Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21695 del 26/08/2019

Cassazione civile sez. II, 26/08/2019, (ud. 28/02/2019, dep. 26/08/2019), n.21695

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5623-2015 proposto da:

S.I., rappresentata e difesa dall’Avvocato SILVANO QUEIROLO

ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Attilio

Taverniti, in ROMA, VIA GERMANICO 96

– ricorrente –

contro

F.M.R. e F.L.R., rappresentati e

difesi dagli Avvocati DANIELE GRANARA e FEDERICO TEDESCHINI ed

elettivamente domiciliati presso lo studio in ROMA, L.GO MESSICO 7;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 928/2014 della CORTE d’APPELLO di GENOVA,

depositata il 9.7.2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/02/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 16.10.1998, S.I., proprietaria di un terreno censito al N. C.E.U. del Comune di Rapallo al Foglio (OMISSIS), mappale n. (OMISSIS), conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Chiavari F.L.R. e F.M.R., proprietari di un fondo confinante, censito al N. C.E.U. del Comune di Rapallo al Foglio (OMISSIS), mappale (OMISSIS), assumendo: che sul mappale (OMISSIS) i convenuti avevano edificato un fabbricato su due piani; che i medesimi avevano installato sopra l’ingresso, nel retro, una tettoia che invadeva la proprietà S. e che non era posta a distanza di legge; che nella proprietà dei convenuti era stata realizzata una cantina che sconfinava, almeno per il muro di contenimento, nella parte sottostante al terreno della S..

Ciò premesso, l’attrice chiedeva che i convenuti fossero condannati: alla demolizione della porzione di tettoia che invadeva la proprietà dell’attrice e, comunque, della porzione installata in violazione delle distanze prescritte dalla legge e dai regolamenti comunali, con ripristino dello stato dei luoghi; ad arretrare il vano cantina, eliminando ogni invasione della proprietà dell’attrice, con ripristino dello stato dei luoghi; al risarcimento dei danni da quantificare, anche con valutazione equitativa, nella somma meglio ritenuta dal Tribunale; alla rifusione delle spese di giudizio.

Si costituivano in giudizio i F., contestando le domande attoree e rilevando che non vi sarebbe stata alcuna violazione delle norme in materia di distanze legali.

Espletata C.T.U. e prova testimoniale, con sentenza n. 555/2007, depositata in data 5.10.2007, il Tribunale di Chiavari accoglieva la domanda di parte attrice: dichiarava che la cantina sconfinava nella proprietà dell’attrice, per cui condannava i convenuti in solido a ripristinare lo stato dei luoghi, mediante demolizione della porzione di cantina che invadeva la proprietà dell’attrice; dichiarava che la tettoia sconfinava per una profondità di cm. 2 e per una lunghezza di cm. 40 nella proprietà dell’attrice, condannando i convenuti, in solido, a ripristinare lo stato dei luoghi, mediante demolizione della porzione di tettoia che invadeva la proprietà dell’attrice; condannava i convenuti, in solido, alle spese di lite.

Contro la sentenza proponevano appello i F. deducendo: che la sentenza di primo grado sarebbe stata emessa in base all’errata indagine effettuata dal CTU nell’identificare i confini tra le due proprietà; che da rilievo planimetrico del tecnico di parte, incaricato dalla S. della verifica dei confini per la sanatoria di un manufatto, definito pollaio, del fondo S., emergeva piuttosto una diversa posizione dei confini e anzi, addirittura uno sconfinamento del fondo S. a danno di quello F.; che il Tribunale aveva errato nel reputare intempestiva e inammissibile la produzione di tale rilievo planimetrico.

Gli appellanti chiedevano, in riforma della sentenza impugnata e previa sospensione dell’efficacia esecutiva, nonchè rinnovazione o integrazione della CTU, il rigetto delle domande attoree, con vittoria delle spese di lite dei due gradi di giudizio.

Si costituiva la S., chiedendo il rigetto dell’appello essendo la sentenza conforme alle risultanze istruttorie.

