Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 217 del 09/01/2017

Cassazione civile, sez. lav., 09/01/2017, (ud. 08/11/2016, dep.09/01/2017),  n. 217

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12993/2011 proposto da:

AZIENDA SANITARIA OSPEDALIERA O.I.R.M. – S. ANNA, P.I. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II N. 18, presso lo

studio dell’avvocato GIANMARCO STUDIO GREZ, rappresentata e difesa

dall’avvocato DARIO TINO VLADIMIRO GAMBA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato MARIO

MENGHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO

BERTI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 244/2010 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 10/05/2010 r.g.n. 960/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/11/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato COLLETTI ANDREA per delega Avvocato GAMBA DARIO TINO

VLADIMIRO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 10 maggio 2010), pronunciando sugli appelli avverso la sentenza del Tribunale di Torino n. 2028/2008: a) respinge l’appello principale della Azienda Ospedaliera OIRM-S. Anna; b) in accoglimento dell’appello incidentale di M.M. condanna la suddetta Azienda ad assegnare al M. “le funzioni dirigenziali svolte anteriormente al gennaio 1999”; c) condanna l’Azienda stessa a corrispondere al M. l’importo di Euro 5000,00, oltre accessori di legge, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alle frasi contenute nelle lettere in data 11 e 29 marzo 2005; d) condanna l’Azienda al pagamento delle spese processuali dei due gradi di merito del giudizio.

La Corte d’appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa che:

a) dalle deposizioni testimoniali e dalle prove documentali (Delib. aziendali) raccolte emerge in modo inequivoco che, a partire dai primi mesi del 1999, vi è stata una progressiva erosione dei compiti affidati a M.M. – inquadrato come Responsabile della UOA Sistema Informativo, in staff alla Direzione Generale dell’Azienda sanitaria appellante principale – con sottrazione di fatto anche dei collaboratori interni sott’ordinati e addirittura con una sorta di subordinazione al controllo da parte di L.S. (della società Studio PRO), consulente esterno dell’Azienda, cui era stata data la titolarità della UOA Ufficio Sistema Informativo, a partire dal gennaio 2000, quando per l’attività informatica, prima facente capo all’unica UOA diretta da M.M., vennero create due diverse UOA e quella affidata al M. venne denominata Centro Tecnologie Informatiche, in staff al Direttore Generale;

b) infatti, se prima della riorganizzazione M.M. era stato il “referente” aziendale per tutte le questioni riguardanti l’informatizzazione aziendale, dopo gli sono rimaste soltanto le mansioni concernenti il funzionamento della rete e quelle relative agli interventi di carattere routinario;

c) si è configurato quindi il demansionamento, in quanto questa fattispecie può consistere oltre che nell’attribuzione al dirigente di mansioni inferiori anche nella sottrazione delle competenze maggiormente qualificanti della posizione dirigenziale ricoperta, come è avvenuto nella specie;

d) quanto al conseguente danno è da confermare la decisione del primo giudice che ha ritenuto provato in via presuntiva l’impoverimento della professionalità subito da M.M. – in considerazione della soggezione a rapide evoluzioni del settore di competenza dello stesso, della parziale emarginazione del dirigente rispetto alla possibilità di partecipare alla relative scelte tecniche e della considerevole durata del demansionamento – e pertanto ha riconosciuto la sussistenza del diritto del medesimo al risarcimento del danno;

e) di qui il rigetto dell’appello principale;

f) va, invece, accolto l’appello incidentale con il quale M.M. ha chiesto di essere reintegrato nelle mansioni svolte prima del demansionamento cioè fino al gennaio 1999;

g) infatti, facendo applicazione dei principi affermati da Cass. SS.UU. 16 febbraio 2009, n. 3677 è da escludere che le modifiche organizzative adottate dall’Azienda sanitaria possano impedire una pronuncia del giudice ordinario che garantisca a M.M. lo svolgimento delle mansioni dirigenziali di appartenenza;

h) deve, infine, essere accolta, nei suindicati termini, la domanda di M.M. volta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale per le frasi offensive contenute nelle lettere in data 11 e 29 marzo 2005.

2. Il ricorso della Azienda Ospedaliera OIRM-S. Anna domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, M.M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Profili preliminari.

1. Preliminarmente va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività dello stesso – in quanto proposto oltre sei mesi dalla pubblicazione dell’impugnata sentenza avanzata dal controricorrente sulla premessa secondo cui la novella introdotta al riguardo dalla L. n. 69 del 2009, sarebbe applicabile nella specie perchè il giudizio di appello è stato radicato dall’Azienda ospedaliera con ricorso depositato il 10 settembre 2009.

