Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21699 del 27/10/2016


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Cassazione civile sez. VI, 27/10/2016, (ud. 29/09/2016, dep. 27/10/2016), n.21699

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8346/2014 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., ((OMISSIS)), Società con socio unico, in

persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e Legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUIGI

GIUSEPPE FARAVEILI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

MARESCA, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

R.V., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ITALO CARLO FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato ANGELO COLUCCI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO

MONALDI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 757/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 04/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/09/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato PINO D’ALBERTO per delega dell’Avvocato ANGELO

COLUCCI difensore del controricorrente che si riporta al

controricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“Con sentenza del 4 ottobre 2013, la Corte di appello di Ancona confermava la decisione del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso di R.V. inteso ad ottenere la declaratoria di illegittimità di un contratto a termine stipulato per il periodo dal (OMISSIS), ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, per “per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale addetto al servizio di recapito presso il Polo Corrispondenza Marche-Umbra, assente con diritto alla conservazione del posto nel periodo dal….”, dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto e la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato e condannato la società al risarcimento del danno nella misura di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Corte territoriale, superata la questione della intervenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, riteneva che la società non avesse assolto, neppure a livello di deduzione, all’onere di provare la sussistenza in concreto delle ragioni, peraltro, generiche, indicate in contratto. Riteneva, inoltre, congruo il risarcimento liquidato considerato il pregiudizio provocato da una condotta pervicace e sistematica oltre che non giustificata dalle dedotte difficoltà organizzative.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso Poste Italiane affidato a quattro motivi.

R.V. resiste con controricorso.

I motivi proposti dalla soc. Poste si riassumono come segue.

Violazione e falsa applicazione dell’art 1372 c.c., comma 1, censurandosi la sentenza impugnata per aver escluso l’intervenuta risoluzione per mutuo consenso pur in presenza di evidenti elementi rivelatori del disinteresse, da parte del lavoratore, al mantenimento della funzionalità del rapporto (primo motivo).

Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 115, 115, 345, 416 c.p.c. e art. 420 c.p.c., comma 5 e art. 2697 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto non assolto l’onere probatorio gravante sulla società omettendo qualsivoglia considerazione della prova testimoniale espletata in primo grado, dalla quale era emerso che il R. aveva lavorato su diverse zone sostituendo più lavoratori, oltre che delle risultanze degli estratti Sap allegati al fascicoli di primo grado, dai quali si evinceva l’avvenuta sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (secondo e terzo motivo di ricorso).

Violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, per non avere la Corte territoriale, nell’applicazione dello ius superveniens, riconosciuto l’indennità nella misura minima e per aver confermato la condanna alla corresponsione degli interessi e della rivalutazione (quarto motivo).

In primo motivo è manifestamente infondato.

Come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” per illegittimità del termine apposto.

Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass. 15 dicembre 1997, n. 12665; Cass. 25 marzo 1993, n. 824).

Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità c/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe “contra legem” anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti.

Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2 dicembre 2000, n. 15403; Cass., 20 aprile 1998, n. 4003).

Tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279; Cass. 12 luglio 2010, n. 16303; Cass. 6 luglio 2007, n. 15624; Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070; Cass. 2 dicembre 2000, n. 15403).

L’indirizzo consolidato di questa Corte (si vedano, oltre alle più datate decisioni sopra citate, Cass. 11 dicembre 2002, n. 17674; Cass. 17 dicembre 2004, n. 23554; Cass. 28 settembre 2007, n. 20390; Cass. 24 giugno 2008, n. 17150; Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; Cass. 15 novembre 2010, n. 23057; Cass. 11 marzo 2011, n. 5887 e tra le più recenti, Cass. 28 gennaio 2014, n. 1780; Cass. 25 novembre 2015, n. 24069; Cass. 10 dicembre 2015, n. 24951; Cass. 22 gennaio 2016, n. 1179; Cass. 25 gennaio 2016, n. 1244) è, così, innanzitutto nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine non è sufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008, n. 26935, Cass. 28 settembre 2007, n. 20390).

Tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame di questa S.C., ritenuto giuridicamente corretta l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non è sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.

Questa S.C., poi, ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632 -.

Nella specie, deve ritenersi che la Corte di merito abbia fatto corretta applicazione delle sopraindicate regole, laddove ha evidenziato che il ritardo con cui il lavoratore aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso non costituiva una inequivoca manifestazione di rinuncia alla sua prosecuzione o comunque una volontà diretta alla modifica del rapporto a fronte, peraltro, di una iscrizione del medesimo nelle liste cui la stessa società attingeva per le ulteriori assunzioni (significativa della volontà di rendere prestazioni lavorative). Nè avrebbe potuto avere valenza significativa la mancata formulazione di riserve o contestazioni all’atto della conclusione del rapporto, trattandosi di circostanze comunque incentrate sulla complessiva inerzia del lavoratore. Estranea, poi, al comportamento successivo delle parti è la breve durata del contratto. La medesima estraneità sussiste anche con riguardo allo svolgimento di attività lavorativa per lo stesso o diverso datore. Ed infatti la ricerca di un nuovo lavoro è imposta al lavoratore dalla elementare necessità di sopperire comunque ai bisogni della vita.

Sono, infine, manifestamente infondati il secondo ed il terzo motivo di ricorso.

