Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2166 del 29/01/2010

Cassazione civile sez. I, 29/01/2010, (ud. 23/10/2009, dep. 29/01/2010), n.2166

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

I.M.R. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso l’avvocato PANARITI

PAOLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato AIELLO

CARMINE, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e sul ricorso n. 17999/2008 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

I.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CELIMONTANA 38, presso l’avvocato PANARITI PAOLO, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato AIELLO CARMINE, giusta procura in

calce al controricorso al ricorso incidentale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

15/05/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

23/10/2009 dal Consigliere Dott. BERNABAI Renato;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato DOMENICO CALVETTA, con delega,

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale; rigetto dell’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto emesso il 15 maggio 2007 la Corte d’appello di Roma condannava il Ministero della Giustizia al pagamento, in favore di I.M.R., della somma di Euro 9.750,00, oltre interessi e spese, a titolo di equa riparazione del danno conseguito alla violazione del termine ragionevole del processo da lei promosso dinanzi al Tribunale di Napoli nei confronti del comune di Sorrento per ottenere la giusta indennità di espropriazione e di occupazione, ai sensi della L. 25 giugno 1865, n. 2359, artt. 39 e 40 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica). Motivava che il giudizio, svoltosi in tre gradi, era durato 16 anni, e dunque con un ritardo di otto anni rispetto alla durata ragionevole, secondo i parametri consolidati della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Avverso il decreto proponevano distinti ricorsi la signora I. e il Ministero della Giustizia.

La prima deduceva:

1) la violazione dell’art. 6, par. 1, degli artt. 13 e 41 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 117 Cost., comma 1 perchè la sentenza disapplicava la giurisprudenza consolidata dalla Corte europea, fonte di diritto primaria, secondo cui l’equo indennizzo andava riconosciuto per ogni anno di durata del processo e non solo per ogni anno di ritardo;

2) la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 135 c.p.c., comma 4, e dell’art. 737 c.p.c., nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4 e la contraddittorietà della motivazione perchè la corte d’appello aveva sottratto dal computo della durata complessiva del processo, il periodo di due anni, considerato come termine ragionevole di durata della fase di legittimità: laddove questa, al momento del deposito del ricorso per equa riparazione, era iniziata da appena cinque mesi, come esposto dallo stesso decreto;

3) la violazione dell’art. 6, par. 1, degli artt. 13 e 41 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e dell’art. 117 Cost., comma 1, dal momento che la corte territoriale aveva disatteso il principio consolidato che il primo grado di giudizio debba durare non più di tre anni;

4) la violazione dell’art. 111 cost., comma 6, e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 135 c.p.c., comma 4, dell’art. 737 c.p.c., nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4 e la carenza di motivazione nell’accertamento della complessità della controversia ai fini del prolungamento, in anni quattro, dell’ordinario termine ragionevole del primo grado di un processo;

5) la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 135 c.p.c., comma 4, e dell’art. 737 c.p.c., dell’art. 81 disp. att. c.p.c., nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4 perchè la corte territoriale aveva imputato al suo comportamento l’intera durata dei rinvii richiesti, senza considerare l’abnorme intervallo intercorso tra un’udienza e l’altra;

6) la violazione dell’art. 6, par. 1, degli artt. 13 e 41 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4 per la valutazione non complessiva, ma suddivisa nei vari gradi, del termine ragionevole del processo e l’erroneo computo del ritardo fino alla data di deposito del ricorso per equa riparazione, anzichè fino alla successiva pronunzia del decreto della corte d’appello;

7) la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronunzia sulla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali, consistenti nelle maggiori spese processuali sostenute in conseguenza della durata eccessiva del processo presupposto;

8) la violazione degli artt. 1218, 1219 e 1224 c.c. nell’applicazione degli interessi compensativi sulla somma liquidata a titolo di indennizzo con decorrenza dal decreto, anzichè dalla domanda.

Il Ministero della Giustizia, a sua volta, deduceva:

1) la violazione degli artt. 2934 – 2947 c.c. nell’omesso rilievo che la L. n. 89 del 2001 non è speciale rispetto all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, salva la diversità della sede giurisdizionale in cui esercitare la tutela, con conseguente applicabilità del termine quinquennale di prescrizione.

