Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21608 del 22/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 22/08/2019, (ud. 04/12/2018, dep. 22/08/2019), n.21608

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23389/2014 proposto da:

P.S., S.L., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA ARCHIMEDE 112, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO MARIA

MAGNO, rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO PUTIGNANO;

– ricorrenti –

contro

C.S., L.A., CO.LU., T.S.,

V.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA P.L. DA

PALESTRINA 47, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO PAOLO IOSSA,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO DE

GUGLIELMI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 435/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 06/05/2014 R.G.N. 1000/2013.

Fatto

FATTO E DIRITTO

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore, RILEVA che:

con ricorso depositato il 18 marzo 2013 C.S., CO.Lu., L.A., T.S. e V.E. convenivano in giudizio S.l. e P.S., in proprio nella loro qualità di soci nonchè di legali rappresentanti della disciolta s.n.c. A.R.C.I.P. di P.S. & C., società esercente servizi di sicurezza, investigazioni, antitaccheggio e vigilanza, alle cui dipendenze avevano lavorato con inquadramento iniziale al quarto livello super c.c.n.l. studi professionali – CIPA, nell’ambito dell’appalto del servizio di vigilanza presso il casinò di (OMISSIS), sino al 28 febbraio 2011, data in cui era intervenuto il licenziamento per riduzione di personale;

gli attori chiedevano la condanna dei convenuti al pagamento in loro favore della maggiorazione retributiva per lavoro notturno prestato, nonchè il risarcimento del danno da compressione dei riposi giornalieri, secondo gli importi rispettivamente indicati;

i convenuti S. e P. resistevano alle pretese avversarie, eccependo la prescrizione, nonchè l’intervenuta estinzione dei diritti azionati per effetto degli accordi transattivi intercorsi tra le parti a seguito di vertenza sindacale, contestando altresì nel merito le domande avversarie siccome infondate.;

con sentenza del 19 luglio 2013 l’adito giudice del lavoro di Aosta, in parziale accoglimento del ricorso, condannava i convenuti tra loro in solido al pagamento delle somme di Euro 1000, tranne che a favore di L.A., cui veniva riconosciuto l’importo di Euro 300, a titolo di risarcimento del danno per la incompleta fruizione del riposo giornaliero di 11 ore, respinte nel resto le domande;

gli attori appellavano la succitata pronuncia, di cui chiedevano la riforma e la Corte d’Appello di Torino con sentenza n. 435 in data 8 aprile – sei maggio 2014, accoglieva l’interposto gravame, con la condanna degli appellati, tra loro in solido, al pagamento a favore di ciascun appellante delle somme a tale scopo distintamente liquidate, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, così complessivamente rideterminati gli importi di cui alla gravata pronuncia. Inoltre, visto l’art. 89 c.p.c., disponeva la cancellazione della frase riportata a pagina 9 della comparsa di costituzione degli appellati (“controparte ha proposto l’appello venendo meno ad elementari principi di lealtà e correttezza, nel tentativo di gettare fumo negli occhi”). Quindi, la corte torinese condannava gli appellati a rimborsare per intero alla controparte le spese relative al primo grado del giudizio, così come in precedenza liquidate, nonchè al pagamento delle spese di secondo grado, liquidate in 4500,00 Euro, oltre iva e c.p.a.;

la sentenza di appello, non notificata, è stata quindi impugnata dai sigg. P. e S. mediante ricorso per cassazione del 23 settembre 2014 con quattro motivi, cui hanno resistito i predetti sigg. C., CO., L., T. e V., mediante controricorso di cui alla tempestiva notificazione a mezzo posta spedita il 3 novembre 2014;

