Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21590 del 13/10/2014


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 21590 Anno 2014
Presidente: SALVAGO SALVATORE
Relatore: MERCOLINO GUIDO

SENTENZA

zione appropriativa
– prescrizione

sul ricorso proposto da

LEONI ROBERTO e LEONI PIETROPAOLO, elettivamente domiciliati in Roma, alla via L. Luciani n. 1, presso l’avv. DANIELE MANCA BITTI, unitamente
agli avv. ENZO BARILA’ del foro di Milano ed ENRICO BERTONI del foro di
Brescia, dai quali sono rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine
del ricorso

RICORRENTI
contro
PROVINCIA REGIONALE DI MESSINA, in persona del Presidente p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla piazza Don G. Minzoni n. 9, presso l’avv.
CARLO MARTUCCELLI, unitamente all’avv. CARLO VERMIGLIO del foro di
Messina, dal quale è rappresentata e difesa in virtù di procura speciale a margine
del controricorso

19
er)

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Data pubblicazione: 13/10/2014

CONTROR1CORRENTE

avverso la sentenza della Corte di Appello di Messina n. 169/06, pubblicata il 29
marzo 2006.

dal Consigliere dott. Guido Mercolino;
udito l’avv. Manca Bitti per i ricorrenti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Lucio CAPASSO, il quale ha concluso per il rigetto dei primi quattro motivi
di ricorso e per l’accoglimento del quinto, del settimo e del nono motivo, restando
assorbiti gli altri motivi

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. — Vincenzo Mazzola ed Agata Carnevale, proprietari di due fondi siti in
Lipari (ME), e riportati in Catasto al foglio 102, particelle 271 e 275, convennero
in giudizio la Provincia Regionale di Messina, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subìti per l’occupazione dell’immobile, disposta per la realizzazione della strada Lipari-Piano Conte, e di quelli derivanti dalla mancata realizzazione delle opere di contenimento della residua proprietà, nonché al pagamento
dell’indennità di occupazione.
1.1. — Con sentenza del 23 febbraio 2001, il Tribunale di Messina accolse la
domanda, condannando la Provincia al risarcimento dei danni per l’occupazione
appropriativa e per la mancata realizzazione delle opere di contenimento, in misura pari a Lire 14.800.000 in favore del Mazzola e Lire 17.410.000 in favore della
Carnevale, oltre rivalutazione ed interessi legali con decorrenza del 10 maggio
1983, ed al pagamento dell’indennità di occupazione, liquidata in misura pari agli
interessi legali per tre anni sull’importo di Lire 10.350.000 in favore del Mazzola e

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Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28 aprile 2014

sull’importo di Lire 13.160.000 in favore della Carnevale, oltre interessi legali dalla scadenza delle singole annualità.
2. — Sull’appello della Provincia, il giudizio fu dichiarato interrotto per il de-

Mazzola, in qualità di eredi dell’attore, e successivamente nei confronti di Roberto
Leoni, in qualità di erede della Mazzola, anch’essa nel frattempo deceduta.
2.1. — Con sentenza del 29 marzo 2006, la Corte d’Appello di Messina ha rideterminato le somme dovute al Mazzola ed alla Carnevale rispettivamente in Lire
2.650.000 e Lire 1.850.000, pari al costo delle opere di contenimento, dichiarando
invece prescritto il diritto al risarcimento dei danni per l’occupazione appropriativa e quello al pagamento dell’indennità di occupazione.
A fondamento della decisione, la Corte, per quanto ancora rileva in questa
sede, ha innanzitutto escluso l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza impugnata nei confronti dell’erede di Maria Mazzola, osservando che l’atto di appello
era stato ritualmente notificato al procuratore costituito in primo grado per Vincenzo Mazzola, in quanto il decesso di quest’ultimo, verificatosi prima dell’udienza di discussione, non era stato dichiarato né notificato alla controparte, né seguito
dalla volontaria costituzione degli eredi, con la conseguente ultrattività del mandato ad litem; ha aggiunto che, a seguito della comunicazione del decesso di Maria Mazzola, verificatosi prima della costituzione in appello, il giudizio era stato
ritualmente proseguito nei confronti dell’erede Roberto Leoni.
Premesso inoltre che l’occupazione dei fondi, disposta con decreti emessi il 3
settembre 1968 e notificati il 24 maggio 1969, era stata autorizzata per la durata di
tre anni, la Corte ha rilevato che l’irreversibile trasformazione degl’immobili aveva
avuto luogo il 5 febbraio 1971, a seguito dell’ultimazione dei lavori di costruzione

