Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21659 del 23/08/2019

Cassazione civile sez. II, 23/08/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 23/08/2019), n.21659

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20244-2015 proposto da:

M.G., C.R., M.R., domiciliati in ROMA

presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentati e

difesi dall’avvocato GIOVANNI BATTISTA LUCIANO giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

DUE ESSE SNC, domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione e rappresentata e difesa dall’avvocato LUCIANO MANCA

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 885/2014 del TRIBUNALE di SASSARI, depositata

il 24/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/05/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Sentito il PM, nella persona del Sostituto Procuratore Generale,

Dott. PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Uditi l’avvocato Giovanni Battista Luciano per i ricorrenti e

l’avvocato Luciano Manca per la controricorrente.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. La Due Esse di S.G.A. & C. S.n.c. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Sassari M.P. e C.R., affinchè fosse accertata la legittimità del recesso ex art. 1385 c.c. dal contratto preliminare, con conseguente diritto alla ritenzione della caparra.

Specificava che in data 28/8/1997 aveva concluso con i convenuti un preliminare di compravendita immobiliare relativo ad un seminterrato sito in (OMISSIS), per il prezzo di Euro 55.000.000, con la previsione che il prezzo sarebbe stato versato mensilmente da parte dei promissari acquirenti a partire dal mese di settembre del 1997 sino al saldo, essendo poi dovuti gli interessi al tasso annuo del 10% sulla eventuale rimanenza alla data del 30/12/1998.

Aggiungeva che l’immobile era stato consegnato ai convenuti che però non avevano rispettato i termini di pagamento, avendo quindi indotto l’attrice ad esercitare il diritto di recesso, con la conseguente ritenzione delle somme versate a titolo di caparra confirmatoria.

Si costituivano i convenuti i quali deducevano che il contratto concluso era in realtà un definitivo; anche laddove si fosse trattato di un preliminare non era stato previsto alcun termine per la stipula del definitivo; che la previsione del pagamento degli interessi al tasso, del 10% era nulla per violazione del divieto di anatocismo.

Inoltre aggiungevano che avevano versato sino al dicembre del 2001 la somma di Lire 30.000.000, ma che erano venuti a sapere che l’immobile promesso in. vendita era in realtà stato destinato a cantina, come da variazione catastale intervenuta in epoca successiva alla conclusione del contratto, sicchè si imponeva, in vista dell’adozione della pronuncia costitutiva del trasferimento della proprietà in loro favore, una congrua riduzione del prezzo pattuito.

Il Tribunale adito con la sentenza n. 885 del 23 giugno 2014 accertava la legittimità del recesso esercitato dalla società, con il diritto della stessa a trattenere la caparra per l’importo di Euro 10.329,14; condannava parte convenuta all’immediato rilascio del bene, nonchè al pagamento della somma di Euro 24.120,00 a titolo di indennità di occupazione dell’immobile. Infine condannava l’attrice alla restituzione della somma di Euro 5.164,57 pari alla differenza tra la somma trattenuta a titolo di caparra e la parte di prezzo effettivamente versata.

Il giudice di prime cure, dopo avere qualificato il contratto come preliminare di compravendita ad esecuzione anticipata, avendo la parte attrice concesso anticipatamente il godimento del bene ai promissari acquirenti, riteneva che il versamento del saldo dovesse avvenire entro la data del dicembre del 1998, atteso che a far data da tale momento era stato anche previsto il pagamento degli interessi di mora convenzionalmente determinati.

Poichè i convenuti al dicembre del 2001 avevano versato solo Lire 30.000.000, pari a poco più della metà del prezzo, e che a detta degli stessi convenuti, solo nel 2003 era emerso il mutamento di destinazione d’uso del bene da appartamento a cantina (elemento questo che però era reputato del tutto irrilevante, posto che gli stessi promissari acquirenti erano ben consci sin dalla conclusione del preliminare di avere acquistato un mero seminterrato con altezza minima, e come tale non destinato ad abitazione, uso dei quale non vi era menzione in contratto), doveva ravvisarsi un grave inadempimento dei convenuti, tale da legittimare il recesso ex art. 1385 c.c. da parte della società.

Quest’ultima aveva quindi il diritto a trattenere la parte di prezzo versata a titolo di caparra, e quindi sino alla concorrenza di Lire 20.000.000.

