione, ipotesi nella quale la causa concreta del negozio risiede nell’interesse del cedente a privarsi del proprio diritto esclusivo a godere delle prestazioni sportive senza ricevere nulla in cambio, a nulla rilevando, quindi, che la cessionaria debba corrispondere al calciatore ceduto un compenso (Cass., n. 345/2019). Le conclusioni cui il precedente menzionato perviene valorizzano una nozione di causa gratuita quale interesse al conferimento di beni (o alla prestazione di servizi) senza una corrispondente prestazione principale a carico del beneficiario, escludendo ogni rilevanza al fatto che il cessionario possa sopportare costi riconducibili al bene ceduto. Sicchè il limes tra gratuità e onerosità dell’operazione di cessione sarebbe segnato dalla constatazione che il cedente si sia privato del “diritto esclusivo a godere delle prestazioni sportive del calciatore senza ricevere nulla in cambio.”. La convenienza o meno dell’operazione, se cioè con quella cessione il cedente si liberi di costi e prestazioni a sua volta conseguenti al godimento delle prestazioni dell’atleta, sarebbe riconducibile solo alla distinzione tra gratuità e liberalità dell’atto di cessione senza corrispettivo, cioè alla sussistenza o meno di una causa donandi, che evidentemente il precedente in esame ha ritenuto del tutto inconferente ai fini della disciplina fiscale delle minusvalenze.

Sennonchè un intervento quasi contestuale della Corte sulla medesima materia ha raggiunto conclusioni esattamente opposte, partendo dal principio generale secondo cui “sono contratti a titolo oneroso quelli in cui i vantaggi sono reciproci al pari dei sacrifici, mentre sono atti a titolo gratuito quelli in cui il sacrificio è sopportato solo da un contraente, a vantaggio dell’altro”, per poi constatare come nel caso di cessione del contratto “a (costo) zero”, pur se la società cessionaria ha il vantaggio di acquistare senza versamento del corrispettivo, essa deve comunque corrispondere il compenso all’atleta, mentre la società cedente si libera del suddetto obbligo. Conclude che “pertanto i vantaggi sono reciproci per entrambi i contraenti, con la possibilità di dedurre le minusvalenze in quanto “realizzate” mediante cessione dei contratti a titolo oneroso.” (così Cass., n. 2146/2019).

L’unicità dei rispettivi precedenti, che non consente di ravvisare ancora l’emersione di una vera difformità di decisioni sulla questione di diritto in seno alla giurisprudenza di legittimità, richiede, ai fini della soluzione della controversia, un approccio critico al concetto di onerosità del negozio.

Innanzitutto è utile rammentare che proprio in tema di vendita, pur essendo il prezzo un elemento essenziale del negozio, la dottrina ha da tempo evidenziato che la mancata previsione del corrispettivo della cessione di un bene non deve sempre ricondurre l’operazione fuori della vendita stessa. A tal fine si suole far riferimento alle alienazioni delle cd. discommodities (nel cui alveo sono addirittura introdotte le vendite a prezzo negativo, tanto più dunque quelle con corrispettivo pari a zero), per le quali, negandosi la causa donativa e più in generale la gratuità della cessione, si pone di contro attenzione sul “diverso” vantaggio che l’alienante consegue dalla cessione di un determinato bene (sia esso l’insostenibilità dei costi della sua gestione, sia esso lo specifico interesse a liberarsi di un bene, o ancora il vantaggio conseguito dalla cessione di una azienda per sè improduttiva e indebitata, ecc.). D’altronde anche la giurisprudenza, in occasione di alcune pronunce in materia di famiglia, ha da tempo avvertito che gli accordi di separazione personale fra i coniugi (come di quelli divorzili), che contengono attribuzioni patrimoniali di beni mobili o immobili di uno in favore dell’altro, senza collegamento necessario ad uno specifico corrispettivo o ai tratti propri della donazione, rispondendo invece all’intento di sistemazione dei rapporti, ai fini di una eventuale loro assoggettabilità all’actio revocatoria di cui all’art. 2901 c.c., svelano di norma una loro “tipicità” propria, la quale, di caso in caso, può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della “gratuità” “in ragione dell’eventuale ricorrenza, o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione solutorio-compensativa più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati, anche solo riflessi, patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale.” (cfr. Cass., n. 5473/2006; n. 27409/2019). Il che, pur con le cautele della materia e della sua specificità, induce ad evidenziare quanto meno come si avverta che il concetto di onerosità, in ipotesi di cessioni patrimoniali, non deve necessariamente accompagnarsi al concetto di corrispettivo.

Più nello specifico, nel ricondurre l’attenzione al caso di specie, la stessa giurisprudenza di legittimità, che nel solco del menzionato parere del Consiglio di Stato ha definitivamente riconosciuto che la vicenda del trasferimento del contratto di un atleta da una società ad un’altra va riconosciuta nella sua unitarietà, senza necessità di scomporre (tripartire) la cessione, richiede, sul piano logico-economico e su quello logico-giuridico, che l’operazione sia oggetto di considerazione complessiva dei costi e benefici che all’esito del trasferimento ognuna delle società avrà sopportato e avrà conseguito. Ed è indubbio che se, come dovuto, l’operazione viene in conclusione ricondotta nell’alveo della cessione del contratto di cui all’art. 1406 c.c. ciò che viene riconosciuto anche nella pronuncia che tuttavia esclude l’onerosità dell’operazione- i costi e i benefici, ossia la cessione dell’esclusiva fruizione delle prestazioni dell’atleta da parte della cedente, e di contro l’obbligazione del versamento del corrispettivo in favore del calciatore assunto dalla cessionaria, costituiscono i termini entro i quali si manifesta l’onerosità del contratto.

