Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21600 del 19/09/2017


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Cassazione civile, sez. III, 19/09/2017, (ud. 19/07/2017, dep.19/09/2017),  n. 21600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. SPAZIANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11622/2015 proposto da:

G.E., G.M., G.C.,

G.G., considerati domiciliati in ROMA, PRESSO LA CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCO

UGGETTI unitamente all’avvocato DOMENICO GIUSEPPE POLLETTA giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

ASSICURAZIONI GENERALI SPA (GIA’ ALLEANZA ASSICURAZIONI SPA), in

persona dei Dott.ri B.S. e P.M.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 32, presso lo

studio dell’avvocato CORRADO GIACCHI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CLAUDIO TATOZZI giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 121/2015 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 30/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/07/2017 dal Consigliere Dott. PAOLO SPAZIANI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale Dott. CARDINO Alberto, che ha

concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 30 gennaio 2015, la Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza resa dal Tribunale della stessa città in data 3 agosto 2009, ha rigettato la domanda proposta da G.C., G., E. e M. nei confronti di Assicurazioni Generali s.p.a. (già Alleanza Assicurazioni s.p.a.), avente ad oggetto il risarcimento del danno loro arrecato dal fatto illecito della sua collaboratrice e loro parente, G.S., la quale li avrebbe indotti a versare ingenti somme di denaro (complessivamente Euro 699.500,00) in funzione del loro investimento in fondi della compagnia assicurativa.

Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte di merito ha deciso sulla base dei seguenti rilievi:

– sebbene fosse provato che G.S. aveva effettivamente svolto la propria attività per la compagnia assicurativa, dapprima quale lavoratrice subordinata e di poi quale lavoratrice autonoma – e sebbene fosse altresì dimostrato che essa si era resa autrice di reiterate condotte fraudolente in danno di numerosi investitori, inducendoli, tra l’altro, a sottoscrivere polizze a premio unico mediante pagamenti a fronte dei quali rilasciava quietanze cc.dd. “figlie”, omettendo tuttavia di versare le somme presso le agenzie della società, cui consegnava quietanze cc.dd. “madri” recanti un importo inferiore – nel caso di specie non era stata raggiunta la prova dei pagamenti che gli attori avevano sostenuto di avere effettuato in suo favore;

– questa prova doveva ritenersi mancante alla luce della peculiarità della vicenda, caratterizzata dal concorso di una serie di singolari circostanze, consistenti: nel rapporto di parentela intercorrente tra l’autrice della condotta fraudolenta e coloro che si affermavano essere vittime della stessa; nel comportamento asseritamente posto in essere dai danneggiati, i quali avrebbero, per oltre un anno, reiteratamente versato alla loro parente ingentissime somme in contanti, confidando negli straordinari rendimenti da lei promessi, e senza che di tali somme si tenesse alcun conto; nella “strana” confessione resa da G.S. la quale, in uno scritto recante una data (5 febbraio 2003) anteriore a quella in cui gli attori avevano affermato essere stato effettivamente rilasciato (13 ottobre 2003), aveva dichiarato di avere da loro ricevuto la somma complessiva di 699.500 Euro, che avrebbe interamente versato alle agenzie della compagnia assicurativa; nella decisione dei danneggiati, i quali avevano inizialmente agito sia contro la preposta sia contro la società preponente, di rinunciare all’azione verso la prima e di insistere soltanto nella domanda proposta contro la seconda; e nella non coincidenza tra la somma risultante dalle quietanze “figlie” versate in atti e quella oggetto della dichiarazione confessoria;

– il concorso di queste singolari circostanze impediva di valorizzare gli elementi probatori apparentemente favorevoli agli attori, tra i quali figurava non solo la dichiarazione manoscritta e le quietanze (peraltro caratterizzate da reciproco contrasto in ordine alle date e agli importi rispettivamente indicati e comunque inopponibili, in quanto aventi valore di confessione stragiudiziale, alla società preponente) ma anche l’accertamento, contenuto nella sentenza emessa nell’ambito di una parallela causa di lavoro tra la compagnia assicurativa e G.S., del credito risarcitorio vantato dalla prima nei confronti della seconda e fondato proprio sulla differenza tra l’importo risultante dalle quietanze “figlie”, rilasciate dall’agente ai propri clienti, e quello inferiore risultante dalle quietanze “madri”, rimesse alla preponente;

– la mancata prova dei pagamenti asseritamente compiuti dagli attori in favore dell’agente si traduceva nella mancata dimostrazione del danno da essi subito, con conseguente necessità di rigettare la domanda da loro formulata contro la società preponente.

Avverso la decisione della Corte di Appello di Brescia propongono ricorso per cassazione G.C., G., E. e M. sulla base di tre motivi.

Risponde con controricorso Assicurazioni Generali s.p.a..

I ricorrenti hanno depositato memoria per l’udienza. Il pubblico ministero ha presentato conclusioni scritte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo (omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti) i ricorrenti lamentano il mancato esame, da parte della Corte territoriale, del fatto storico consistente nell’accertamento, da parte del giudice del lavoro, del credito risarcitorio vantato dalla società assicurativa nei confronti della propria collaboratrice, fondato sull’avvenuta riscossione, da parte di quest’ultima, dei premi non riversati alla prima, e dimostrato attraverso la produzione, da parte della preponente, delle medesime quietanze poste a fondamento della domanda risarcitoria formulata contro di essa.