2) La violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4 nonchè dell’art. 2934 c.c., comma 2, degli artt. 2935, 2141 e 2942 c.c. nell’affermazione che il termine di decadenza semestrale non può che assorbire, nella specie, il termine di prescrizione. All’udienza del 23 ottobre 2009 il Procuratore generale ed il difensore dell’ I. precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Dev’essere preliminarmente disposta la riunione del ricorso n. 17883 R.G. 2008 e del ricorso n. 17997 R.G. 2008, entrambi proposti avverso lo stesso decreto (art. 335 c.p.c.).

Con il primo motivo la ricorrente I. deduce la violazione della legge nel disattendere la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’equo indennizzo va ragguagliato all’intera durata del processo e non solo agli anni di ritardo irragionevole.

Il motivo è infondato.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l’indennizzo non deve essere correlato alla durata dell’intero processo, bensì solo al segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole, in base a quanto stabilito dall’art. 2, comma 3, di detta legge, conformemente al principio enunciato dall’art. 111 Cost., che prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza. Questo parametro di calcolo, che non tiene conto del periodo di durata ordinario e ragionevole, non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, come riconosciuto dalla stessa Corte europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, e non si pone, quindi, in contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convezione europea dei diritti dell’uomo (Cassazione civile, sez. 1, 14 febbraio 2008, n. 3716).

Con il secondo motivo l’ I. censura la violazione di legge e la contraddittorietà della motivazione nell’accertamento della violazione del termine ragionevole.

Il motivo è infondato.

La corte territoriale ha motivatamente accertato in anni quattro il termine ragionevole per la definizione del primo grado di giudizio – in considerazione della complessità della causa che ha richiesto due consulenze tecniche d’ufficio e dei rinvii per un anno e sei mesi richiesti dalle stesse parti – pervenendo quindi alla conclusione che il ritardo ingiustificato assommava ad anni sei e mesi sei. Il calcolo appare esatto, giacchè detraendo dai 13 anni di durata del primo grado i quattro ritenuti congrui si ha un ritardo di nove anni;

cui vanno aggiunti ulteriori sei mesi per il lieve ritardo in grado d’appello. Dal totale di nove anni e sei mesi la corte ha poi detratto il ritardo dovuto a richieste di rinvio delle parti, accertato in un anno e mesi sei; ed è quindi pervenuta alla corretta conclusione che la violazione del termine ragionevole per l’intero giudizio fino ad allora svoltosi era appunto di anni otto. Il rilievo che la fase di cassazione, in tesi generale, debba durare due anni appare quindi un’obiter dictum di nessun rilievo nell’economia della decisione, non avendo influito, in concreto, sul calcolo.

Con il terzo motivo e quarto motivo, da esaminare congiuntamente per affinità di contenuto, la ricorrente lamenta la violazione di legge nella disapplicazione del consolidato parametro di valutazione in tre anni della durata ragionevole del primo grado di giudizio.

Anche questa censura non ha pregio.

La Corte d’appello di Roma, pur riaffermando in anni tre, in linea di principio, la durata ragionevole del primo grado di giudizio, l’ha poi aumentata di un anno in considerazione della complessità della causa in esame, che aveva richiesto due laboriose consulenze tecniche. Nessuna violazione di legge vizia quindi la decisione, che fa puntuale applicazione dei consolidati canoni valutativi, suscettibili di temperamento in funzione delle particolarità del caso concreto, come più volte enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Con il quinto motivo la ricorrente si duole della detrazione dell’intera durata dei rinvii, nonostante l’abnorme distanza temporale tra le udienze, a lei non imputabile.

Il motivo è infondato.