CONSIDERATO che:

con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione o falsa applicazione dell’art. 2108 c.c., della L. n. 25 del 1999, del D.Lgs. n. 532 del 1999, art. 17, del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 7, nonchè dell’art. 13, comma 2, del contratto collettivo di settore in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., osservando che i giudici di merito avevano accertato come il contratto collettivo di cui ai contratti di assunzione non prevedesse alcun diritto a maggiorazione in caso di lavoro notturno. Inoltre, la sentenza di appello aveva rilevato che lavoro notturno era stato prestato secondo regolari turni concordati con i dipendenti. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 2108 c.c., nulla era dovuto a titolo di maggiorazione. Le richiamate norme di legge rimandavano alla contrattazione collettiva per l’eventuale definizione dei trattamenti economici indennità pari nei confronti dei lavoratori notturni, laddove tuttavia il contratto collettivo nazionale di lavoro non aveva previsto alcuna indennità per il lavoro notturno, sicchè doveva ritenersi corretta la decisione di primo grado, secondo la quale risultava evidente l’inapplicabilità della succitata normativa in mancanza di apposite previsioni in materia da parte della contrattazione collettiva, peraltro indicate come eventuali, dalle stesse disposizioni di legge, donde pure l’evidenza del salto logico da parte della Corte d’Appello in proposito;

con il secondo motivo è stata denunciata la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 532 del 1999, del D.Lgs.n. 66 del 2003, art. 37, degli artt. 2108 e 2697 c.c., nonchè degli artt. 114 e 432 c.p.c., e art. 118 disp. att., con riferimento all’art. 360, n. 3 del codice di rito. Infatti, impugnata decisione aveva determinato apoditticamente in via equitativa l’importo della maggiorazione per lavoro notturno, senza specificare i parametri ovvero i criteri presi in considerazione e l’iter logico seguito per pervenire alle contestate liquidazioni e senza che i ricorrenti appellanti avessero fornito prova in merito all’an e al quantum, laddove gli stessi ricorrenti con l’atto introduttivo del giudizio avevano indicato la percentuale del 5% come criterio di maggiorazione del tutto approssimativo, però acriticamente recepito dalla Corte territoriale senza alcuna indicazione dell’iter logico seguito e dei criteri nonchè dei parametri adottati. Inoltre, la Corte distrettuale non aveva considerato il fatto che il lavoro in questione era stato programmato secondo turni concordati con i lavoratori, perciò da considerare come lavoro ordinario, mentre in base all’art. 2108 c.c., la maggiorazione era dovuta unicamente nel caso di lavoro notturno non compreso in regolari turni periodici. Comunque, nella determinazione equitativa della maggiorazione, ove per ipotesi dovuta, la Corte d’appello avrebbe dovuto specificare per ciascun lavoratore le ore di lavoro notturno prestate e in relazione ad esse precisare l’importo orario della ritenuta maggiorazione;