2. Con il secondo motivo (violazione del combinato disposto dell’art. 2735 c.c. e art. 116 c.p.c.) i ricorrenti si dolgono che il giudice di appello, omettendo l’esame della circostanza che la società preponente aveva fondato la domanda risarcitoria contro l’agente sulle stesse quietanze “figlie” da questa rilasciate ai propri clienti producendole nella controversia di lavoro, abbia evitato di considerare secondo il proprio libero apprezzamento un comportamento avente valore di confessione stragiudiziale fatta ad un terzo, e dunque un elemento istruttorio che, pur non assurgendo alla dignità di prova legale, avrebbe dovuto formare oggetto di motivata valutazione.

3. Con il terzo motivo (omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti), i ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto inattendibile la quietanza dell’11 ottobre 2003, sul presupposto che gli ingentissimi pagamenti da essa documentati si riferissero ad un momento in cui era ormai cessato il rapporto di collaborazione tra la G. e la società assicurativa; in proposito i ricorrenti lamentano che la Corte territoriale abbia omesso di considerare che i versamenti indicati nella predetta quietanza erano stati da loro effettuati nell’arco di circa un anno e che la quietanza aveva ad oggetto la sommatoria di tutti gli investimenti compiuti nel periodo e non si riferiva ad un unico e contestuale pagamento.

4. Gli illustrati motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della reciproca connessione, sono inammissibili.

4.1. In primo luogo va rilevato che, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, la Corte di appello ha debitamente dato conto della circostanza che nella parallela causa di lavoro, Alleanza Assicurazioni s.p.a aveva ottenuto l’accertamento del proprio credito risarcitorio sulla base della produzione delle quietanze “figlie” rilasciate dalla G. ai propri clienti, e sul presupposto che la collaboratrice avesse riscosso le somme in esse indicate e non avesse provveduto a riversarle alla preponente.

Di tale circostanza si dà ripetutamente atto nella motivazione della sentenza di talchè non è configurabile nè il denunciato omesso esame circa un fatto decisivo e controverso (che ricorre unicamente allorchè il giudice del merito ometta di esaminare un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia: Cass. Sez. U. 7/04/2014, nn. 8053 e 8054) nè la denucniata violazione delle norme in tema di apprezzamento della confessione stragiudiziale fatta ad un terzo, atteso che, a prescindere dalla riconducibilità a tale istituto del contegno serbato dalla società assicurativa nella controversia di lavoro, la Corte di appello non ha omesso di considerare tale contegno ma lo ha soltanto ritenuto irrilevante in funzione della prova dei fatti costitutivi della domanda formulata dai ricorrenti.

4.2. In secondo luogo (e principalmente) deve rilevarsi che gli illustrati motivi di ricorso, ad onta della loro formale intestazione, attengono a profili di fatto.

Con essi, infatti, si chiede una rivalutazione delle risultanze istruttorie al fine di suscitare dalla Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito in contrapposizione a quello motivatamente formulato dalla Corte territoriale.

Quest’ultima ha escluso che fosse stata fornita la dimostrazione dei pagamenti asseritamente effettuati dai ricorrenti in favore di G.S. sulla base di un motivato apprezzamento di tutte le risultanze istruttorie, all’esito del quale ha ritenuto che gli elementi indiziari apparentemente favorevoli agli attori (la dichiarazione confessoria rilasciata da G.S.; l’esito della distinta controversia di lavoro tra quest’ultima e la società preponente; le quietanze rilasciate in favore dei clienti) dovessero cedere il passo agli elementi di segno diverso, desumibili: dal contegno complessivo dei danneggiati; dal rapporto di parentela intercorrente con l’autrice dell’illecito; dallo scollamento esistente tra la data apposta alla dichiarazione confessoria resa da G.S. e il tempo in cui essa era stata asseritamente rilasciata; dalla decisione degli attori di rinunciare all’azione inizialmente intentata contro la loro parente; e dalla ritenuta non affidabilità del contenuto delle quietanze versate in atti.

In questo quadro si inseriscono anche le considerazioni formulate dalla Corte di appello in ordine alla quietanza dell’11 ottobre 2003, le quali non trovano fondamento in un errore sul contenuto del documento nè in un’erronea rappresentazione delle allegazioni di parte (atteso che in più parti della sentenza impugnata si dà atto delle affermazioni dei ricorrenti secondo cui i pagamenti sarebbero stati effettuati nell’arco di un prolungato periodo temporale iniziato nei mesi di giugno-luglio 2002) ma in una valutazione critica del mezzo di prova precostituita, nell’esercizio delle prerogative esclusivamente attribuite al giudice del merito.

Nel contrapporre a questo apprezzamento la diversa lettura secondo la quale la considerazione della parallela vicenda processuale lavoristica e il contegno in essa serbato dalla resistente avrebbero invece dovuto indurre il giudice di appello a ritenere provati i pagamenti effettuati alla G., conformemente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, i ricorrenti omettono di considerare che la valutazione delle prove è attività riservata al giudice del merito cui compete anche la scelta, tra le prove stesse, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 13/06/2014, n. 13485; Cass. 15/07/2009, n. 16499).

La predetta valutazione non può dunque essere rimessa in discussione in sede di legittimità, con conseguente inammissibilità degli esaminati motivi di ricorso per cassazione.

4.3. In definitiva, il ricorso proposto da G.C., G., E. e M. va dichiarato inammissibile.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

4. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, 19 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2017

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