Dall’esercizio del recesso scaturiva altresì che i convenuti erano tenuti all’immediato rilascio del bene promesso in vendita, essendo altresì tenuti al versamento di un’indennità mensile per il godimento del bene protrattosi dalla data del preliminare sino a quella della pronuncia, potendosi tale indennità quantificare nella somma di Euro 120,00 mensili, tenuto conto delle caratteristiche del bene e delle risultanze istruttorie emerse in cause aventi simile contenuto ed intentate dinanzi allo stesso Tribunale.

Infine era disposta la restituzione in favore dei convenuti della parte di prezzo già versata, che però eccedeva l’importo trattenuto da parte dell’attrice ex art. 1385 c.c.

La Corte d’Appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari, con ordinanza del 29 maggio 2015 dichiarava inammissibile ex art. 348 ter c.p.c. l’appello proposto dalla C. e da M.R. e M.G., quali eredi di M.P. deceduto nel corso del giudizio di primo grado, ritenendo che l’impugnazione non avesse una ragionevole probabilità di accoglimento.

2. Per la cassazione della sentenza del Tribunale hanno proposto ricorso C.R., M.R. e M.G. sulla base di tredici motivi.

La società intimata ha resistito con controricorso.

I ricorrenti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1183,1218,1219,1282,1362,1363,1385 e 1455 c.c. nella parte in cui il Tribunale ha affermato che vi fosse un inadempimento grave da parte dei ricorrenti, individuando come limite temporale per il versamento del saldo quello del dicembre del 1998, data a partire dalla quale sarebbero stati dovuti gli interessi di mora al tasso annuo del 10%.

In realtà non era stato fissato alcun termine per il pagamento del saldo che doveva avvenire al momento della stipula del definitivo.

Ne deriva che la società avrebbe dovuto chiedere la fissazione del termine per il pagamento ex art. 1183 c.c., dovendosi escludere quindi che i promissari acquirenti fossero in mora attesa anche l’assenza di un atto di costituzione in mora.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1183,1372,1385,1455 e 1498 c.c., sempre in relazione all’individuazione del dicembre 1998 come data entro la quale effettuare il saldo del prezzo, omettendo di considerare che in realtà tale saldo doveva essere contestuale alla stipula del definitivo per la quale non era stata indicata una data.

Emerge peraltro che i ricorrenti avevano invitato anche nel 2003 la società alla conclusione dell’atto di trasferimento della proprietà, ma senza però esito, avendo quindi ribadito la loro disponibilità a versare il saldo pattuito.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione sono infondati.

Va in primo luogo rilevato che i motivi difettano di specificità nella. parte in cui, pur lamentando con il richiamo agli artt. 1362 e 1363 c.c. l’erronea interpretazione della volontà delle parti ad opera del giudice di merito, omettono, in violazione di quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 di riportare il contenuto dell’accordo preliminare intervenuto tra le parti, quanto meno nelle parti che appaiono direttamente interessate dalla proposizione del ricorso.

Tuttavia, anche a voler attenersi a quanto succintamente e frammentariamente riportato nel ricorso e nella sentenza gravata, le censure formulate non appaiono meritevoli di accoglimento.

Risulta, infatti, pacifico che nel contratto preliminare (dovendosi ritenere non più in discussione la qualificazione giuridica dell’accordo intervenuto tra le parti come offerta da parte del giudice di primo grado) del 28/8/1997, nel fissarsi il prezzo della compravendita nell’ammontare di Lire 55.000.000, si contemplava (verosimilmente in ragione della disponibilità anticipata del bene concessa ai promissari acquirenti) che i convenuti avrebbero provveduto a versare il corrispettivo in rate mensili (di non meglio determinato importo) a far data dal settembre 1997, aggiungendosi poi che a partire dal dicembre 1998, ove fosse residuata ancora una parte del prezzo insoluta, sulla somma residua sarebbero stati corrisposti gli interessi al tasso del 10%.

In punto di fatto è stato accertato che i coniugi M. – C. hanno sì versato alcune somme in epoca successiva alla conclusione del preliminare, ma che tali versamenti si sono arrestati al mese di dicembre del 2001, avendo in tal modo corrisposto la somma complessiva di Lire 30.000.000.