con il terzo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1223 e 2697 c.c., art. 115 c.p.c., D.Lgs. n. 66 del 2003, artt. 7 e 17, nonchè degli artt. 114 e 432 c.p.c., e art. 118 disp. att., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento alla asserita compressione dei riposi giornalieri, per i quali tuttavia gli attori non avevano fornito alcuna prova di quali danni avessero subito in seguito alla asserita compressione dei riposi, peraltro sempre concordata. Inoltre, gli appellanti non avevano nemmeno specificato la tipologia del preteso danno, se cioè patrimoniale o non. Quindi, il risarcimento riconosciuto dalla Corte territoriale, in mancanza di prove, si fondava sulla violazione dei succitati artt. 1223, 2697 e 115. Infatti, il risarcimento in questione non era previsto nè dalla legge e neppure dal contratto collettivo in via automatica, sicchè si sarebbero dovute applicare le regole generali. Di conseguenza, gli interessati erano tenuti ad allegare e provare l’asserito pregiudizio, chiarendone la natura. Ciò nonostante, la Corte d’Appello aveva determinato, in via equitativa, l’indennità risarcitoria richiesta nella misura del 10% dell’intera retribuzione giornaliera, senza indicare i criteri o i parametri presi a riferimento e neppure il relativo iter logico seguito essenza inoltre precise distinzioni per ciascun lavoratore in ordine ai periodi e alle ore di riposo mancato e alle relative quote orarie indennità varie, in violazione quindi dei surriferiti artt. 114, 432 e 118. D’altra parte, la Corte territoriale avrebbe dovuto dare adeguata rilevanza al consenso dei lavoratori a rendere la prestazione secondo i turni accertati ed anzi su loro espressa richiesta, come da menzionate dichiarazioni del teste B.. Per di più, l’accoglimento della domanda risarcitoria era stata giustificata per la pretesa violazione del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 7, norma quindi applicata pure in relazione a periodi di tempo anteriori alla sua entrata in vigore, secondo le date di assunzione indicate nel ricorso introduttivo (per il C. 1.12.1999, per il Co. 17-02-2003, per il T. il 27-02-1996 e per V. il primo dicembre 1997). Costituiva “ulteriore vizio” dell’impugnata decisione il fatto di non aver tenuto conto che le turnazioni erano state concordate con i lavoratori, come accertato dalla medesima sentenza. Di conseguenza, non si era considerato che le eccezionali deroghe alla disciplina in materia di lavoro erano state “concordate con i lavoratori art. 8 e art. 7, D.Lgs. n. 66 del 2003”;

infine, con il quarto motivo, è stata lamentata la violazione falsa applicazione dell’art. 89 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, dello stesso codice, laddove era stata disposta dalla Corte territoriale la cancellazione della frase riportata a pagina 9 della comparsa di costituzione degli appellati, in quanto l’espressione non aveva intento gratuitamente denigratorio nei confronti della parte, ma soltanto una semplice espressione difensiva preordinata dimostrare, attraverso una valutazione del comportamento avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni e/o argomentazioni;

tanto premesso, le anzidette censure appaiono inconferenti, oltre che infondate, alla luce di quanto accertato in punto di fatto dalla Corte di merito in base a chiare argomentazioni, che non hanno tralasciato di esaminare alcuna circostanza, rilevante e decisiva acquisita nel corso del giudizio, con ogni conseguente insindacabilità in questa sede, laddove neppure si ravvisano errori di diritto commessi nell’anzidetto accertamento e nella applicazione della normativa di riferimento, in relazione ai quali le doglianze di parte ricorrente non confutano specificamente le articolate argomentazioni giuridiche poste a sostegno dell’impugnata pronuncia;