Le richieste di rinvio sono ascrivibili al comportamento delle parti;

come tali, in nessun modo computabili a titolo di ritardo nello svolgimento del processo. L’intervallo tra un’udienza e l’altra non può essere considerato anomalo solo perchè eccede quanto stabilito dall’art. 81 disp. att. c.p.c.: norma di natura dispositiva, legata ad una situazione storica non più attuale. Pertanto, si può parlare di lunghezza anomala della singola dilazione, rilevante ai fini in esame, solo ove si dimostri che essa ecceda la durata di un ordinario rinvio nonostante l’espressa richiesta della parte interessata, a verbale, di una più sollecita prosecuzione: dovendosi altrimenti presumere che il differimento sia concordato con le parti che ne hanno rivolto istanza, in conformità con le loro esigenze difensive.

Con il sesto motivo, l’ I. deduce l’erroneità della valutazione non complessiva, bensì suddivisa nei vari gradi, del termine ragionevole del processo e l’erroneo computo del ritardo.

Il motivo è inammissibile.

La prima doglianza, relativa al computo unitario o frazionato del termine ragionevole, è irrilevante, data l’indimostrata diversità delle conclusioni cui i due criteri porterebbero. Tale difformità sarebbe infatti ipotizzabile solo nell’eventualità che la corte avesse compensato la maggior durata del primo grado, rispetto al parametro di valutazione assunto (quattro anni), con il più breve iter di un grado successivo. Ma poichè la corte ha ravvisato, nella specie, un ritardo sia nel primo grado di giudizio, sia, seppur più contenuto (sei mesi), nel grado di appello – irrilevanti restando, come detto, i cinque mesi di pendenza del ricorso per Cassazione, non entrati nel calcolo – il risultato finale non cambia e la violazione risulta comunque correttamente accertata in sei anni e sei mesi (detratti un anno e mesi sei di rinvii imputabili alle parti).

In ordine invece al dies ad quem del processo presupposto, si osserva come dalla motivazione non emerga la sua perdurante pendenza alla data del decreto impugnato; nè la ricorrente ha allegato di aver portato a conoscenza della Corte d’appello di Roma tale dato di fatto: con la conseguenza che correttamente il thema decidendum è rimasto cristallizzato alla data di proposizione della domanda di equo indennizzo.

Col settimo motivo si censura la violazione dell’art 112 c.p.c. in ordine al danno da maggiori spese processuali.

Il motivo è infondato.

La ricorrente da per postulato l’aggravio di spese processuali dipendente dalla durata del processo. Tale affermazione non è però suffragata da alcun riscontro in fatto o diritto. A prescindere dal rilievo pregiudiziale e assorbente che tale pretesa presupporrebbe, in astratto, la soccombenza nel processo di cognizione in esame – dato che, in caso contrario, le maggiori spese sarebbero comunque ripetibili (salva la compensazione totale o parziale, neppure allegata nella specie) – si osserva come gli onorari di avvocato non siano affatto dipendenti dalla durata del processo, bensì dal valore della causa e dell’attività difensiva in concreto svolta (escluso il compenso per le udienze di mero rinvio); mentre per i diritti di procuratore, la loro spettanza è sì ragguagliata al numero delle udienze, ma il maggior importo potrebbe acquistare rilevanza nel giudizio di equa riparazione solo se non dipendente da rinvii su richiesta di parte, quali accertati, invece, dalla Corte d’appello di Roma.

E’ invece fondato l’ottavo motivo con cui si censura la decorrenza degli interessi dalla data del decreto, anzichè dalla domanda.

Trattandosi di danno da violazione del termine ragionevole del processo, la pronuncia di accoglimento non ha natura costitutiva, sibbene di accertamento e condanna: onde, gli interessi vanno applicati a partire dalla domanda, salva l’ipotesi, non ricorrente nella specie che essi non siano già stati conglobati nell’indennizzo liquidato. In carenza della necessità di ulteriori accertamenti di fatto si può procedere, previa cassazione sul punto del decreto impugnato, alla decisione nel merito, disponendo che gli interessi decorrano dalla data della domanda.

Passando ora all’esame del ricorso del Ministero della Giustizia, si osserva come i due motivi – da trattare congiuntamente, data l’affinità del contenuto inerente all’estinzione per prescrizione, quanto meno parziale, del credito indennitario – siano infondati.