Tale premessa ermeneutica non è da condividere e questo porta al rigetto dell’eccezione.

Secondo un costante e condiviso orientamento di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 6 ottobre 2015, n. 19969; Cass. 4 maggio 2012, n. 6784; Cass. 17 aprile 2012, n. 6007), “in tema di impugnazioni, la modifica dell’art. 327 c.p.c., introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69 – che ha sostituito il termine di decadenza di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza all’originario termine annuale – è applicabile, ai sensi dell’art. 58, comma 1, della predetta legge, ai soli giudizi instaurati in primo grado dopo la sua entrata in vigore e, quindi, dal 4 luglio 2009 in poi, restando irrilevante il momento dell’instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio”.

Ne consegue l’inapplicabilità, nella specie, della suindicata novella essendo pacifico che il giudizio è stato instaurato in primo grado prima della relativa entrata in vigore ed essendo, d’altra parte, ininfluente la data di instaurazione del giudizio di appello.

2 – Sintesi dei motivi di ricorso.

2. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 19; D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 5; D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e dell’art. 27 del CCNL 5 maggio 2000.

Si sostiene che avrebbero dovuto essere considerate infondate le doglianze di M.M. a proposito del mutamento dei compiti dirigenziali conferitigli, in quanto nel pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, assegna rilievo soltanto al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione, non potendosi aver riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c., come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità.

2.2. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5″ omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, costituito precisamente dal valore in termini economici e/o dal prestigio delle mansioni asseritamente sottratte a M.M..

Ad avviso della ricorrente il dirigente anche dopo il disposto riassetto aziendale ha di fatto continuato a svolgere le medesime mansioni che svolgeva in precedenza, come formalizzate nella Delib. 30 dicembre 1999, n. 2757.

Infatti, come emerso dalle risultanze istruttorie, l’incarico affidato ai consulenti esterni aveva ad oggetto attività di cui M.M. non si era mai occupato. Pertanto, anche dal punto di vista “sostanziale” non sarebbe configurabile alcun demansionamento e di questo la Corte territoriale non si è accorta perchè ha seguito l’impostazione “formalistica” di M.M., basata più su un presunta offesa alla “immagine” del dirigente piuttosto che a dimostrare la reale rilevanza dei compiti affidati agli esterni, che di fatto non erano mai stati svolti dal M..

2.3. Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. e D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 2, comma 2; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per difetto di giurisdizione con riferimento al D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 68.

Si sostiene che la condanna della Azienda sanitaria ad assegnare al M. “le funzioni dirigenziali svolte anteriormente al gennaio 1999” sarebbe nulla perchè ineseguibile e comunque incidente su atti di livello macro-organizzativo dell’Azienda, sottratti alla giurisdizione del giudice ordinario.

2.4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2043 e 2697 c.c., si contesta la statuizione con la quale la Corte d’appello ha riconosciuto il danno da demansionamento liquidandolo in via equitativa, in assenza di una specifica prova dell’interessato e soltanto sulla base di presunzioni.

Invece tale tipo di liquidazione sarebbe ammessa solo per determinare il valore economico del danno, la cui esistenza è stata provata.

3 – Esame delle censure.

3. Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

4. In ordine logico va esaminata per prima la censura di asserito difetto di giurisdizione, formulata nel terzo motivo, peraltro in modo non corretto, perchè non solo senza alcun richiamo dell’art. 360 c.p.c., n. 1, ma, invece, ipotizzando apoditticamente una “nullità della sentenza per difetto di giurisdizione”, priva di alcuna argomentazione.

4.1. Dalla narratio dello svolgimento del processo, contenuta sia nel ricorso, sia nella sentenza impugnata, non emerge in alcun punto che l’eccezione di carenza di giurisdizione sia stata sollevata nel giudizio di merito. Ne consegue il giudicato implicito e l’inammissibilità della censura proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità (vedi, per tutte: Cass. Sez. 1 26 settembre 2013, n. 22097; Cass. Sez. 5 10 luglio 2013, n. 17056; Cass. SU 28 settembre 2011, n. 19792; Cass. SU 28 gennaio 2011, n. 2067; Cass. SU 23 aprile 2009, n. 9661; Cass. SU 20 novembre 2008, n. 27531; Cass. SU 9 ottobre 2008, n. 24833).