Il Tribunale ha ritenuto che la volontà delle parti dovesse essere rettamente intesa nel senso che il versamento integrale del prezzo sarebbe dovuto avvenire alla data del 31 dicembre 1998, conclusione questa avversata dai ricorrenti che viceversa sostengono che il saldo doveva essere contestuale alla stipula del definitivo.

Ritiene il Collegio che, come peraltro rilevato anche dalla Corte d’Appello nell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., effettivamente non possa condividersi il ragionamento formulato sul punto dal Tribunale, ma che la conclusione in punto di inadempimento grave e prevalente (o meglio esclusivo) dei convenuti debba essere confermata, sebbene sulla scorta di un iter argomentativo diverso da quello seguito dal Tribunale.

In effetti, coglie nel segno la critica dei ricorrenti i quali evidenziano come la previsione riguardante la data del 31 dicembre 1998 (a partire dalla quale, come anticipato, sarebbe scattato l’obbligo di corrispondere sul prezzo ancora insoluto gli interessi al tasso del 10%), sganciata da un collegamento della stessa al momento della stipula del definitivo, non consenta di ritenere che il prezzo dovesse essere integralmente corrisposto a tale data. In tal senso depone la stessa pattuizione in tema di interessi moratori che, verosimilmente al fine di indurre i promissari acquirenti a corrispondere somme di rilevante entità nell’imminenza della conclusione del preliminare, riconosceva che al 31 dicembre 1998 ben potesse non essere stato versato integralmente il prezzo.

Ma una volta escluso che l’obbligazione dei promissari acquirenti dovesse essere integralmente adempiuta – entro tale data, ciò non comporta anche che, come invece sostenuto dai ricorrenti, possa ritenersi giustificato l’omesso versamento di ulteriori somme in conto prezzo protrattosi per il periodo di tempo successivo alla data cui risale l’ultimo versamento del 20/12/2001, e sino alla data di introduzione del giudizio.

In senso contrario a tale prospettazione difensiva depone lo stesso contenuto del contratto nella parte in cui, ancorchè senza una precisa determinazione degli importi dovuti, imponeva ai promissari acquirenti il versamento di somme mensili in conto prezzo (potendosi intendere tale obbligo come volto in parte a compensare il vantaggio offerto dalla consegna anticipata del bene), obbligazione questa che verrebbe di fatto ad essere del tutto elisa seguendo la diversa interpretazione del contratto sostenuta dai ricorrenti, e ciò in evidente violazione anche dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1363 e 1367 c.c., posto che a sostenere che era giustificata dal contratto anche la cessazione dei versamenti mensili, verrebbe ad essere resa priva di efficacia la specifica pattuizione contrattuale che connotava le modalità di versamento del prezzo.

La previsione degli interessi moratori fungeva da strumento volto ad incentivare i versamenti mensili in misura idonea a scongiurare il maggior onere derivante dal pagamento degli interessi sulla sorte capitale ancora insoluta, ma non può spingersi sino ad elidere l’obbligo specificamente assunto da parte dei promissari acquirenti.

Deve quindi ritenersi che, ancorchè il saldo del corrispettivo dovesse avvenire contestualmente alla stipula del definitivo, tuttavia il protratto inadempimento dei ricorrenti all’obbligo loro gravante di procedere ai versamenti mensili costituisce inadempimento,òdelle obbligazioni – reciprocamente assunte, da ritenersi obiettivamente grave, ed idoneo come tale a legittimare il recesso della società, stante anche, come si avrà modo di evidenziare nella disamina dei successivi motivi di ricorso, l’assenza di un contrapposto inadempimento della promittente venditrice.

Va, infatti, ribadito il principio, una volta riaffermata l’esistenza di un’obbligazione di pagamento di rate mensili, secondo cui (Cass. n. 15796/2009), la mancata previsione di un termine entro il quale la prestazione debba essere consensualmente eseguita autorizza il creditore ad esigerla immediatamente, ma ciò non gli impone l’obbligo di costituire in mora la controparte ex art. 1454 c.c. e quindi di far ricorso al giudice a norma e per gli effetti di cui all’art. 1183 c.c.

In relazione agli usi, alla natura del rapporto negoziale ed all’interesse delle parti, infatti, può essere sufficiente che sia decorso un congruo spazio di tempo dalla conclusione del contratto, per cui possa ritenersi in concreto superato ogni limite di normale tolleranza, secondo la valutazione del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e congruamente motivata (conf. Cass. n. 19414/2010).