Punto di partenza delle argomentazioni difensive è il diniego del carattere unitario della fattispecie costitutiva del diritto all’equa riparazione (definita, per contro, dal ricorrente a formazione progressiva). Il fondamento positivo della ricostruzione Interpretativa è ravvisato dal ricorrente nel potere d’agire del soggetto già in pendenza del processo presupposto (L. n. 89 del 2001, art. 4): cui verrebbe ad essere correlato il dies a quo del periodo di prescrizione, coevo al primo verificarsi del ritardo processuale, in base al principio generale di cui all’art. 2935 c.c..

In contrario si osserva come la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4 si atteggi a norma speciale ed autosufficiente: come, già prima facie, rivelato non solo dalla sua collocazione toponomastica, ma anche e soprattutto dalla rubrica “Termini e condizioni di proponibilità”, di portata letterale onnicomprensiva nel delineare i tempi dell’edictio actionis. Il dato letterale (primo elemento da scrutinare in sede ermeneutica: art. 12 disp. att. c.c., comma 1) non offre quindi appigli per il recupero, in forma di richiamo esplicito, della disciplina e del bagaglio concettuale propri della prescrizione.

Resta da saggiare la conclusione negativa di una disciplina ancipite, in subiecta materia, sotto il concorrente profilo teleologico dell’intenzione del legislatore.

Ma anche tale vaglio induce ad escludere qualsiasi evenienza estintiva del diritto anticipata rispetto all’ultimo (e normale) termine utile per la proposizione della domanda di sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento, è divenuta esecutiva.

Al riguardo, si deve rilevare, in sede dogmatica, l’incompatibilità tra la decadenza e la prescrizione se riferite al medesimo atto – nella specie, processuale – da compiere.

La disciplina della decadenza – che è una novità del codice del 1942 – postula, al pari della prescrizione, una combinazione dell’inerzia soggettiva con l’elemento oggettivo del tempo; anche se, secondo un’autorevole dottrina (di cui si rinviene qualche eco in giurisprudenza: Cass., sez. 1, 6 novembre 1976 n. 4043), sanziona l’inadempimento di un onere, piuttosto che di un obbligo, per l’esercizio di un diritto (di regola, potestativo), in base al principio di autoresponsabilità. Il termine decadenziale, in tesi generale, consiste in un punctum temporis da rispettare: fino a che non sia trascorso, neppure si può parlare d’inerzia soggettiva, perchè il tempo, che nella prescrizione viene in considerazione come durata, nella decadenza vale invece come distanza: diversità ontologica, rispecchiata dalla disciplina alternativa in materia di interruzione e sospensione (artt. 2941 – 2945 e 2964 c.c.), che vede ammissibile solo l’impedimento della decadenza una volta per sempre (art. 2966 c.c.). L’utilità euristica della distinzione si rivela altresì nel corollario logico che non è ipotizzabile – per la contraddizione che noi consente – che il soggetto sia, nel contempo, inerte e no, fino alla scadenza del termine di preclusione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4.

Tanto più la coesistenza appare eccentrica al sistema, in quanto la previsione di un termine come causa di decadenza o di prescrizione rientra, come generalmente riconosciuto in dottrina, in un scelta discrezionale del legislatore, immune da condizionamenti di logica giuridica ( non senza ingenerare, talvolta, dubbi esegetici: cfr.

art. 2393 c.c., comma 4); e, mentre la prescrizione costituisce causa generale di estinzione, in virtù dell’art. 2934 c.c., la decadenza è prevista in norme complementari all’interno di singole fattispecie, insuscettibili di interpretazione analogica (art. 14 preleggi).

Pertanto, anche dalla verifica della coerenza sistematica e concettuale si evince, in ultima analisi, l’inammissibilità del concorso simultaneo di termini di decadenza e di prescrizione correlati alla medesima attività richiesta.

