Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21611 del 28/07/2021

Cassazione civile sez. II, 28/07/2021, (ud. 18/03/2021, dep. 28/07/2021), n.21611

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13422-2016 proposto da:

M.A., D.M.C., P.F.,

P.C., P.P., elettivamente domiciliati in ROMA,

CIRCONVALLAZIONE OSTIENSE N 323, presso lo studio dell’avvocato

ALESSANDRA GUARNACCIA, rappresentati e difesi dall’avvocato ULRICO

FEDELE, nonché dall’avvocato GIUSEPPE NERI, quanto ai ricorrenti

P.;

– ricorrenti –

contro

F.D., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 336/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 23/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/03/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. F.D., + ALTRI OMESSI impugnavano dinanzi alla Corte d’Appello di Reggio Calabria la sentenza del Tribunale di Reggio Calabria n. 56/2005, che aveva accolto nei loro confronti la domanda avanzata da M.A., D.M.C., P.F. e B.R. con la condanna a cessare immediatamente dalla turbativa del possesso dell’accesso carrabile dei ricorrenti sulla stradella posta in corrispondenza degli immobili delle parti in causa.

La Corte d’Appello adita, nella resistenza degli appellati, ha accolto il gravame e per l’effetto ha rigettato la domanda di manutenzione avanzata in prime cure.

Il motivo di appello era volto a contestare anche la correttezza della valutazione delle prove operata dal giudice di primo grado, denotando come la decisione impugnata si fondava solo sugli esiti di una prova testimoniale.

Inoltre, si ricordava che gli appellanti erano comproprietari per una quota di un terzo della stradella oggetto di causa, aggiungendosi che le risultanze della consulenza di parte evidenziavano che era possibile il passaggio pedonale e veicolare nonostante la sosta di autovetture sui lati della stradella.

La sentenza d’appello rilevava che la domanda attorea si fondava sul fatto che i ricorrenti, unitamente ai coniugi R. – V. (che avevano successivamente alienato la propria quota ai danti causa dei convenuti), avevano acquistato un appezzamento di terreno sito in località (OMISSIS), adibito per la parte lasciata in comunione, a seguito di una divisione, a strada di accesso alle rispettive abitazioni per il passaggio sia pedonale che carrabile.

I coniugi R. – V. avevano alienato il loro fondo a Ba.Do. ed a Ba.Pi., trasferendo a quest’ultimo la quota indivisa della stradella, e questi aveva costruito un edificio sulla porzione di sua proprietà esclusiva composto da dieci appartamenti, poi alienati ai resistenti.

Assumevano gli attori che, a far data dal mese di novembre del 2001, i convenuti avevano iniziato a parcheggiare le auto lungo la stradella impedendo in tal modo il libero accesso alle abitazioni dei ricorrenti, che quindi avevano agito per la manutenzione del loro possesso.

Secondo i giudici di appello l’impugnazione era fondata.

Nella specie non era chiaro dal contenuto della domanda quale fosse la situazione possessoria a tutela della quale si agiva, in quanto non era stato specificato in ricorso quali fossero gli accessi carrabili il cui possesso sarebbe stato leso per effetto delle condotte indicate.

Inoltre, non si individuavano con esattezza i soggetti autori delle condotte denunciate, senza che tali incertezze potessero reputarsi superate per effetto dell’istruttoria svolta.

La sentenza procedeva, quindi, ad una disamina delle varie emergenze probatorie sia raccolte nella fase sommaria che in quella a cognizione piena, e riteneva che non fosse stato adeguatamente dimostrato che i ricorrenti avessero una situazione assimilabile al diritto di accesso carrabile sino alle rispettive abitazioni.

Ne’ era stato dimostrato che la situazione di disordine nel parcheggio lungo il viale fosse ascrivibile specificamente ai resistenti.

Anzi, emergeva che tale situazione era da attribuire alla decisione di Ba.Do. di creare una sporgenza in cemento su una parte della strada, che aveva impedito il parcheggio in questa zona, con evidenti ricadute nella sosta della restante parte della strada.

Mancava quindi la prova di un possesso ultrannuale a favore dei ricorrenti, non essendo stato nemmeno dimostrato ove fossero esattamente ubicate le abitazioni il cui accesso carrabile si intendeva tutelare.

Era invece emerso che lungo la strada si era sempre parcheggiato, sia a destra che a sinistra, da parte sia dei condomini dello stabile edificato dal Ba. che da parte dei ricorrenti, con il benestare tacito di tutti, e che lo stato di cose era mutato solo per effetto del manufatto costruito lungo la strada da Ba.Do., nei cui confronti il Tribunale aveva accolto la domanda di condanna alla rimozione dell’opera avanzata dai convenuti, senza che tale statuizione fosse stata oggetto di autonoma impugnazione.