4.2. E’, comunque, appena il caso di ricordare che, secondo un consolidato orientamento di questa Corte nel pubblico impiego contrattualizzato, la sopravvivenza della giurisdizione del giudice amministrativo costituisce, nelle intenzioni del legislatore, ipotesi assolutamente eccezionale, mentre di regola le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (vedi, tra le tante: Cass. SU 1 marzo 2012, n. 3183; Cass. SU 29 maggio 2012, n. 8520; Cass. SU 7 gennaio 2013, n. 142, nonchè: Cass. SU 23 novembre 2012, n. 20726; Cass. SU 19 maggio 2014, n. 10918; Cass. SU 17 novembre 2015, n. 23459; Cass. SU 15 marzo 2016, n. 5074; Cass. SU 31 maggio 2016, n. 11387).

5. Nel primo e nel secondo motivo – da trattare insieme perchè entrambi diretti a contestare la ricostruzione operata nella sentenza impugnata dell’incidenza del disposto riassetto aziendale sulle mansioni svolte da M.M. – sono proposte censure in parte palesemente inammissibili e in parte infondate.

5.1. In particolare, sono sicuramente inammissibili tutte le censure proposte con il secondo motivo perchè nella sostanza si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti e quindi finiscono con l’esprimere un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello, anzichè sotto il profilo della scorrettezza giuridica e della incoerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, in contrasto con l’art. 360 c.p.c., n. 5, anche nel testo precedente alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile, nella specie, ratione temporis.

Al riguardo va ricordato che, in base alla suindicata disposizione, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20 gennaio 2015, n. 855; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. – apprezzabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella anzidetta versione, nei limiti del vizio di motivazione come ivi configurato – deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione, sicchè la sentenza non merita alcuna delle censure formulate dal ricorrente sul punto.

5.2. Va aggiunto che le doglianze di cui al secondo motivo, al pari di quelle formulate nel primo motivo, si incentrano sul presunto mancato rispetto, da parte della Corte d’appello, del principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui in materia di pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1 – il quale (nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1) sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti ha recepito – attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse – un concetto di equivalenza “formale”, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice (Cass. 21 maggio 2009, n. 11835; Id. 11 maggio 2010, n. 11405; Id. 5 agosto 2010, n. 1828; Id. 26 marzo 2014, n. 2106).

5.3. Ebbene, questa censura, per come formulata, non considera che – come meglio si dirà più avanti – la stessa giurisprudenza ha anche precisato che laddove vi sia stato il sostanziale “svuotamento” dell’attività lavorativa, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego.

Dalla sentenza impugnata risulta che la Corte territoriale ha effettuato la propria ricostruzione della vicenda, nella piena consapevolezza di tale giurisprudenza e, quindi, muovendo dall’esatta premessa della possibile configurabilità del demansionamento sia nell’ipotesi di attribuzione al dirigente di mansioni inferiori a quelle di spettanza sia nell’ipotesi di sottrazione delle competenze maggiormente qualificanti della posizione dirigenziale ricoperta.

La Corte torinese ha quindi specificato le ragioni per le quali ha ritenuto che nella specie si sia verificata tale ultima evenienza e questa risulta essere una valutazione di fatto incensurabile in questa sede proprio perchè ben motivata, come si è detto.

In particolare, la Corte territoriale ha accertato che, a partire dai primi mesi del 1999, vi è stata una progressiva erosione dei compiti affidati a M.M. – originariamente inquadrato come unico Responsabile della UOA Sistema Informativo, in staff alla Direzione Generale dell’Azienda sanitaria – con sottrazione di fatto anche dei collaboratori interni sott’ordinati e addirittura con una sorta di subordinazione al controllo da parte di L.S. (della società Studio PRO), consulente esterno dell’Azienda, cui era stata data la titolarità della UOA Ufficio Sistema Informativo, a partire dal gennaio 2000, quando per l’attività informatica, prima facente capo all’unica UOA diretta da M.M., vennero create due diverse UOA e quella affidata al M. venne denominata Centro Tecnologie Informatiche, in staff al Direttore Generale.

Questo, ad avviso della Corte torinese, ha comportato il suddetto “svuotamento” delle mansioni perchè, se prima della riorganizzazione M.M. era stato l’unico “referente” aziendale per tutte le questioni riguardanti l’informatizzazione aziendale, dopo gli sono rimaste soltanto le mansioni concernenti il funzionamento della rete e quelle relative agli interventi di carattere routinario e quindi è stato privato dei compiti maggiormente qualificanti della posizione dirigenziale ricoperta, senza alcuna motivazione al riguardo ed anzi essendogli state anche rivolte frasi offensive contenute nelle lettere in data 11 e 29 marzo 2005, per le quali è stata accolta, nei termini precisati, la domanda di M.M. volta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale.