Inoltre, ancorchè non fosse prevista una data per la stipula del definitivo (alla quale si correlava l’obbligo di pagamento del prezzo, sebbene ne fosse obbligatorio il versamento con versamenti frazionati nel tempo e con decorrenza dalla stessa stipula del preliminare), deve reputarsi del pari incensurabile la valutazione espressa anche dal giudice di primo grado che ha ritenuto che non fosse più tollerabile l’inerzia dei promissari acquirenti che, alla data di introduzione del giudizio, avevano cessato di effettuare versamenti da ben otto anni, adducendo solo nel 2003 (allorquando quindi erano già venuti meno i versamenti mensili da un tempo non trascurabile) un preteso inadempimento della controparte, inadempimento che lo stesso giudice di merito ha ritenuto insussistente.

Nè infine appare utile invocare da parte dei ricorrenti il tenore della missiva dell’11 marzo 2003, la quale denoterebbe l’intento degli stessi di procedere alla conclusione del definitivo, posto che a tale missiva la società ebbe a rispondere fissando la data per la stipula del definitivo con invito al versamento del saldo dovuto, inviti entrambi rimasti senza seguito, emergendo dalla stessa lettura del ricorso (cfr. pag. 21) che era specifica intenzione dei ricorrenti quella di addivenire alla stipula del definitivo, ma con il versamento di una somma inferiore rispetto a quella concordata, sul presupposto che la società fosse rimasta inadempiente alle proprie obbligazioni, avendo realizzato un’illegittima mutazione della destinazione del bene promesso in vendita.

Quella però dell’inadempimento della società rappresenta una tesi difensiva che è stata smentita dai giudici di merito, residuando pertanto il solo inadempimento dei ricorrenti, anche a seguito dell’invito della società a concludere l’atto traslativo della proprietà, previo adempimento della residua obbligazione gravante sui convenuti.

4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1489,1385,1362,1363 e 1366 c.c.

Assume la difesa dei ricorrenti che erroneamente il giudice di prime cure ha escluso che sussistesse l’inadempimento della società venditrice, minimizzando la rilevanza del mutamento di destinazione d’uso del bene, effettuata abusivamente dalla società all’insaputa dei promissari acquirenti.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Rileva il Collegio che la sentenza impugnata, oltre ad evidenziare che cronologicamente la scoperta del preteso inadempimento della società sarebbe intervenuta solo nel 2003, allorquando già dal dicembre del 2001 si era manifestato l’inadempimento dei convenuti all’obbligo di versamento (non già del saldo) ma delle rate mensili previste in contratto, con accertamento in fatto, non suscettibile di sindacato in questa sede (attesa anche l’impossibilità di dedurre vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, stante l’applicabilità della previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c.) ha altresì evidenziato che le caratteristiche oggettive del bene (che ne precludevano un utilizzo legittimo a fini abitativi) erano ben presenti agli acquirenti sin dalla data della conclusione del preliminare nel quale il bene era definito come seminterrato e non consentivano di nutrire alcuna legittima aspettativa circa il fatto che l’acquisto avesse ad oggetto un bene suscettibile di conseguire le certificazioni d’abitabilità (e ciò a prescindere poi dall’uso che in concreto ne veniva fatto). In tale ottica deve quindi ritenersi che il richiamo alle caratteristiche oggettive del bene, perfettamente note ai promissari acquirenti escluda la possibilità di addurre come forma di inadempimento della promittente venditrice il mutamento della classificazione catastale del bene da seminterrato a cantina.

La critica sollevata dai ricorrenti, anche in tal caso non sviluppata con la puntuale riproduzione in ricorso del testo dell’accordo preliminare, mira a contrastare quella che è stata l’interpretazione della volontà delle parti offerta dal giudice di merito che ha valorizzato, rispetto alla descrizione del bene, quanto al suo sviluppo interno, il chiaro ed univoco riferimento alla vendita di un locale seminterrato, evidentemente privo dei requisiti legali prescritti per la sua utilizzazione ad abitazione (ben potendosi quindi ritenere che il richiamo alla presenza di-locali aventi destinazione abitativa rispondesse a quello che era l’intento delle parti di servirsi del bene comunque come abitazione, sebbene ne mancassero i requisiti di legge, ma senza che ciò determini di per sè l’inadempimento da. parte del venditore che aveva sottolineato in contratto la reale natura dell’immobile).