Con sentenza n. 928/2014, depositata in data 9.7.2014, la Corte d’Appello di Genova, in parziale accoglimento dell’appello, respingeva le domande proposte dalla S.; compensava tra le parti le spese dei due gradi, ponendo le spese della CTU per metà a carico dell’appellata e per la restante metà a carico degli appellanti.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione S.I. sulla base di tre motivi; resistono Laura Rosa e F.M.R. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la Corte di merito avrebbe erroneamente accolto il gravame ritenendo che le risultanze istruttorie acquisite in primo grado non giustificassero la sentenza del Tribunale di condanna dei convenuti alla demolizione di una porzione della loro cantina e tettoia, laddove, viceversa (a dire della Corte), le risultanze della CTU avrebbero fornito univoci dati per concludere che la cantina si trovasse nella posizione lamentata dall’attrice da oltre 20 anni prima dell’azione giudiziaria e che la realizzazione del c.d. muretto di confine fosse avvenuta con la consapevolezza della sottostante posizione della cantina da parte dell’attrice, per cui tali elementi apparivano tali da far escludere la sussistenza di una posizione giuridica tutelabile dell’attrice. Tale ricostruzione dei fatti avrebbe introdotto argomenti ai quali i F. mai hanno fatto cenno nei due gradi di giudizio (supposto consenso della S. alla realizzazione della cantina in parte nella di lei proprietà e ultraventennale inalterato stato dei luoghi), essendosi questi limitati a respingere le affermazioni avversarie.

1.1. – Il motivo è inammissibile, nella parte in cui la ricorrente sollecita un riesame del materiale probatorio, contestando il risultato dell’attività svolta dalla Corte d’appello in ordine alla valutazione dei fatti e delle risultanze probatorie.

Da un lato, è consolidato il principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento; per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune prove rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004). Ed è altresì pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimità è configurabile (cosa che nella specie non è dato ravvisare) solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non già quando vi sia mera difformità rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014).

Dall’altro lato (con riguardo anche agli altri motivi di ricorso), va rilevato che la censura si risolve, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando i ricorrenti di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito, non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018). Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

1.3. – Il motivo è, sotto altro profilo, infondato.

Va, infatti, ritenuto che, lungi dal cagionare il lamentato vulnus all’art. 112 c.p.c. in relazione al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la Corte territoriale abbia compiutamente preso in esame e tenuto conto delle conclusioni della CTU, che ha fatto proprie, sottolineando espressamente le ragioni per cui ha ritenuto (in stretta coerenza con le domande proposte in giudizio dalla attrice) la esclusione di una posizione giuridica tutelabile della S. con riguardo al preteso sconfinamento per alcune decine di centimetri della cantina, nonchè allo sconfinamento della tettoia ritenuto “talmente esiguo” da ritenersi comunque inavvertibile. Pertanto, la ricorrente attribuisce erroneamente alla Corte di merito la violazione dell’art. 112 c.p.c., perchè avrebbe fatto riferimento alla ultraventennale permanenza dell’attuale stato dei luoghi a sostegno di un’eccezione di intervenuto acquisto per usucapione del diritto a mantenere la porzione della cantina all’interno della proprietà della S., che non era mai stata sollevata. Invero, la Corte (a sostegno del decisum, fondato sulla inidoneità del quadro probatorio a supportare le domande) si è limitata a rilevare (in termini di mero obiter dictum) come lo stato dei luoghi fosse tale da oltre 20 anni, e fosse ragionevolmente conosciuto dalla attrice.

Nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formulazione letterale adottata dalla parte (Cass. n. 26159 del 2014; Cass. n. 21087 del 2015), dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonchè del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte (Cass. n. 5442 del 2006; Cass. n. 27428 del 2005).

L’interpretazione della domanda giudiziale costituisce, dunque, operazione riservata al giudice del merito (Cass. sez. un. 4617 del 2011), il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, quando (come nella fattispecie) sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale (Cass. n. 22893 del 2008). Il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c., implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto e comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il Giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. sez. un. 9147 del 2009).

1.4. – Ne consegue la insussistenza delle dedotte censure agli evocati artt. 112,115 e 116 c.p.c..

2. – Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione degli artt. 115 e/o 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto, con riferimento alla tettoia, la Corte di merito, in spregio al disposto di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c., avrebbe disatteso gli accertamenti e le conclusioni del CTU, pur ammettendo che lo sconfinamento sussistesse. Tale motivazione sarebbe viziata anche con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 in quanto il CTU aveva affermato che la tettoia sconfinava verso la proprietà della S. per una profondità di cm. 2 e una lunghezza di cm. 40; e in sede di espletamento delle operazioni peritali, i consulenti di parte avevano concordato sul fatto che il confine tra le due proprietà fosse individuato dal muro esistente, utilizzando per le misurazioni apposito apparecchio ritenuto idoneo. Per cui l’affermazione della Corte secondo cui sarebbe da mettere in dubbio la certezza del confine tra le rispettive proprietà deve ritenersi frutto di un omesso esame di un fatto (accertamenti del CTU con adesione dei consulenti di parte, sia circa l’individuazione del confine, sia circa le modalità di misurazione mediante apposita apparecchiatura) di estrema rilevanza ai fini della decisione, con la conseguente formulazione di motivi palesemente contraddittori.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – In tema di formulazione del motivo di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita (come invece avvenuto nella specie) la prospettazione e la analisi di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto (che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma) e quello del vizio di motivazione (che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione) (cfr. anche Cass. n. 26874 del 2018; conf. Cass. n. 19443 del 2011).

