Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21677 del 05/09/2018

Cassazione civile sez. lav., 05/09/2018, (ud. 11/04/2018, dep. 05/09/2018), n.21677

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17524-2013 proposto da:

G.L.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FABIO MASSIMO 45, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

PELLETTIERI che lo rappresenta ed difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ORIZZONTI SISTEMI NAVALI S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI

22, presso lo studio dell’avvocato ENZO MORRICO, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato VALERIA COSENTINO giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5121/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/07/2012 R.G.N. 6283/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2018 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato TRONCELLITI ROSA per delega verbale Avvocato

PELLETTIERI GIOVANNI;

udito l’Avvocato NANNETTI CAMILLA per delega verbale Avvocato MORRICO

ENZO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 9.7.2012 la Corte di appello di Roma, confermando la pronuncia di primo grado, ha respinto le domande proposte da G.F. nei confronti della società Orizzonti Sistemi Navali s.p.a. per il riconoscimento della qualifica superiore di dirigente per il periodo da maggio 1994 e il demansionamento per totale inattività a decorrere da gennaio 2003, con conseguente rigetto delle istanze di natura retributiva e risarcitoria.

2. La Corte, esaminando il primo motivo di appello relativo all’adibizione a mansioni superiori, ha ritenuto inammissibile la deduzione della prosecuzione, alla data dell’assunzione presso Orizzonti Sistemi Navali s.p.a. (1.7.2005), dell’attività lavorativa ai sensi dell’art. 2112 c.c., in quanto causa petendi invocata solamente in grado di appello a sostegno della responsabilità della società per l’assegnazione, sin dal 1994, di mansioni superiori all’inquadramento assegnato; inoltre, a fronte della mancata allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, della sussistenza di un gruppo societario (o di un collegamento economico-funzionale) tra la Orizzonti Sistemi Navali s.p.a. e le precedenti società datrici di lavoro, ha ritenuto irrilevante la tempestiva produzione di documentazione nonchè impedito l’esercizio di poteri d’ufficio. In ordine al secondo motivo di appello, concernente il dedotto demansionamento, la Corte distrettuale ha sottolineato che il lavoratore aveva chiesto il risarcimento del danno professionale senza indicare, nel ricorso introduttivo del giudizio, alcun concreto elemento di fatto idoneo a configurare un pregiudizio, a fronte di una professionalità che non appariva contraddistinta da un bagaglio di conoscenze e capacità di rapida obsolescenza e di una descrizione del tutto generica sui livelli di responsabilità, cognizioni, ambiti di iniziativa e di autonomia decisionale rivestiti dal G..

3. Avverso la sentenza, il G. propone ricorso per Cassazione, affidato a plurime censure, illustrate da memoria. La società resiste con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. “Con riferimento al primo motivo del ricorso in appello”, il ricorrente lamenta diffusamente l’ingiustizia della sentenza impugnata con plurime censure via via articolate nel progressivo sviluppo delle argomentazioni esposte, denunciando, dapprima, la violazione dell’art. 421 c.p.c. in relazione al mancato esercizio dei poteri officiosi, avendo, la Corte, tradito la “missione che il legislatore ha affidato al giudice del lavoro che è quella di non acquietarsi alla verità processuale ma cercare sempre la verità vera”. Prosegue, poi, il ricorso (in assenza di rubrica che riassuma le norme ritenute violate, salvo un iniziale “abstract”, a pag. 13 del ricorso, che concerne gli elementi del rapporto di lavoro) lamentando l’errore del giudice di merito in ordine alla ritenuta mancata tempestiva produzione di documentazione (doc. 29, del fascicolo di primo grado, che acclude al presente ricorso) e denunciando la violazione dell’art. 2697 c.c. per aver, altresì, la Corte distrettuale, addossato al lavoratore la prova delle deduzioni della società in ordine al “distacco” del G. da una società a quella evocata in giudizio, anzichè al “trasferimento” effettuato. Aggiunge “un’ultima incredibile distrazione” della Corte distrettuale ove, incorrendo nel vizio di “omessa lettura degli atti difensivi della convenuta e del ricorrente, sopra indicati, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c.”, ha ritenuto non impugnata la data di assunzione (dell’1.7.2005, presso la società Orizzonti Sistemi Navali s.p.a.) indicata dal Tribunale, con ulteriore violazione dell’art. 2697 c.c., art. 2112 c.c. e art. 420 c.p.c. nonchè vizio di motivazione, essendo stata trascurata la documentazione prodotta in primo grado. La circostanza che il lavoratore abbia prestato attività lavorativa presso diverse società facenti parte dello stesso gruppo emerge, come rileva il ricorrente, dalla sentenza del Tribunale, dal ricorso introduttivo del giudizio che fa riferimento ai “trasferimenti” subiti dal lavoratore da gennaio 1998 in poi, dalla memoria di costituzione della società in primo grado, dai documenti depositati col fascicolo di primo grado (documenti che riproduce in copia), con conseguente violazione dell’art. 416 c.p.c. e, nuovamente, art. 2697 c.c.. Infine, il ricorrente invoca la “violazione dell’art. 113 c.p.c., in relazione all’art. 2112 c.c. per non avere ritenuto la resistente legittimata a stare in giudizio in ragione della cessione del contratto di lavoro”.