infatti, la Corte distrettuale, dopo aver riassunto le ragioni in base alle quali il primo giudicante aveva in parte accolto le domande (inapplicabilità del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 13, in mancanza di determinazioni della contrattazione collettiva, peraltro indicate come eventuali dallo stesso disposto di legge; infondatezza dei riferimento all’art. 36 Cost., in quanto le modeste maggiorazioni retributive richieste, non previste come obbligatoria dalla legge, nè pattuite in sede di contrattazione collettiva, da non ritenersi indispensabili ad assicurare la proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato; applicabilità del suddetto D.Lgs. n. 66, art. 7, norma di ordine pubblico sicuramente applicabile ai rapporti in corso, in relazione a risarcimento del danno per compressione del riposo giornaliero sotto il limite delle 11 ore; infondatezza dell’eccezione di prescrizione opposta dai resistenti; dichiarazioni rese dal teste B. in ordine alla documentazione prodotta dagli attori, sulla cui base erano stati sviluppati conteggi, con riferimento ai prospetti dei turni di lavoro, predisposti cercando di venire incontro alle esigenze dei lavoratori, contemperandole con quelle di servizio, donde la sostanziale impossibilità di accertate quando gli insufficienti riposi fossero stati determinati da scelte dei lavoratori ovvero da esigenze di servizio; illecita condotta datoriale, per non aver consentito riposi come previsti dalla legge, sicchè risultava equo ed adeguato, in base agli elementi probatori raccolti, determinare il risarcimento nella misura di Euro 1000 per ciascun ricorrente, salvo che per il L., il quale aveva prestato la sua attività soltanto a decorrere dall’anno 2008, di modo che a costui poteva riconoscersi la somma di Euro 300), esaminava dettagliatamente il motivo di appello concernente la disconosciuta maggiorazione per il lavoro notturno, censura sul punto accolta dalla Corte di merito, avuto riguardo al fatto che la maggiorazione in argomento, già prevista dall’art. 2108 c.c. (con riferimento al lavoro notturno non compreso irregolari turni periodici), risultava essere stata successivamente oggetto della normativa comunitaria, all’uopo indicata, nonchè della L. n. 25 del 1999, art. 17,D.Lgs. n. 532 del 1999, art. 7, e D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 13, comma 2, secondo il quale era affidata alla contrattazione collettiva l’eventuale definizione delle riduzioni dell’orario di lavoro o dei trattamenti economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni. Di conseguenza, il diritto degli appellanti alla maggiorazione per il lavoro notturno prestato andava riconosciuto sulla base dei principi di derivazione comunitaria, recepiti dalla legislazione nazionale, non potendo ritenersi ostativa l’assenza di determinazioni in proposito da parte della contrattazione collettiva, non intervenute nel corso del rapporto di lavoro in ordine alla quantificazione della relativa indennità o all’eventuale previsione alternativa di una riduzione di orario. Inoltre, la quantificazione dell’indennità, attesa la maggiore gravosità della prestazione, andava operata in base ai criteri di cui all’art. 36 Cost., integrato dalla contrattazione collettiva, cui era demandata la funzione di liquidare e concretizzare in diritto alla maggiorazione, ed in assenza di espresse previsioni del c.c.n.l., la Corte di merito riteneva equa la determinazione dell’indennità nella misura richiesta dagli appellanti, pari ad una maggiorazione del 5% della retribuzione quotidiana percepita nel corso di rapporto dagli appellanti. Di conseguenza, doveva essere riconosciuto il diritto di questi ultimi alla maggiorazione per il lavoro notturno prestato, con la condanna degli appellati al pagamento delle relative differenze retributive maturate e con incidenza sulla 13a mensilità, secondo inoltre gli “importi risultanti dai conteggi in atti, redatti con riferimento ai prospetti dei turni effettuati e ad un’indennità nella misura sopra indicata”;

quanto al secondo motivo di appello, concernente la pretesa risarcitoria per il danno sofferto in relazione alla reiterata compressione dei riposi giornalieri, in violazione del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 7, accolta in prime cure, ma in misura dimidiata rispetto ai valori proposti dagli attori, avuto altresì riguardo alla deposizione resa dal teste B., la Corte torinese giudicava fondata la doglianza, rilevando, preliminarmente, come l’accertamento operato dal giudice di primo grado riguardo all’an deberatur sul punto non avesse formato oggetto d’impugnazione, incidentale, da parte convenuta, sicchè doveva ritenersi definitivamente acquisito il diritto vantato in proposito dai lavoratori, ossia coperto da giudicato, per cui l’appello ineriva esclusivamente al quantum dell’azionata pretesa risarcitoria. Sul punto veniva, quindi, ampiamente richiamata la deposizione del teste B. in ordine ai prospetti settimanali degli orari di lavoro depositati dagli attori, corrispondenti ai servizi effettivamente prestati. La Corte di merito ha, quindi, rilevato che sulla base dei prospetti delle presenze, riconosciuti dal teste come servizi effettivamente prestati, gli appellanti avevano predisposto analitici conteggi con riferimento ai riposi fruiti inferiori alle undici ore, non riconducibili o conseguenti a richieste di turnazione da parte dei lavoratori. Pertanto, i giudici di appello ritenevano fondata l’anzidetta pretesa risarcitoria anche in ordine alla sua quantificazione, attesi i valori prudenziali richiesti, contenuti nella misura del 10% della retribuzione giornaliera per ogni giorno di riposo incompleto, in considerazione del fatto che gli stessi avevano più frequentemente subito una compressione del riposo giornaliero pari a una o due ore per volta. Di conseguenza, in accoglimento dell’appello i convenuti andavano condannati, tra loro in solido, al pagamento, a titolo di indennità per il lavoro notturno e di risarcimento del danno da compressione del riposo giornaliero, in ragione di Euro 6407,13 a favore di C.S., di Euro 5988,55 a favore di Co.Lu., di Euro 2247,91 per L.A., di Euro 7173,54 per la T.S. e di Euro 6540,89 in favore di V.E., oltre accessori di legge, così complessivamente di determinati gli importi di cui alla sentenza appellata. Infine, la Corte territoriale accoglieva anche l’istanza di cancellazione formulata dalla difesa degli appellanti ex art. 89 c.p.c., in quanto contenente espressioni sconvenienti che esulavano dall’esercizio del diritto di difesa;