Quanto alla denunciata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., parte ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio. Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; 3) abbia invertito gli oneri probatori. E poichè, in realtà, nessuna di queste tre situazioni è rappresentata nei motivi anzi detti, le relative doglianze sono mal poste.

Per il resto, va osservato che, a seguito della modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile, in base al comma 3 della medesima norma, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, e dunque dall’11/9/2012, è deducibile solo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti; il controllo della motivazione è, così, ora confinato sub specie nullitatis, in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Nel caso in esame i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale; sicchè neppure potrebbe trattarsi di omesso esame, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dall’odierna ricorrente.

Si aggiunga che la società, pur facendo riferimento ad una prova testimoniale che assume essere stata espletata nel corso del giudizio di primo grado, non fornisce alcun elemento in ordine alla decisività degli esiti della stessa (senza dire che non vi è alcuna indicazione circa i relativi verbali di udienza ed il contenuto delle deposizioni testimoniali indicate).

Quanto al contenuto della documentazione il cui esame si sostiene essere stato del tutto pretermesso, per quanto sopra evidenziato si resta fuori dell’ambito del vizio motivazionale come solo attualmente denunciabile. Peraltro la Corte territoriale ha mostrato di aver tenuto conto delle risultanze di causa laddove ha evidenziato che non vi era stata una prova sufficientemente specifica dei fatti integranti la fattispecie concreta e riguardanti l’ufficio cui l’appellato era stato addetto (senza dire che le attestazioni cui la società fa riferimento in ricorso ed in quest’ultimo riprodotte possono al più dimostrare l’esistenza di talune situazioni di assenza presso il CPD di Ancona, ma non che il R. avesse lavorato su zone interessate da tali assenze).

E’ infine manifestamente infondato il quarto motivo.

Nella specie la Corte territoriale ha confermato la liquidazione dell’indennità omnicomprensiva di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, come operata dalla sentenza del Tribunale attraverso l’indicazione di una misura media tra il minimo e il massimo di legge.

Non si evince, invero, sulla base di quali rilievi dell’appellante, sia stato sottoposto a revisione critica il criterio prescelto dal giudice di primo grado nel bilanciamento applicativo dei diversi parametri di cui al citato art. 32, comma 5.

Per quanto si rileva dal ricorso per cassazione, tanto in sede di appello quanto nel presente giudizio, la società si è limitata a dedurre che, nel caso di specie, dovesse essere riconosciuta l’indennità nella misura minima senza però spiegare quale errore nell’individuazione del parametri legislativamente previsti fosse attribuibile al giudice di primo grado ed a quello di appello.

Si aggiunga che, se è vero che la L. n. 604 del 1966, art. 8, fa riferimento, ai fini della determinazione dell’indennità alle “condizioni delle parti”, ciò non significa – diversamente da quanto assume la ricorrente – che il lavoratore debba dimostrare anche gli altri elementi dalla stessa dedotti, quali la mancata instaurazione di altri rapporti, la mancata percezione di ulteriori somme a titolo retributivo, il tentativo di reperimento di altre occupazioni.

Neppure sussiste alcuna erronea applicazione della disposizione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 6, in base alla quale “in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà”. La ricorrente deduce di avere sottoscritto tali accordi e che gli stessi furono prodotti in giudizio in allegato alle note autorizzate in appello, a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010. Tuttavia non sono chiariti i termini attraverso i quali la questione sarebbe stata introdotta in giudizio nè sono forniti elementi a sostegno della rilevanza e della decisività degli accordi nella fattispecie concreta, con riferimento alla posizione dell’appellante. Il contenuto di tali accordi non è poi riportato nell’esposizione del motivo di ricorso. L’omissione integra violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr., Cass. 10 gennaio 2012, n. 86) e altresì di permettere alla Corte di Cassazione di verificare se una determinata questione possa ancora ritenersi sub indice (cfr., Cass. 14 marzo 2011, n. 5970).

Quanto, poi, alle ulteriori doglianze, va osservato che, contrariamente all’assunto della ricorrente, l’indennità in esame deve essere annoverata tra i crediti di lavoro ex art. 429 c.p.c., comma 3, giacchè, come più volte è stato affermato da questa Corte, tale ampia accezione si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto di lavoro e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva (ad esempio, fra le altre, per i crediti liquidati L. n. 300 del 1970, ex art. 18, v. Cass. 23 gennaio 2003, n. 1000, Cass. 6 settembre 2006, n. 19159; per l’indennità della L. n. 604 del 1966, ex art. 8, v. già Cass. 21 febbraio 1985, n. 1579; per le somme a titolo di risarcimento del danno ex art. 2087 c.c., v. Cass. 8 aprile 2002, n. 5024). D’altra parte l’indennità in esame rappresenta comunque il ristoro (seppure forfetizzato e onnicomprensivo) dei danni conseguenti alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, relativamente al periodo che va dalla scadenza del termine alla data della sentenza di conversione del rapporto (si veda in particolare Cass. 11 febbraio 2014, n. 3029).

Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5.

2 – La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria ex art. 380 bis c.p.c., con la quale la società si limita a riproporre le ragioni espresse nei motivi di cui al ricorso.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

6 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater, del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

La suddetta condizione sussiste nella fattispecie in esame.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimmborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avv. Massimo Monaldi, anticipatario.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2016

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