Trattasi anche questa di censura che non può avere seguito in sede di legittimità, essendo l’esegesi del contratto riservata esclusivamente al giudice di merito e suscettibile di critica non già quando si sostenga che una diversa interpretazione sia preferibile, ma solo laddove emerga l’assoluta ed incontrastata implausibilità della prima, stante il manifesto contrasto con le regole di ermeneutica legale (che i ricorrenti nemmeno specificano in che modo avrebbero dovuto influire sula correttezza dell’esito interpretativo raggiunto dal giudice di primo grado).

In definitiva, alla luce degli accertamenti in fatto operati dal Tribunale (e di fatto condivisi dalla Corte d’Appello che è pervenuta alla declaratoria di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c.) deve escludersi che del bene promesso in vendita fosse stata garantita anche la destinazione abitativa, risultando quindi correttamente invocabile il principio secondo cui (cfr. Cass. n. 25427/2013) in tema di contratto preliminare, l’eccezione di inadempimento basata sulla mancanza del certificato di abitabilità dell’immobile o della presenza di difformità edilizie sanabili non può essere proposta qualora risulti che il promissario acquirente era a conoscenza di tale situazione, dovendo reputarsi che fosse ben nota ai promissari acquirenti l’inidoneità del bene a ricevere un’utilizzazione a fini abitativi (il che rende quindi del tutto ininfluente anche la successiva variazione di qualificazione catastale).

5. Il quarto motivo di ricorso lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 costituito dall’intervenuta variazione catastale che ha portato l’immobile da abitazione a cantina.

Il motivo è inammissibile ex art. 348 ter c.p.c., comma 4, attesa la pronunzia di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c. Nè parte ricorrente, al fine di sfuggire a tale conseguenza, ha specificamente individuato le ragioni in base alle quali la declaratoria di inammissibilità si fonderebbe su ragioni, inerenti alle questioni di fatto, diverse da quelle poste a base della decisione di prime cure, il che preclude la deducibilità del vizio di cui al mezzo in esame (e ciò anche a voler soprassedere circa il rilievo secondo cui il fatto di cui sarebbe stata omessa la disamina, e cioè l’intervenuta variazione catastale, è stato espressamente delibato dal Tribunale, senza che il giudice di appello abbia dissentito da tale valutazione).

6. Il quinto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 1385 c.c. laddove il giudice di primo grado ha omesso di considerare come il mancato pagamento delle rate mensili fosse giustificato quale sospensione dell’adempimento ex art. 1460 c.c., in conseguenza del mutamento della destinazione del bene operata da parte della società attrice.

A tal fine si richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 16216/2008) la consegna del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sè condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto, così che laddove il costruttore non abbia ancora ottenuto il certificato di abitabilità, deve ritenersi. giustificata la sospensione – da parte del promittente acquirente – del pagamento dei ratei di mutuo, quale legittimo esercizio della facoltà di autotutela di cui all’art. 1460 c.c.

Il motivo è infondato.

La tesi dei ricorrenti parte dal presupposto, rivelatosi privo di fondamento alla luce di quanto esposto in occasione della disamina del terzo motivo di ricorso, che la variazione catastale posta in essere dalla promittente venditrice costituisse un inadempimento agli obblighi scaturenti dal preliminare.

Il riscontro in fatto, con valutazione non censurabile, operato dal giudice di merito circa la mancanza di un impegno della società a garantire la destinazione abitativa del bene, denota quindi l’insussistenza del preteso inadempimento della controricorrente ed esclude quindi in radice che possa essere invocato l’istituto di cui all’art. 1460 c.c.

Va, infatti, ricordato che secondo questa Corte (cfr. Cass. n. 22626/2016) il giudice ove venga proposta dalla parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum” deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui, qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi cheòil rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., comma 2, (conf. Cass. n. 8880/2000), il che denota come sia altrettanto ingiustificato il rifiuto di adempiere argomentato con il richiamo all’art. 1460 c.c., ove in realtà manchi l’inadempimento della controparte, come appunto verificato nel caso in esame.

7. Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1385 e 1455 c.c. laddove, al fine di ritenere legittimo il recesso operato da parte della società, ha ritenuto grave l’inadempimento dei ricorrenti, che pur avevano versato una cospicua somma successivamente alla conclusione del preliminare.

Il motivo è infondato.