pertanto, appare evidente quanto al primo motivo di ricorso, la genericità delle doglianze ivi esposte, però senza confrontarsi con le argomentazioni in diritto in base alle quali, alla luce della succitata normativa, di epoca successiva alla disciplina dettata in materia di lavoro notturno dall’art. 2108 c.c., la Corte distrettuale ha riconosciuto il diritto in proposito vantato dai lavoratori istanti (art. 36 Cost. – D.Lgs. 26 novembre 1999, n. 532 recante diposizioni in materia di lavoro notturno, a norma della L. 5 febbraio 1999, n. 25, art. 17, comma 2, il cui art. 7, comma 1, in particolare, circa la riduzione dell’orario di lavoro e maggiorazione retributiva, sanciva che “la contrattazione collettiva stabilisce la riduzione dell’orario di lavoro normale settimanale e mensile nei confronti dei lavoratori notturni e la relativa maggiorazione retributiva”, perciò anche senza alcuna limitazione o eventualità in proposito, mentre il successivo D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 – “Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”, in vigore dal 29-04-2003, all’art. 13 – Durata del lavoro notturno, con i primi due commi ha così testualmente regolato la materia: “1. L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore, salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite. 2. E’ affidata alla contrattazione collettiva l’eventuale definizione delle riduzioni dell’orario di lavoro o dei trattamenti economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni. Sono fatte salve le disposizioni della contrattazione collettiva in materia di trattamenti economici e riduzioni di orario per i lavoratori notturni anche se non concesse a titolo specifico”), per cui correttamente a tale ultimo riguardo la Corte torinese escludeva ogni preclusione, quanto alle rivendicazioni in proposito avanzate dagli attori, derivante dall’assenza di apposite disposizioni da parte della contrattazione collettiva di riferimento, “non intervenute nel corso del rapporto di lavoro in ordine alla quantificazione della relativa indennità o alla eventuale previsione, alternativa, di una riduzione di orario”, con ciò significandosi, in altre parole, che era prevista, a cura della contrattazione collettiva, la possibilità della definizione, appunto in via ALTERNATIVA, o della riduzione dell’orario, normale, di lavoro, ovvero appositi indennizzi a favore dei lavoratori notturni in relazione a detta peculiare prestazione, in quanto tale perciò comunque da compensarsi con idoneo corrispettivo, attesa la sua maggiore gravosità, nei sensi di cui all’art. 36 Cost., quindi liquidata in via equitativa da parte degli stessi giudici di merito in ragione del 5% della retribuzione quotidiana, percentuale evidentemente giudicata congrua dalla medesima Corte, e con riferimento agli importi di cui ai “conteggi in atti, redatti con riferimento ai prospetti dei TURNI EFFETTUATI”;