2.3. – Infatti, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie).

Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016). Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016). Ciò in quanto, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

2.4. – Viceversa, come sopra accennato, la allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna al paradigma dell’esatta interpretazione della norma di legge; essa infatti inerisce alla tipica valutazione spettante al giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, entro peraltro i limiti del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Tale norma (nell’ambito dispositivo adottato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 9 luglio 2014) consente (Cass. n. 8053 e n. 8054 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe, dunque, dovuto specificamente e contestualmente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter accedere all’esame del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’è traccia. Laddove, nuovamente, le censure mosse in riferimento a detto parametro si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018), inammissibile seppure effettuata con asserito riferimento alla congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e contestata dal ricorrente.

3. – Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione degli artt. 115,116 e 184-bis c.p.c., art. 153 c.p.c., comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di contestazione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto la Corte di merito ha richiamato uno schizzo planimetrico proveniente dal consulente dei F. (in cui il muro divisorio era raffigurato in gran parte insistente sul fondo dei medesimi) depositato tardivamente e di cui non avrebbe dovuto tenersi conto, con ciò incorrendo nella violazione del disposto di cui agli evocati artt. 184-bis e/o 153 c.p.c. e/o art. 345 c.p.c., comma 3. Inoltre, per la ricorrente, la Corte sarebbe incorsa nella violazione del disposto di cui agli artt. 115 e/o 116 c.p.c., richiamando, a conclusione della motivazione, tutte le argomentazioni già svolte in ordine all’inattendibilità degli accertamenti del CTU (ai quali, come già detto, aderivano i consulenti tecnici di parte) con la conseguente formulazione di motivi palesemente contraddittori.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – La Corte di merito non ha affatto basato il suo giudizio sulla scorta dello “schizzo planimetrico” de quo, ma ha chiarito esplicitamente che, “indipendentemente da ogni questione sulla (sua) attendibilità e sulla controversa ammissibilità (esclusa dal primo giudice)”, le considerazioni espresse alla sola stregua del contenuto della relazione di CTU apparivano sufficienti, con riferimento tanto alla tettoia quanto alla cantina, per negare adeguato fondamento istruttorio alle pronunce del Tribunale in ordine all’accertamento degli sconfinamenti ed alla emissione di condanne al ripristino dello stato dei luoghi ed a demolizioni (v. sub punto 4 della sentenza impugnata, pag. 4).

Risulta pertanto corretta la affermazione della Corte in ordine alla irrilevanza, alla luce della ratio decidendi, di qualsiasi considerazione in ordine alla tempestività o meno della produzione di siffatto documento.

Peraltro, i rilievi delle parti alla consulenza tecnica di ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, che possono essere svolte nella comparsa conclusionale, sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi od estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purchè il breve termine a disposizione per la memoria di replica, comparato con il tema delle osservazioni, non si traduca, con valutazione da effettuarsi caso per caso, in un’effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa, spettando al giudice sindacare la lealtà e correttezza di una siffatta condotta della parte alla stregua della serietà dei motivi che l’abbiano determinata (Cass. n. 20829 del 2018; Cass. n. 15418 del 2016).

3.3. – Sotto altro aspetto, con riferimento alla pretesa violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., la ricorrente non specifica in cosa tale violazione sia consistita, limitandosi a riferire che la Corte distrettuale avrebbe richiamato le sue argomentazioni circa l’inattendibilità degli accertamenti peritali.

A tale proposito, si ribadisce come non sussista alcun obbligo per il Giudice di adeguarsi alle risultanze della CTU; infatti, la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito (Cass. n. 15219 del 2007).

3.4. – Quanto infine all’asserito “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di contestazione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (quanto alla dedotta inattendibilità degli accertamenti del CTU, cui aderivano i consulenti tecnici di parte, con la conseguente formulazione di motivi palesemente contraddittori) si rinvia alle argomentazioni svolte (sub 2.4.) in ordine all’ambito applicativo del parametro ed alla necessità dell’esplicito richiamo alla sussistenza dei presupposti formali e sostanziali, diretti alla sua operatività.

4. – Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore di parte controricorrente. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla refusione delle spese di lite in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 3.100,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2019

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