2. “Con riferimento al secondo motivo di appello”, il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 2103 c.c. in relazione al diritto del lavoratore all’espletamento delle mansioni contrattualmente attribuitegli (art. 360 c.p.c., n. 3) nonchè insufficiente motivazione su di un punto decisivo della causa (art. 360 c.p.c., n. 5)”. Dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia di danno alla professionalità, riportato plurimi stralci dell’atto di appello (ove si censurava la mancata ammissione della prova testimoniale in ordine al subito svuotamento di tutte le funzioni) nonchè riprodotto alcuni documenti depositati in primo grado a suffragio della mancata assegnazione di un fondo cassa al lavoratore al fine di espletare le funzioni di “referente amministrativo della sede secondaria di Roma”, il ricorrente ha denunciato la violazione degli “artt. 1218,1223 e 1226 c.c. in relazione agli artt. 2103 e 2087 c.c.” rilevando la tempestiva produzione di tutte le buste paga ai fini della quantificazione del danno da demansionamento.

3. Le plurime doglianze raggruppate con riferimento al “primo motivo di appello” sono in parte inammissibili e in parte infondate.

Le censure – cumulate in un unico motivo e riferite ad una pluralità di vizi tra quelli indicati dall’art. 360 c.p.c. non sempre chiaramente distinti tra loro – appaiono inammissibilmente formulate, ove hanno tentato di ricondurre sotto l’archetipo della violazione di legge censure che, invece, attengono alla tipologia del difetto di motivazione ovvero al gravame contro la decisione di merito mediante una diversa lettura delle risultanze procedimentali (nella specie, documentali) prodotte nei giudizi di merito. Invero, è principio più volte espresso da questa Corte (per tutte Cass. n. 16698/2010) quello secondo cui: “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa”.

Invero, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione delle disposizioni di legge dettate in materia di prova (art. 2697 c.c.) e di cessazione di ramo di azienda (art. 2112 c.c.) ed illustra la carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta effettuata dalla Corte territoriale che non ha esaminato la documentazione prodotta, procedendo a contestare la valutazione delle risultanze di causa. Il ricorrente, pertanto, non ha contestato al giudice di merito di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia bensì di aver erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, l’insussistenza di un fenomeno successorio nel rapporto di lavoro tra Orizzonti Sistemi Navali s.p.a. e società-datrici di lavoro precedenti. Tale censura comporta un giudizio non già di diritto, bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del vizio di motivazione. Sotto questo ultimo aspetto, la sentenza si presenta comunque immune da vizi logico-formali, essendosi dato ampiamente ed esaustivamente conto della mancata ottemperanza all’onere probatorio a carico di colui che vanta un diritto.

In questa prospettiva illustrata dalla Corte distrettuale, il ricorrente dimostra di non aver colto la ratio decidendi della sentenza impugnata nella misura in cui insiste sull’onere, tempestivamente assolto, di produzione della documentazione offerta a fondamento dell’intervenuta cessione di ramo di azienda a favore della società Orizzonti Sistemi Navali s.p.a. senza nulla dedurre in ordine alla tempestiva allegazione del fatto nel ricorso introduttivo del giudizio.

Del pari, il ricorrente mostra di non aver colto la ratio decidendi della sentenza impugnata lamentandosi del mancato esercizio dei poteri d’ufficio del giudice.