5.4. Va altresì precisato che, sulla base della anzidetta corretta ricostruzione della vicenda, l’affermazione circa la sussistenza di un demansionamento risulta anche del tutto conforme alla giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio intende dare continuità, secondo cui:

a) in linea generale in tema di pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito – attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse – un concetto di equivalenza “formale”, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinchè le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita (fra le tante: Cass. 5 agosto 2010, n. 18283; Cass. 19 agosto 2011, n. 17396);

b) in caso di provvedimento di revoca, a seguito di nomina di soggetto esterno all’Amministrazione pubblica, di una posizione organizzativa di un dirigente accompagnata dallo svuotamento dell’attività dello stesso di ogni contenuto tipizzante il profilo professionale, con privazione dei compiti decisionali e delle relative responsabilità, con contestuale attribuzione di funzioni meramente esecutive e con piena subordinazione al nuovo responsabile, si è in presenza di un atto amministrativo illegittimo, che dinanzi al giudice ordinario fonda il diritto al risarcimento del danno (vedi, per tutte: Cass. 15 maggio 2015, n. 10030);

c) ove, però, vi sia stato, un comportamento della P.A. di sostanziale “svuotamento” dell’attività lavorativa, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (vedi, per tutte: Cass. 21 maggio 2009, n. 11835; Cass. 11 marzo 2011, n. 5881; Cass. 11 aprile 2013, n. 8854).

5.5. A ciò può aggiungersi che in tale ultimo caso l’erosione delle mansioni di spettanza determina una lesione del diritto del dirigente a svolgere l’incarico già conferitogli per il tempo pattuito e per tale ragione, anche in sede di giudizio dinanzi al giudice ordinario, ben può essere riconosciuto il diritto del dirigente stesso a portare a completare l’esercizio delle mansioni dirigenziali conferitegli per la durata concordata – con detrazione, quindi, del periodo già trascorso dal conferimento all’illegittimo “svuotamento” delle mansioni, dovendosi in questo puntualizzare, ex art. 384 c.p.c., u.c., la motivazione della sentenza impugnata che non contiene alcun esplicito riferimento alla temporaneità dell’incarico dirigenziale – senza che eventuali sopravvenute modifiche organizzative adottate dall’Ente datore di lavoro possano impedire una simile pronuncia del giudice ordinario.

Secondo il costante indirizzo della Corte costituzionale l’interruzione ingiustificata del rapporto di ufficio dei dirigenti prima dello spirare del termine stabilito, si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost., violando il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello del buon andamento dell’azione stessa. Infatti, il rispetto del canone dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa implica una valutazione fondata sui risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli impegni assunti. Sicchè, al di fuori dei casi eccezionali in cui è applicabile il c.d. spoils system (vedi, tra le tante: Corte cost. sentenze n. 233 del 2006, n. 104 del 2007, n. 10 del 2007), le funzioni legittimamente conferite ai dirigenti possono essere tolte prima della scadenza pattuita soltanto per effetto di un provvedimento di revoca emanabile in conseguenza di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

In applicazione di tale giurisprudenza costituzionale questa Corte con riguardo ad alcune fattispecie tra loro non identiche ma comunque tutte caratterizzate da una illegittima anticipata cessazione di un incarico dirigenziale nell’ambito del lavoro pubblico – ponendo l’accento sulla diversità dell’anzidetta fattispecie rispetto a quella del conferimento di nuovo incarico in sede giudiziale – ha confermato le pronunce delle Corti d’appello che avevano riconosciuto il diritto del dirigente a svolgere l’incarico per la durata corrispondente a quella che residuava fino alla scadenza naturale dell’incarico medesimo, dichiarando il correlativo obbligo della P.A. datrice di lavoro (Cass. SU 16 febbraio 2009, n. 3677; Cass. 9 gennaio 2014, n. 289; Cass. 18 febbraio 2016, n. 3210).

In tali sentenze è stata anche sottolineata l’ininfluenza del fatto che l’interessato non fosse rimasto completamente inattivo, risultando comunque titolare di alcuni compiti residuali, rilevandosi l’attinenza di tale osservazione a valutazioni di merito che non possono trovare ingresso in sede di giudizio di cassazione.