pertanto, è stata fornita adeguata motivazione, pertinente anche alla suddetta quantificazione, per la quale invece parte ricorrente ha omesso di enunciare precise ed esaurienti allegazioni, tuttavia occorrenti a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6 e ciò pure riguardo a periodi di tempo inerenti a ciascun lavoratore interessato, per i quali sono state infatti operate distinte liquidazioni, non bastando invece, evidentemente, in proposito gli accenni fatti alle date delle loro assunzioni, laddove sarebbero state necessarie integrali riproduzioni dei conteggi, ai quali come si è detto la Corte aveva fatto espresso riferimento;

disattesi, pertanto, i primi due motivi di ricorso, tra loro connessi e perciò congiuntamente esaminati, parimenti deve osservarsi quanto alla terza censura, inerente alla compressione dei riposi giornalieri, come tale giudicata inadempiente e fonte di pregiudizi, il cui risarcimento era stato già riconosciuto, sebbene in parte, dal giudice di primo grado, la cui pronuncia in merito non è stata impugnata, con conseguente formazione del giudicato, interno, chiaramente e ritualmente già rilevato, d’ufficio, dalla Corte d’Appello (giudicato pure in relazione al quale nulla ha specificamente obiettato parte ricorrente con le succitate doglianze, ma con ogni derivante preclusione, specie sull’an), di guisa che l’impugnazione veniva accolta limitatamente alla quantificazione del già riscontrato pregiudizio, ritenuta insufficiente quella stabilita al riguardo in prime cure, tenuto anche qui conto dei riscontrati conteggi e delle dichiarazioni in proposito rese dal teste B., solo in parte riprodotte a pag. 12 del ricorso, il cui contenuto è stato diversamente e con più che sufficiente motivazione desunto dalla Corte di merito con apprezzamento che non può, di conseguenza, essere riesaminato in questa sede di legittimità, tenuto altresì conto di quanto dalla stessa appurato circa i valori prudenziali richiesti, contenuti nella menzionata percentuale;

nei sensi di cui sopra va, dunque, disatteso anche il terzo motivo, con assorbimento quindi pure di ogni altra questione, preclusa dall’anzidetto giudicato;

infine, parimenti va rilevata l’inammissibilità del quarto e ultimo motivo di ricorso (cfr. Cass. I civ. n. 3487 del 12/02/2009), in quanto il potere del giudice di merito di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare sui difensori in caso di violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ovvero di ordinare la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al giudice, costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa tra le parti, ed il suo esercizio d’ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae all’obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità (cfr. analogamente Cass. III civ. n. 14659 del 14/07/2015, secondo cui di conseguenza anche il relativo provvedimento, in caso di reiezione dell’istanza di cancellazione, non è suscettibile di impugnazione. Conforme, tra le altre, Cass. I civ. n. 1018 del 16/01/2009. V. ancora Cass. III civ. n. 4963 del 2/3/2007: il carattere discrezionale del potere di cancellazione delle espressioni sconvenienti o offensive, di cui all’art. 89 c.p.c., impedisce che il suo mancato esercizio da parte del giudice di merito possa essere censurato in sede di legittimità. Id. n. 13204 del 26/07/2012. Similmente, Cass. lav. n. 7731 del 29/03/2007: l’apprezzamento del giudice di merito sul carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute nelle difese delle parti e sulla loro estraneità all’oggetto della lite, nonchè l’emanazione o meno dell’ordine di cancellazione delle medesime, a norma dell’art. 89 c.p.c., integrano esercizio di potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità. Conforme anche Cass. II civ. n. 14364 del 5/6/2018);

pertanto, il ricorso va rigettato con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese, ricorrendo, inoltre, le condizioni di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, atteso l’esito del tutto negativo della proposta impugnazione.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna l’ricorrenti al pagamento delle relative spese, che liquida a favore di parte controricorrente in complessivi Euro 4500,00 (quattromilacinquecento/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2019

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