Cosa diversa, naturalmente, è la possibile applicazione dei due istituti temporalmente sfalsata: ma solo nel senso che la prescrizione maturi una volta impedita la decadenza, e non viceversa (art. 2967 c.c.). Conferme del principio, nel panorama casistico giurisprudenziale, si riscontrano nella ritenuta applicazione della prescrizione decennale in tema di opposizione all’indennità di espropriazione in caso di mancato decorso del termine di decadenza per l’opposizione, L. 22 novembre 1971, n. 865, ex art. 19), causato dall’omesso deposito della relazione dell’apposita Commissione sulla misura definitiva dell’indennità. In questo caso, la decorrenza della prescrizione è appunto giustificata dal carattere alternativo, e non cumulativo, del termine di decadenza rispetto a quello prescrizionale (Cass., sez. 1, 10 settembre 2004, n. 18.237; Cass., sez. 1, 8 maggio 2001 n. 6367; Cass., sez. 1, 20 dicembre 2000, n. 16.026).

Ancora a titolo analogico si può ricordare, sul formante giurisprudenziale, l’interpretazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 79, comma 2 (c.d. equo canone) e dell’affine L. 9 dicembre 1998, n. 431, art. 13 che sottopongono ad un termine di decadenza semestrale, decorrente dalla riconsegna dell’immobile, il diritto del conduttore ad ottenere il rimborso di quanto pagato in più del dovuto nel corso del rapporto locativo: interpretazione, che ricollega all’osservanza del termine di decadenza la ripetizione integrale di ogni eccedenza indebita, senza che ciò sia impedito dal decorso dei termini di prescrizione (Cass., sez. 3, 26 maggio 2004, n. 10.120).

Sottesa alle predette pronunce, pur nella diversità di materia, è il comune assunto – di buon senso, non meno che di diritto – che il riconoscimento legislativo della proponibilità dell’azione entro un termine di decadenza esclude la maturazione della prescrizione prima del prescritto dies ad quem: a pena d’irrilevanza – tamquam non esset – del termine stesso, pur solennemente enunciato con norma specifica ad hoc. In senso contrario, non si potrebbe addurre, esemplificativamente, la normativa in tema di garanzia da vizi redibitori prevista, in parte qua, negli artt. 1495 e 1667 c.c..

E’ agevole rilevare come le due cause di estinzione del diritto siano quivi ancorate a date e ad inattività diverse: per la decadenza, alla mancata denunzia dei vizi entro il termine legalmente previsto dalla scoperta (art. 1495 c.c., comma 1 e art. 1667 c.c., comma 2);

mentre, per la prescrizione, dalla consegna della cosa o dell’opera (art. 1495 c.c., comma 3 e art. 1667 c.c., comma 3). In tale contesto non collide, quindi, con l’alternatività dei due istituti, l’eventualità di una prescrizione maturata ancor prima del decorso del termine per la decadenza: come ad esempio, per un difetto scoperto e tempestivamente denunziato, ma oltre i termini, rispettivamente di uno o due anni, dalla consegna della cosa venduta o dell’opus realizzato.

Non senza aggiungere che appare visibilmente contrario alla ratio legis imporre l’onere di un’azione immediata, al primo maturarsi del ritardo irragionevole. Innanzitutto, per la difficoltà pratica di accertarne subito la datazione, tenuto conto che i termini ordinari (tre anni per il primo grado, due per l’appello, uno per il ricorso per Cassazione, secondo i consolidati parametri giurisprudenziali) possono subire variazioni in rapporto alla specifica materia del contendere, alla complessità del caso o al comportamento delle parti: variabili tutte, meno agevolmente valutabili in uno stadio interinale, fuori di una visione d’insieme ex post. Per di più, l’incipiente ritardo potrebbe financo essere riassorbito, in prosieguo, per la necessità sopravvenuta di un ulteriore attività istruttoria che muti la valutazione in fieri, rendendo non più lesivo del principio di ragionevole durata l’effettivo iter processuale: eventualmente, per compensazione con la speditezza dei gradi successivi, ove si aderisca ad una concezione unitaria della durata ragionevole del processo (Cass., sez. 1, 29 dicembre 2005 n. 28864; Cass., sez. 1 7 aprile 2004, n. 6856; Cass., sez. 1, 27 agosto 2003 n. 12541).