5.6. Sotto un profilo sistematico, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la revoca di un provvedimento amministrativo costituisce esercizio del potere di autotutela della P.A. implicante la necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione. Essa, pertanto – a meno che le suindicate ragioni siano chiaramente intuibili sulla base del contenuto del provvedimento impugnato – non può assumere forma implicita, pena la violazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, che prescrive l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi (vedi, per tutte: TAR Lazio, Roma, sez. 1, 18 settembre 2015, n. 11306; TAR Puglia, Bari, Sez. 1, 26 settembre 2012, n. 1686; Cons. Stato, Sez. 5, 28 giugno 2011, n. 3875).

Nella specie l’art. 29 del CCNL dell’Area della Dirigenza sanitaria professionale tecnica ed amministrativa del Servizio Sanitario Nazionale, sottoscritto il giorno 8 giugno 2000, a seguito del parere favorevole espresso in data 5 maggio 2000 dal Comitato di Settore (da applicare nella specie) stabilisce espressamente che la revoca dell’incarico dirigenziale, “connessa all’accertamento dei risultati negativi di gestione o l’inosservanza delle direttive impartite”, “avviene con atto scritto e motivato secondo le procedure e con gli effetti indicati nell’art. 34 dello stesso CCNL (che disciplina gli “Effetti della valutazione negativa” e il procedimento di garanzia da seguire).

5.7. Ne deriva che facendo applicazione dei principi affermati dalla suddetta giurisprudenza di questa Corte a proposito della configurazione del ripristino dell’incarico dirigenziale come una forma di tutela attribuibile da parte del giudice ordinario in favore dei dirigenti pubblici che siano stati privati, in tutto o in parte, delle loro mansioni per effetto di un illegittimo provvedimento della P.A. datrice di lavoro, va rilevato che, a maggior ragione, tale ripristino può essere disposto dal giudice ordinario laddove sia stato accertato che la privazione delle mansioni maggiormente caratterizzanti l’incarico dirigenziale conferito non sia avvenuta per effetto dell’adozione da parte della P.A. di un provvedimento di revoca – in ipotesi illegittimo, ma comunque espresso e motivato – ma a causa di una riorganizzazione aziendale la quale, pur lasciando integri formalmente i compiti affidati al dirigente, di fatto li abbia ridotti a quelli relativi agli interventi di carattere routinario, oltretutto a vantaggio di un consulente privato esterno alla P.A., senza alcuna specifica motivazione al riguardo.

In tale ultima evenienza – che è quella che si è verificata nella specie – il contrasto con i principi costituzionali e legislativi di riferimento è ancora più grave. Infatti:

a) non solo si riscontra una violazione dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. – alla cui stregua, nel lavoro pubblico contrattualizzato, vanno applicate le clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) – i quali, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, comportano che il rapporto di servizio del dirigente, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, debba essere connotato da specifiche garanzie, in modo che sia assicurata la tendenziale continuità dell’azione amministrativa;

b) ma, venendosi a determinare una revoca implicita dell’incarico dirigenziale, si verifica anche il mancato rispetto della L. n. 241 del 1990, art. 3, che prescrive l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi e che implica la necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione della revoca – anche parziale e/o della modifica dell’incarico dirigenziale (come nella specie stabilito dall’art. 29 del CCNL da applicare), in applicazione del principio del giusto procedimento che, nella motivazione del provvedimento amministrativo ha il suo cardine e che è volto non solo a dare attuazione all’art. 97 Cost., ma anche a tutelare altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa amministrazione (artt. 24 e 113 Cost., vedi Corte cost. sentenza n. 310 del 2010);

c) inoltre – in contrasto con i principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica – si viene ad aumentare, senza giustificazione, la “spesa complessiva per il personale regionale e locale”, che, come più volte sottolineato dal Giudice delle leggi è una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico (Corte cost. sentenze n. 153 del 2015; n. 169 del 2007; n. 4 del 2004). In particolare, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, l’obiettivo del contenimento entro limiti quantitativi e temporali prefissati della spesa complessiva per il suddetto personale pur non riguardando la generalità della spesa corrente, ha tuttavia rilevanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interno, e concerne non una minuta voce di spesa, bensì un rilevante aggregato della spesa di parte corrente, nel quale confluisce il complesso degli oneri relativi al personale compresi quelli per il personale “a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzione” (sentenze n. 139 del 2012; n. 108 e n. 69 del 2011, che richiamano la sentenza n. 169 del 2007).