La circostanza che “l’esclusività” della prestazione non sia stata oggetto di uno specifico corrispettivo non esclude “il costo”, ossia il sacrificio, che a seguito di tale cessione dovrà sopportare la cessionaria, così liberando la cedente della medesima obbligazione. Al contrario essa vuol solo significare che, nella libertà di valutazione riservata ai contraenti sulla convenienza del negozio posto in essere, essi hanno ritenuto che il punto di equilibrio, il valore di scambio, sia appunto quello pattuito. D’altronde, ritenere che un atleta non abbia più una utilità rispetto al progetto di sviluppo e agli obiettivi prefissati da una società sportiva, sia pur per un limitato campionato, e la disponibilità a cederne le prestazioni in cambio del beneficio economico della liberazione dagli obblighi d’ingaggio, costituisce un dato fenomenico consueto, in sè rilevante sotto il profilo giuridico, e comunque sufficiente a collocare nell’alveo dell’onerosità l’operazione.

Volendo ancora più circoscrivere il perimetro d’indagine, e concentrando l’attenzione sui principi tributari in un’ottica di attuazione dell’art. 53 Cost., se è vero che gli indici di capacità contributiva vanno ricercati in fatti o situazioni economicamente rilevanti, capaci di esprimere una potenzialità economica, l’operazione posta in essere dal contribuente deve essere interpretata alla luce della sua concretezza oggettiva, e ciò al fine di non cadere in pericolose tentazioni di attribuzione di un qualche rilievo a finalità interiori del contribuente, ad un tempo però assicurando una valutazione economica obiettiva del fatto o della situazione posta in essere. Ebbene, pur nel rispetto, sotto il profilo civilistico, dei canoni d’interpretazione applicabili all’operazione di cessione del diritto alla prestazione esclusiva dell’atleta professionista in favore del cessionario, che a sua volta si assume l’obbligo di corrispondere a quest’ultimo il corrispettivo delle prestazioni sportive, l’operazione stessa assume una inequivoca natura onerosa sotto il profilo fiscale, come tale riconducibile alla disciplina dell’art. 101 Tuir, ove, come nel caso di specie, ne sia scaturita una minusvalenza.

Ne consegue che la sentenza impugnata non ha errato nel riconoscere l’onerosità dell’operazione e l’applicabilità dell’art. 101 TUIR, comma 1, sicchè va esente da censure in ordine al primo motivo, che va in conclusione rigettato.

Infondato è anche il secondo motivo, con il quale l’Agenzia si duole dell’annullamento del recupero ad imponibile di quote d’ammortamento determinate dalla società sulla base dell’iniziale costo di acquisto dei giocatori, senza tener conto che con le successive operazioni di cessione e poi di riacquisto il costo sostenuto dalla contribuente era stato inferiore.

Per maggior chiarezza l’Amministrazione finanziaria contesta alla società calcistica che, a fronte di quote d’ammortamento per immobilizzazioni immateriali determinate sulla base del costo iniziale degli atleti D. e D. (Euro 4.000.000,00 ed Euro 260.000,00), il corretto calcolo doveva essere riferito all’esborso effettivo, comprensivo della metà del prezzo, sopportato al momento dell’acquisto della compartecipazione (e dunque Euro 2.000.000,00 per D. ed Euro 130.000,00 per D.) ed a quanto versato dal Milan al Piacenza per il riacquisto dell’altro 50% (e dunque Euro 800.000,00 per D. ed Euro 30.000,00 per D.).

La società ha sostenuto invece che l’interpretazione dell’Ufficio non ha tenuto conto del costo fiscale, confuso con il prezzo, e delle regole ad esso preposte, nè, soprattutto, che il Milan, conseguendo dei proventi dal complesso delle operazioni (Euro 1.200.000 dal riacquisto del primo atleta, Euro 100.000,00 per il secondo), aveva provveduto alla loro iscrizione in bilancio, con conseguente assoggettamento ad imposta. Da ciò l’affermazione di correttezza delle quote d’ammortamento, altrimenti incorrendosi nel doppio peso impositivo sui medesimi proventi.

La decisione della Commissione regionale ha valorizzato le ragioni della contribuente, affermando che “la società scelse di non svalutare il costo del diritto alle prestazioni sportive dei calciatori ma di contrapporre al valore lordo di queste ultime un provento pari alla predetta svalutazione, fatto concorrere per intero alla formazione del reddito d’impresa nel periodo d’imposta in corso al momento della risoluzione, come emerge dalla relazione al bilancio chiuso al 31/12/2004 e tale scelta non è stata neppure contestata dall’Ufficio.”.

Il ragionamento del giudice d’appello appare corretto perchè ha opportunamente evidenziato come la società, lasciando immodificato il valore originario dell’immobilizzazione finanziaria dei due calciatori, ma inserendo nell’attivo di bilancio il provento conseguito -partecipante dunque dell’imponibile e assoggettato ad imposta, senza alcuna contestazione sulla sua appostazione contabile da parte dell’Agenzia-, per un verso ha osservato le disposizioni contabili impartite dalla FIGC, per altro verso, concorrendo comunque quel provento alla formazione del reddito d’impresa, non ha generato alcun danno erariale.

A margine deve anche evidenziarsi che erroneamente la ricorrente ha fatto appello all’art. 103 Tuir, che si limita alla disciplina del costo ammortizzabile dei beni immateriali, laddove le regole contabili trovano collocazione nell’art. 110 Tuir, dalle quali non è dato evincere alcuna violazione delle modalità di iscrizione delle poste iscritte dalla società.

In conclusione anche il secondo motivo del ricorso è infondato e va rigettato.

La peculiarità delle questioni controverse, unitamente alla novità delle stesse all’epoca dell’introduzione del giudizio, giustificano la compensazione delle spese di causa.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2020

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2020

 

 

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