La debolezza del quadro probatorio offerto dai ricorrenti trovava poi conforto nelle risultanze della consulenza tecnica di parte appellante che deponeva per la possibilità di parcheggiare lungo entrambi i lati della strada per un primo tratto e per il fatto che nel secondo tratto le difficoltà di passaggio erano effettivamente da ricondurre all’anomala costruzione del Ba..

Per l’effetto la domanda degli attori doveva essere rigettata.

Per la cassazione di tale sentenza propongono M.A., D.M.C., P.F., P.C. e P.P. (e precisamente P.F. anche in proprio e tutti gli ultimi tre quali eredi di B.R.), sulla base di quattro motivi.

Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione degli artt. 83,301 e 302 c.p.c., con la conseguente nullità della sentenza per la mancata interruzione del processo di appello. Si evidenzia che l’avv. Antonino Borgese, procuratore costituito degli appellanti, era stato cancellato dall’albo in data 14 dicembre 2009 e quindi nel corso del processo di appello.

La giurisprudenza annette a tale evento l’effetto di determinare l’interruzione del processo, che si verifica peraltro in maniera automatica, con la conseguenza che, non essendosi proceduto all’interruzione, ne scaturisce la nullità di tutti gli atti successivi al verificarsi della fattispecie interruttiva, ivi inclusa anche la sentenza gravata.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha di recente ribadito che (Cass. n. 21359/2020) la cancellazione volontaria del difensore dall’albo degli avvocati, ancorché avvenuta, come nella specie, dopo la notifica della citazione in appello, comporta la perdita dello “status” di avvocato e procuratore legalmente esercente, così integrando una causa di interruzione del processo. Ne consegue la nullità degli atti successivi e della sentenza eventualmente pronunciata, che può essere dedotta e provata in sede di legittimità mediante la produzione dei documenti necessari, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., solo dalla parte colpita dal detto evento, a tutela della quale sono poste le norme che disciplinano l’interruzione, non potendo questa essere rilevata d’ufficio dal giudice né eccepita dalla controparte.

L’assenza di censura in merito alla mancata interruzione del processo da parte dei soggetti assistiti in appello dall’avv. Borgese, di cui si segnala la cancellazione, comporta che quindi non possa pervenirsi al rilievo della nullità degli atti posti in essere in data successiva al verificarsi dell’evento interruttivo (in senso conforme Cass. n. 1574/2020; Cass. n. 25234/2010, quanto all’evento morte del difensore).

3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. per non avere valutato la Corte d’Appello la difesa degli appellati ed acquisito acriticamente quanto erroneamente ed infondatamente sostenuto dagli appellanti e per avere omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio con riferimento alla proprietà della stradella oggetto di causa. Il tutto con motivazione erronea, insufficiente e contraddittoria.

Si sostiene che in realtà il contenuto della domanda era chiaro, anche per quanto concerneva l’individuazione dei pretesi atti di turbativa del possesso.

In particolare, si contesta l’affermazione del giudice di appello circa la comproprietà in capo ai convenuti della stradella, in assenza di adeguata prova di tale assunto.

Inoltre, non è stato considerato il tenore dell’atto integrativo e di rettifica del notaio C. del 4 giugno 2003, che a distanza di circa venti anni dalla conclusione dell’atto di vendita in favore di F.D. e della moglie, precisava che il trasferimento aveva avuto ad oggetto non solo la proprietà dell’appartamento, ma anche la quota di 2/60 della stradella.

Deve, invece, reputarsi che tutte le unità immobiliari ubicate nello stabile edificato dal Ba. siano state vendute senza ricomprendere anche i diritti sulla strada, sicché non può in alcun modo affermarsi che i resistenti fossero comproprietari per un terzo del bene in esame.

Il motivo è inammissibile.

In primo luogo, in violazione del principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, si fa riferimento ad una serie di atti, tra i quali anche l’atto di rettifica più volte richiamato nel mezzo di impugnazione, senza però provvedere alla sua compiuta localizzazione, mancando la puntuale individuazione della fase in cui tale atto è stato introdotto nel corso del processo, dell’indicazione della che li ha prodotti e dove gli stessi siano attualmente reperibili all’interno delle produzioni di parte.