5.8. Per le considerazioni che precedono la sentenza della Corte d’appello di Torino di cui si tratta deve essere confermata nella parte in cui, escludendo che le modifiche organizzative adottate dall’Azienda sanitaria possano impedire una pronuncia del giudice ordinario che garantisca a M.M. lo svolgimento delle mansioni dirigenziali di appartenenza, ha riconosciuto il diritto di M.M. al ripristino delle mansioni dirigenziali nella loro pienezza, quali sono state svolte prima dell’accertato “svuotamento”, cioè fino al gennaio 1999.

Come si è detto, la motivazione sul punto della sentenza stessa va, peraltro, puntualizzata, ex art. 384 c.p.c., u.c., nel senso che il suddetto ripristino non necessariamente va riferito all’incarico originario – si risolve nel riconoscimento del diritto del dirigente a portare a termine i compiti conferitigli fino alla scadenza pattuita, con detrazione del periodo già trascorso dal conferimento all’illegittimo “svuotamento” delle mansioni.

6. Deve essere, infine, respinto anche il quarto motivo di ricorso, con il quale si contesta la statuizione della Corte d’appello di riconoscimento il danno da demansionamento, con liquidazione in via equitativa, perchè disposto in assenza di una specifica prova dell’interessato e soltanto sulla base di presunzioni.

6.1. Va, infatti, ricordato che, in linea generale, il ricorso alle nozioni di comune esperienza ed alle presunzioni semplici attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice del merito, non censurabile in sede di legittimità (Cass. 7 ottobre 2016, n. 20213; Cass. 10 settembre 2015, n. 17906; Cass. 18 luglio 2011, n. 15715; Cass. 20 maggio 2009, n. 11729).

6.2. Inoltre, secondo un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, nel pubblico impiego privatizzato ove sia stato accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (vedi, per tutte: Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass.26 novembre 2008, n. 28274).

Nella specie, la Corte territoriale ha, con motivazione adeguata, confermato la decisione del primo giudice che ha ritenuto provato in via presuntiva l’impoverimento della professionalità subito da M.M. – in considerazione della soggezione a rapide evoluzioni del settore di competenza dello stesso, della parziale emarginazione del dirigente rispetto alla possibilità di partecipare alla relative scelte tecniche e della considerevole durata del demansionamento – e pertanto ha riconosciuto la sussistenza del diritto del medesimo al risarcimento del danno, liquidandolo equitativamente in base alla complessiva valutazione dei precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale).

Di qui il rigetto del quarto ed ultimo motivo di ricorso.

4 – Conclusioni.

7. In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

8. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si ritiene opportuno enunciare il seguente principio di diritto:

In applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito della configurazione del ripristino dell’incarico dirigenziale come una forma di tutela attribuibile da parte del giudice ordinario in favore dei dirigenti pubblici che siano stati privati, in tutto o in parte, delle loro mansioni per effetto di un illegittimo provvedimento della P.A. datrice di lavoro, il suddetto ripristino – non necessariamente riferito all’incarico originario e comunque da limitare alla durata originariamente pattuita, con detrazione del periodo già trascorso – può essere disposto dal giudice ordinario, senza che eventuali sopravvenute modifiche organizzative adottate dall’Ente datore di lavoro possano impedire una simile pronuncia, laddove sia stato accertato che la privazione delle mansioni maggiormente caratterizzanti l’incarico dirigenziale conferito non sia avvenuta per effetto dell’adozione da parte della P.A. di un provvedimento di revoca – in ipotesi illegittimo, ma comunque espresso e motivato – ma a causa di una riorganizzazione aziendale la quale, pur lasciando integri formalmente i compiti affidati al dirigente, di fatto li abbia ridotti a quelli relativi agli interventi di carattere routinario, oltretutto a vantaggio di un consulente privato esterno alla P.A., senza alcuna specifica motivazione al riguardo. In tale ultima ipotesi, infatti, il contrasto con i principi costituzionali e legislativi di riferimento è ancora più grave che nel primo caso in quanto si riscontra la violazione non solo dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. (per il prodursi di una ingiustificata discontinuità dell’azione amministrativa), ma anche del principio del giusto procedimento (perchè si viene a determinare una revoca implicita dell’incarico dirigenziale, in contrasto con la L. n. 241 del 1990, art. 3, che prescrive l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi) nonchè dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, per l’ingiustificato aumento della “spesa complessiva per il personale regionale e locale”, che, come più volte sottolineato dal Giudice delle leggi è una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Azienda ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio si cassazione, liquidate in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, Euro 4.000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% nonchè accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2017

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