Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2167 del 01/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 01/02/2021, (ud. 09/09/2020, dep. 01/02/2021), n.2167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26945/2015 proposto da:

P.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA, 6,

presso lo studio dell’avvocato VIVIANA DEL PRETE, che la rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati MAURO

RICCI, CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4056/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/05/2015 R.G.N. 2676/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/09/2020 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con sentenza n. 4056 del 2015, la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta da P.L. avente ad oggetto la condanna dell’Inps al pagamento dei ratei dell’indennità di accompagnamento maturati dal 26 maggio 1989 al 2 novembre 1993, in ragione del fatto che con sentenza passata in giudicato n. 6779/2008 la Corte d’appello di Roma aveva riconosciuto il diritto solo a decorrere dal primo giugno 2003 escludendo quindi il periodo precedente;

ad avviso della Corte territoriale, alla luce della lettura del dispositivo e del ricorso in appello relativi alla citata sentenza n. 6779/2008, andava applicato il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17 marzo 2014 n. 6102) della rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno laddove le parti abbiano dimostrato attraverso i propri scritti difensivi di avere piena consapevolezza della pendenza di altro giudizio, come era avvenuto nel caso di specie; inoltre, dovendo prevalere il contenuto del dispositivo sulla motivazione, la domanda relativa ai ratei precedenti doveva ritenersi rigettata e non dichiarata inammissibile, come preteso dalla appellante;

avverso tale sentenza, ricorre per cassazione P.L. sulla base di due motivi: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 421 c.p.c., ed in ragione dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; in particolare, la sentenza avrebbe erroneamente ritenuto insanabile il contrasto tra dispositivo e motivazione ritenendo rigettati e non dichiarati inammissibili per novità i capi di domanda relativi ai ratei anteriori al gennaio 2003 ed avrebbe disatteso l’obbligo di acquisire d’ufficio la sentenza passata in giudicato, prodotta solo nella parte dispositiva; 2) violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione alla condanna della parte appellante al pagamento delle spese del giudizio d’appello nonostante l’Istituto fosse stato difeso da propri legali interni;

resiste l’INPS con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

il primo motivo è inammissibile;

questa Corte di cassazione, a proposito del requisito di sufficiente specificità del motivo del ricorso per cassazione e della previsione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, in ipotesi di denuncia di violazione del giudicato esterno, ha precisato (Cass. n. 817 del 16 gennaio 2020; Cass. 889 del 2015) che la denuncia di violazione del giudicato esterno se, da un lato, attribuisce a questa Corte il potere di “accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito” (Cass., Sez. Un., 28 novembre 2007, n. 24664), dall’altro richiede pur sempre che il ricorrente assolva gli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

è stato affermato al riguardo che “poichè la sentenza prodotta in un giudizio per dimostrare l’esistenza di un giudicato esterno rilevante ai fini della decisione assume rispetto ad esso – in ragione della sua oggettiva intrinseca natura di documento – la natura di una produzione documentale, il requisito di ammissibilità del ricorso per cassazione indicato dall’art. 366 c.p.c., n. 6, concerne, in tutte le sue implicazioni, anche una sentenza prodotta nel giudizio di merito, riguardo alla quale il motivo di ricorso per cassazione argomenti la censura della sentenza di merito quanto all’esistenza, alla negazione o all’interpretazione del suo valore di giudicato esterno” (Cass. 18 ottobre 2011, n. 21560 e negli stessi termini Cass. 5 giugno 2014, n. 12658);

il motivo non contiene la trascrizione delle parti essenziali della sentenza che viene in rilievo (Corte d’appello Roma disp. n. 6779 del 2008) e che non è neppure allegata al ricorso per cassazione, sicchè non fornisce alla Corte gli elementi necessari per valutare ex actis la rilevanza e la fondatezza delle censure che si incentrano sul precedente giudicato, essendo solo riportate sei righe della parte motiva (pag. 9 del ricorso);

nè ciò può ritenersi impedito dalla circostanza che la Corte d’appello ha interpretato il giudicato sulla base del dispositivo e sui contenuti degli atti di parte, senza acquisire copia della sentenza, giacchè, almeno, tali atti utilizzati dalla Corte territoriale per interpretare il giudicato la parte ricorrente avrebbe dovuto riportare nei passi rilevanti ed allegarne copia;

la denuncia di violazione del giudicato esterno richiede che il ricorrente assolva gli oneri di specificazione e di allegazione ex art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

il secondo motivo è infondato, posto che la difesa dell’Istituto in grado d’appello è avvenuta a mezzo dei legali dell’Istituto che sono avvocati iscritti all’albo speciale e non funzionari abilitati dalla legge a patrocinare specifiche controversie, per cui l’art. 91 c.p.c., è stato correttamente applicato;

il professionista dipendente dell’ente pubblico, in luogo di competenze ed onorari percepisce uno stipendio per cui non è nemmeno applicabile il principio di inderogabilità dei minimi tariffari e la condanna del soccombente alle spese è effettuata, dunque, in favore dell’ente (vd. Cass. SS.UU. 4197 del 1990);

in definitiva, il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata alle spese nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2021

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