Oltre a ciò, postulare l’operatività della prescrizione in corso di causa presupposta imporrebbe, fatalmente, il frazionamento della pretesa indennitaria: destinata alla rinnovazione in ipotesi di un ritardo più che decennale. Tanto più, se si acceda al principio di cristallizzazione dell’an e del quantum al momento della domanda di equa riparazione; con conseguente esclusione, dall’indennizzo dell’ulteriore danno maturato fino alla decisione.

Siffatta inevitabile proliferazione di iniziative, per segmenti temporali, intesa non come facoltà rimessa alla discrezionalità potestativa della parte, bensì come onere in prevenzione della perdita del diritto per prescrizione, oltre ad essere contraria al generale principio di economia processuale – e, al limite, integrare perfino un abuso del processo (Cass. sez. un. 15 novembre 2007, n. 23726; Cass., sez. 3, 11 giugno 2008, n. 15476) – avrebbe l’ulteriore effetto paradossale di indurre la parte alla nimia diligentia di agire quando ancora il ritardo sia pressochè trascurabile; e dia quindi luogo, plausibilmente, ad un indennizzo nummo uno, se non addirittura al rigetto della domanda per l’estrema modestia del pregiudizio.

La suesposta ricostruzione sistematica è del resto conforme alla disciplina della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 35 (Condizioni di ricevibilità), comma 1, contempla unicamente l’identico termine semestrale di decadenza per la proposizione dell’azione (“La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, qual è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva”).

E’ vero che non è contestualmente prevista la possibilità di agire prima che sia sopravvenuta la decisione definitiva nel giudizio presupposto; ma, nel consentire tale facoltà l’ordinamento italiano, ha ampliato il diritto di azione del soggetto leso dal ritardo irragionevole – anticipandone il possibile esercizio ad una fase intermedia del processo presupposto – e non certo aggravato l’obbligo di diligenza: come rivelato dall’inequivoca congiunzione disgiuntiva “ovvero” contenuta nell’art. 4 cit., lessicalmente sintomatica di una scelta potestativa tra due opzioni, senza reciproco condizionamento.

Anche la norma transitoria di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 6 nel consentire entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (prorogato poi al 18 aprile 2002 dal D.L. 12 ottobre 2001, n. 370) la prosecuzione dinanzi al giudice italiano dei processi di equa riparazione promossi davanti alla Corte europea e non ancora dichiarati ricevibili, ha posto l’unico requisito temporale della tempestività dei ricorsi originari ( e cioè del rispetto del solo termine, di natura decadenziale, previsto dal citato art. 35 della Convenzione): in tal modo, implicitamente escludendo che la prescrizione, non prevista dalla normativa europea, potesse invece acquisire efficacia estintiva dopo la translatio iudicii. Esclusione, del resto consentanea con il carattere derivato, seppur non ancillare, della tutela introdotta con la c.d. legge Pinto, espressamente ancorata, ex art. 2, comma 1, ai presupposti della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ed alla giurisprudenza interpretativa della Corte di Strasburgo).

Entro questa cornice dogmatica, la pur condivisibile qualificazione meramente processuale della L. n. 89 del 2001, che ha solo assicurato la concreta tutela del preesistente diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. sez. unite 26 gennaio 2004, nn. 1339 – 1341), concorre ad escludere l’ibridazione del modello europeo tramite l’ingresso, ex novo, di una causa estintiva diversa dalla decadenza.

E’ dunque infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero della Giustizia con i motivi in esame.

Il ricorso dev’essere dunque respinto.

La parziale soccombenza reciproca giustifica la compensazione di 2/3 delle spese di giudizio.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso del Ministero della Giustizia;

– accoglie il ricorso di I. nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito, dispone che gli interessi legali sulla somma liquidata decorrano dalla domanda;

condanna il Ministero della giustizia alla rifusione di 1/3 delle spese processuali, frazione liquidata in complessivi Euro 368,00, di cui Euro 334,00 per onorari, oltre le spese generali e gli accessori di legge, da distrarre in favore degli avv. Paolo Pananti e Carmine Aiello, antistatari.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2010

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