La censura, oltre a riproporre, sul diverso piano non più dell’eccezione di inadempimento, ma come fattore idoneo ad influire sul giudizio di gravità del proprio inadempimento, la questione della variazione catastale del bene operata dalla società, di cui già si è avuto modo di discorrere in occasione della disamina dei motivi che precedono, mira nella sostanza a contestare un apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito.

Infatti, questa Corte ha avuto modo di ribadire che (cfr. Cass. n. 6401/2015), la valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, ai sensi dell’art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, risultando insindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (conf. Cass. n. 14974/2006), conclusione questa che appare ulteriormente rafforzata alla luce della novella di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che ormai preclude la denuncia del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, essendo altresì preclusa nella fattispecie, ai sensi del più volte richiamato art. 348 ter c.p.c., la deducibilità del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1.

8. Il settimo motivo lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. con la conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 2932 c.c.

Si deduce che i ricorrenti avevano proposto domanda riconvenzionale volta all’adozione della sentenza costitutiva del trasferimento della proprietà in esecuzione del preliminare inadempiuto, domanda sulla quale il Tribunale ha omesso di pronunciarsi.

Il motivo è evidentemente privo di fondamento, come peraltro appare ben presente alla stessa parte ricorrente che in un passaggio della propria difesa evidenzia come l’accoglimento della domanda di recesso non possa che imporre il rigetto della riconvenzionale de qua.

L’accertamento circa l’avvenuto esercizio del diritto di recedere dal contratto ad opera della parte adempiente che produce effetti risolutivi e con efficacia ex nunc sul contratto impone di ritenere che ormai sia venuta meno anche l’obbligazione posta a fondamento della domanda ex art. 2932 c.c. avanzata in via riconvenzionale, senza che possa addursi alcuna censura in relazione alla previsione di cui all’art. 112 c.p.c.

Di tanto appare peraltro cosciente anche la difesa dei ricorrenti che in realtà sostiene la necessità della pronuncia costitutiva, ma sul presupposto, rivelatosi però infondato, dell’assenza di un proprio inadempimento e della carenza quindi dei requisiti di legittimità del recesso esercitato dalla controparte.

9. L’ottavo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonchè dell’art. 1383 e 1421 c.c., quanto all’eccezione di nullità sollevata dai ricorrenti in ordine alla clausola che prevedeva il pagamento degli interessi moratori al tasso annuo del 10 % sul residuo prezzo ancora da versare alla data del 31/12/1998, atteso il contrasto con la norma di cui all’art. 1283 c.c.

Il motivo è inammissibile per evidente difetto di interesse alla declaratoria di nullità della clausola in esame.

Ed, invero, in disparte la più che dubbia riconducibilità della previsione contrattuale nel divieto di cui all’art. 1283 c.c., avendo le parti previsto che gli interessi di mora dovessero essere calcolati non già su somme maturate a titolo di interessi, ma sul capitale residuo ancora dovuto, la sentenza di merito si è limitata ad accertare semplicemente la legittimità del recesso esercitato dalla società, legittimandola quindi alla ritenzione della caparra confirmatoria versata.

Alcuna condanna all’adempimento delle altre obbligazioni inadempiute scaturenti dal contratto è stata adottata, quali ad esempio quella relativa alla debenza degli interessi sul prezzo ancora non versato, essendo quindi del tutto irrilevante ai fini delle concrete statuizioni adottate dal giudice di merito verificare se la clausola de qua fosse o meno affetta da invalidità.

10. Il nono motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366,1351,1803 e 1813 c.c., quanto all’accoglimento della domanda di pagamento di un’indennità di occupazione per il godimento del bene da parte dei ricorrenti.

In realtà le parti avevano concluso un preliminare ad effetti antipati che aveva permesso ai ricorrenti, per effetto di un collegato contratto di comodato a titolo gratuito (cfr. Cass. S.U. n. 7930/2008), di poter detenere il bene.

Per quanto invece riguarda il versamento delle rate del prezzo, la giustificazione causale deve ravvisarsi in un collegato contratto di mutuo gratuito, e ciò quantomeno per le somme versate successivamente al raggiungimento dell’importo di Euro 20.000.000, che le parti avevano individuato come caparra confirmatoria.

La sentenza gravata ha invece erroneamente qualificato il contratto come preliminare puro.

Il decimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1803,1809,2043,1358,1458,1362,1363,1366 e 1351 c.c..