Del pari inammissibile, in quanto idonea a concretare una questione nuova è la contestazione in ordine all’efficacia effettivamente traslativa dell’atto di rettifica, in correlazione con l’acquisto del 1984 effettuato dall’intimato F., quanto ad una quota della stradella, posto che della stessa non se ne rinviene traccia nella lettura della sentenza ed avendo la parte ricorrente omesso di specificare ove la questione stessa sia stata posta nelle precedenti fasi di merito.

La censura poi non si confronta con l’effettivo contenuto della sentenza.

La Corte d’Appello si è semplicemente limitata a riportare il contenuto delle affermazioni degli appellanti, che appunto deducevano di essere comproprietari della stradella, senza che tale affermazione sia stata effettivamente ritenuta fondata.

A pag. 4 della sentenza gravata, la ricostruzione della proprietà della stradella è riportata come argomento difensivo degli appellanti, ma non come frutto di un convincimento radicato nel giudice di appello.

L’accoglimento del gravame, come poi si ricava dalla lettura delle motivazioni, in realtà si fonda non già sul riconoscimento della comproprietà della stradella, ma, avuto riguardo specificamente alla natura possessoria del giudizio intentato dai ricorrenti, alla valutazione del complessivo materiale probatorio che non permetteva, secondo l’apprezzamento in fatto operato dal giudice di merito, di ritenere dimostrata una situazione meritevole di tutela in capo ai ricorrenti (anche in ragione della genericità delle loro allegazioni) e non consentiva di attribuire le molestie possessorie lamentate nell’atto introduttivo del giudizio specificamente alla condotta dei convenuti.

Deve quindi escludersi che la ricostruzione del regime proprietario della strada sia un fatto decisivo per il giudizio, e ciò proprio in considerazione della natura possessoria della controversia che attiene alla tutela della situazione di fatto vantata dai ricorrenti, e ritenuta non sussistente all’esito della complessiva ed articolata ricostruzione delle risultanze probatorie, come operata in maniera logica e coerente dal giudice di appello.

4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione ed erronea e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. per non avere valutato la Corte di appello la difesa degli appellati ed acquisito acriticamente quanto erroneamente ed infondatamente sostenuto dagli appellanti, e per avere omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio con particolare riferimento alle testimonianze rese in primo grado.

Il tutto con motivazione insufficiente e contraddittoria.

Assumono i ricorrenti che la sentenza impugnata ha valutato in maniera discriminatoria le deposizioni rese dai testi di parte ricorrente, ravvisando una genericità ed una scarsa forza di convincimento che invece non si riscontrano nelle deposizioni dei testi di parte resistente.

Il quarto motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. per non aver valutato la Corte d’Appello la difesa degli appellanti ed acquisito acriticamente, quanto erroneamente ed infondatamente sostenuto dagli appellanti e per avere omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti con particolare riferimento alle consulenze di parte attrice e convenuta nella fase di primo grado.

Il tutto con motivazione insufficiente e contraddittoria.

Si denuncia che la sentenza abbia posto a fondamento della propria decisione la consulenza tecnica di parte appellante, priva di una descrizione planimetrica dei loghi, senza peraltro tener conto della documentazione fotografica versata in atti dagli appellati.

La valutazione delle prove avrebbe dovuto indurre a ritenere confermate le doglianze di cui all’atto introduttivo ed a riscontrare l’illegittimità della condotta dei resistenti.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono inammissibili.

E’ in primo luogo non deducibile, in ragione della data di pubblicazione della sentenza il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, sulla scorta della abrogata formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Quanto al complesso delle censure sviluppate risulta evidente come le stesse mirino a sollecitare questa Corte ad una nuova rivalutazione delle emergenze probatorie, al fine di pervenire ad un esito più appagante per i ricorrenti di quello cui è invece pervenuto il giudice di appello, cui la legge riserva il compito di ricostruzione del fatto.

I motivi, che si connotano anche per la loro carenza di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, nella parte in cui pur denunciando una non corretta valutazione delle prove testimoniali e degli esiti delle perizie di parte, omettono di riportare con sufficiente precisione il contenuto delle numerose prove raccolte e degli elaborati peritali invece valutati in sentenza, si dolgono dell’apprezzamento di merito della Corte d’Appello, che con motivazione ampia ed articolata ha puntualmente esaminato le varie risultanze probatorie, pervenendo ad una verifica in fatto che non è validamente attinta dai motivi in esame.

Ne’ appare configurabile la dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., occorrendo a tal fine ricordare che in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).

5. Il ricorso deve quindi essere rigettato, nulla dovendosi disporre quanto alle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.

6. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 18 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2021

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