Ebbene, questa Corte ha affermato che l’allegazione dei fatti nell’atto introduttivo del giudizio è potere che compete esclusivamente alle parti (rispettivamente, nel ricorso introduttivo del giudizio e nella memoria di costituzione) e, nel rispetto del principio della domanda nonchè a garanzia della imparzialità del magistrato, è vietata qualsiasi integrazione da parte del giudice (Cass. Sez. U. n. 1099 del 1998; Cass. Sez.U. n. 11353 del 2004 e Cass. Sez. U. n. 8202 del 2005). Nel processo del lavoro vige, invero, l’onere di allegazione inteso come monopolio delle parti private per la delimitazione dell’ambito di fatto della lite quale proiezione dei fondamentali principi della domanda (art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.). L’onere dell’allegazione (che, ovviamente, riguarda sia i fatti costitutivi della domanda sia i fatti impeditivi sui quali si fondano le eccezioni del resistente) non è affatto incompatibile con l’attribuzione al giudice del lavoro di poteri istruttori perchè il momento dell’acquisizione della prova è momento logicamente successivo e distinto rispetto a quello della introduzione dei fatti nel giudizio. Gli oneri di allegazione, come gli oneri di prova, debbono essere esercitati immediatamente (ossia con gli atti di tempestiva costituzione in giudizio), con conseguente assoluta preclusione di allegazioni e di prove (sia costituite che costituende) tardive (art. 414 c.p.c., n. 4 e art. 416 c.p.c.). In forza di tale principio risulta immodificabile l’ambito dei fatti della lite definito nel primo scritto difensivo di ciascuna parte, con conseguente preclusione alla introduzione di nuovi fatti nel corso del processo (salvo autorizzazione del giudice, in presenza di gravi motivi, ex art. 420 c.p.c., alla modifica di domande ed eccezioni che – nell’ambito della emendatio libelli – non può mai riguardare le allegazioni di fatto). Il sistema così ricostruito dalle Sezioni Unite di questa Corte tutela la ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e trova un suo contemperamento, ispirato all’esigenza della ricerca della “verità materiale” cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, nei poteri istruttori del giudice che vanno, peraltro, utilizzati con riguardo ai fatti allegati tempestivamente (Cass. Sez. U. n. 11353 del 2004 e Cass. Sez. U. n. 8202 del 2005 citate; cfr. altresì Cass. Sez. U. n. che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ha affermato che per individuare la domanda rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il cosiddetto “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale essi sono manifestazione).

Insomma, nel rito del lavoro, che si caratterizza per la circolarità tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova, sussiste l’impossibilità di contestare o richiedere prova – oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito – su fatti non allegati, nonchè su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano state esplicitate in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo (cfr. da ultimo Cass. n. 25148 del 2017, Cass. 2499 del 2017, Cass. n. 23652 del 2016, Cass. n. 20055 del 2016, Cass. n. 19915 del 2016, Cass. n. 2687 del 2015).

4. Il secondo motivo è infondato.

Questa Corte ha affermato che nel caso in cui sia proposta, da un lavoratore subordinato, domanda di risarcimento danni da demansionamento professionale, il giudice, che ritenga evidente il difetto di allegazione e prova in ordine alla natura ed entità del danno subito, può – in applicazione del principio della cd. “ragione più liquida” – invertire l’ordine delle questioni e, in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio valorizzate dall’art. 111 Cost., respingere la domanda sulla base di detta carenza, posto che l’accertamento sulla sussistenza dell’inadempimento, anche se logicamente preliminare, non potrebbe in ogni caso condurre ad un esito del giudizio favorevole per l’attore (Cass. n. 17214 del 2016).

La sentenza impugnata è in linea con il principio di diritto affermato da questa Corte nella misura in cui ha sottolineato che il lavoratore non ha (tempestivamente) allegato alcun pregiudizio derivante dal periodo di inattività indicato, in particolare, descrivendo in maniera del tutto generica i livelli di capacità, responsabilità, autonomia, iniziativa richieste al G. a tal punto da impedire di scorgere una professionalità contraddistinta “da conoscenze teoriche ed esperienze pratiche suscettibili di rapida evoluzione” o “la necessità di un continuativo esercizio al fine di impedire il verificarsi di non più colmabili gap professionali” e parametrando, inoltre, il prospettato danno alla qualifica dirigenziale pretesa (e non riconosciuta dal giudice). A fronte della esaustiva e specifica motivazione adottata dalla Corte distrettuale e in assenza dell’indicazione, da parte del ricorrente, di tempestiva allegazione dell’espletamento di una “attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque, caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo” (come richiesto da Cass. Sez. U. n. 6572 del 2006) il motivo va rigettato.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

6. Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2018

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