Si rileva che una volta inquadrata la fattispecie come ipotesi di preliminare ed effetti anticipati, i ricorrenti per effetto del collegato contratto di comodato vantavano un titolo per la detenzione a titolo gratuito del bene, e ciò sino alla stipula del definitivo.

Ne consegue che la sentenza gravata non poteva condannare i ricorrenti al pagamento di un’indennità di occupazione sine titulo, essendo il loro godimento legittimato dal richiamato comodato.

L’undicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2056,1223,1226 e 1227 c.c.nella parte in cui, nel determinare l’indennità mensile dovuta a titolo di occupazione del bene ha fatto riferimento alle caratteristiche abitative dell’immobile, pur avendo in precedenza ritenuto che in realtà i convenuti erano consapevoli di acquistare un semplice seminterrato.

Il dodicesimo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. laddove ha fatto decorrere l’obbligo del pagamento dell’indennità a far data dal settembre 1997, trascurando che la detenzione era avvenuta in buona fede ed in virtù di un titolo legittimo rappresentato dal contratto di comodato, sicchè tale obbligazione poteva al più retroagire alla data della domanda.

II tredicesimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1385,1455,2033 e 2041 c.c. nella parte in cui il Tribunale ha accolto la riconvenzionale di ripetizione dell’indebito formulata dai ricorrenti solo per la parte che eccedeva la somma costituente la caparra confirmatoria, e ciò sul presupposto dell’illegittimità della domanda di recesso della controparte.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

In disparte la considerazione che il tredicesimo motivo risulta chiaramente formulato per l’ipotesi in cui si rivelassero fondati i motivi volti a contestare la legittimità del recesso della società dal preliminare, conclusione questa che appare smentita alla luce della disamina dei motivi che precedono, deve ritenersi che la decisione gravata abbia fatto puntuale applicazione della giurisprudenza di questa Corte in tema di risoluzione del contratto preliminare ad esecuzione anticipata.

Infatti, anche ove si reputi che la sentenza del Tribunale non faccia esplicito riferimento a tale fattispecie di preliminare, risulta evidente come la soluzione circa gli effetti scaturenti dall’intervenuta perdita di efficacia del contratto, sia avvenuta in conformità con i precedenti di questa Corte.

In tal senso deve ricordarsi che (Cass. n. 18266/2011) il recesso previsto dall’art. 1385 c.c., comma 2 presupponendo l’inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell’inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale, configura uno strumento speciale di risoluzione di diritto del contratto, da affiancare a quelle di cui agli artt. 1454,1456 e 1457 c.c., collegato alla pattuizione di una caparra confirmatoria, intesa come determinazione convenzionale del danno risarcibile. Al fenomeno risolutivo, infatti, lo collegano sia i presupposti, rappresentati dall’inadempimento dell’altro contraente, che deve essere gravemente colpevole e di non scarsa importanza, sia le conseguenze, ravvisabili nella caducazione “ex tunc” degli effetti del contratto.

Da tale affermazione, che appunto conferma la piana assimilazione quoad effectum tra recesso ex art. 1385 c.c. e risoluzione, deriva come corollario che (Cass. n. 9367/2012) il promittente venditore ha diritto non solo a recedere dal contratto ed ad incamerare la caparra, ma anche ad ottenere dal promissario acquirente inadempiente il pagamento dell’indennità di occupazione dalla data di immissione dello stesso nella detenzione del bene sino al momento della restituzione, attesa l’efficacia retroattiva del recesso tra le parti (conf. Cass. n. 19403/2016).

Il venir meno con efficacia ex tunc del preliminare travolge anche il contratto di comodato collegato e rende priva di giustificazione la detenzione del bene ab initio, risultando quindi incensurabile la retrodatazione dell’obbligo indennitario a far data dall’immissione in possesso.

Nè appare censurabile la decisione in punto di determinazione del quantum dell’indennità, avendo la sentenza fatto riferimento, nell’esercizio del potere discrezionale di liquidazione del danno in via equitativa, a quanto accertato in precedenza in analoghe vicende, ed avuto riguardo a quello che era l’utilizzo in via di fatto del bene, sebbene non corrispondente alla sua caratteristica intrinseca di seminterrato, che era comunque ben nota alla parte promissaria acquirente.

10. Atteso il rigetto del ricorso, le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

1.1. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente. al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2019

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