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cesso del Mazzola, e riassunto dapprima nei confronti della Carnevale e di Maria

della strada, ed ha pertanto ritenuto che il termine di prescrizione della pretesa risarcitoria dovesse essere fatto decorrere dalla data di scadenza dell’occupazione
legittima, verificatasi nel mese di maggio 1972. Precisato inoltre che nella specie

sendo la vicenda assimilabile ad un’espropriazione e non potendo trovare applicazione i principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con sentenza
del 30 maggio 2000, Carbonara-Ventura, ha concluso che alla data del 23 aprile
1980, in cui gli attori avevano provveduto a costituire in mora l’Amministrazione,
il diritto al risarcimento era ormai prescritto.
Ha rilevato infine che alla data della costituzione in mora era decorso anche il
termine decennale di prescrizione del diritto all’indennità dovuta per l’occupazione
legittima, decorrente dalla data di notificazione del decreto autorizzativo.
3. — Avverso la predetta sentenza ricorrono per cassazione, per dieci motivi,
illustrati anche con memoria, Roberto e Pietropaolo Leoni, quest’ultimo in qualità
di erede di Agata Carnevale. La Provincia resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. — Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione degli artt. 299, 300, 303, 305 e 307 cod.
proc. civ. Premesso che all’epoca in cui fu dichiarata l’interruzione del giudizio
Vincenzo Mazzola era deceduto da oltre un anno, sostengono che, non potendosi
procedere alla notifica dell’atto di riassunzione collettivamente ed impersonalmente presso l’ultimo domicilio del defunto, la Provincia avrebbe dovuto provvedere
all’identificazione nominativa dei suoi eredi ed alla notificazione dell’atto nei confronti di ciascuno degli stessi; poiché l’atto di riassunzione è stato notificato sol-

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era applicabile il termine quinquennale previsto dall’art. 2947 cod. civ., non es-

tanto ad Agata Carnevale, in quanto all’epoca era già deceduta anche Maria Mazzola, affermano che, non essendosi provveduto all’integrazione del contraddittorio
nei confronti degli eredi della stessa, il giudizio avrebbe dovuto essere dichiarato

2. — Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono, in via subordinata, la nullità della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione degli artt. 299,
303, 205, 307 e 359 cod. proc. civ., osservando che, in quanto verificatasi prima
della costituzione in giudizio, la morte della Mazzola ha determinato l’automatica
interruzione del processo, con la conseguente nullità di tutti gli atti successivi, non
essendosi provveduto alla tempestiva riassunzione nei confronti degli eredi.
3. — Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano, in via ancor più gradata, la
nullità della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione degli artt.
299, 300, 303, 305 e 307 cod. proc. civ. Premesso che, a seguito della mancata notificazione dell’atto di riassunzione alla Mazzola, il procuratore della Provincia
aveva chiesto ed ottenuto la fissazione di un termine per la rinotificazione agli eredi, osservano che all’udienza successiva il medesimo procuratore aveva fatto
presente di non essere riuscito ad effettuare la notifica, ed aveva chiesto la rimessione in termini; tale provvedimento è stato concesso dal giudice di secondo grado, il quale avrebbe invece dovuto limitarsi a dichiarare l’estinzione del giudizio,
per mancata riassunzione nel termine di sei mesi dall’evento interruttivo.
4. — I predetti motivi devono essere esaminati congiuntamente, avendo ad
oggetto questioni tra loro intimamente connesse: i primi due sono peraltro infondati, mentre il terzo merita accoglimento.
Premesso che in questa sede non è stata censurata la pronuncia d’interruzione
del giudizio emessa a seguito della dichiarazione della morte di Vincenzo Mazzo-

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estinto, ai sensi del terzo comma dell’art. 307 cit.

la, si osserva che l’avvenuta riassunzione nei confronti di Agata Carnevale, che
riuniva in sé le qualità di appellata ed erede del Mazzola, doveva considerarsi sufficiente ad escludere l’estinzione del giudizio, ai sensi dell’art. 307, terzo comma,

riassunzione a Maria Mazzola, anch’essa erede dell’attore in qualità di figlia: la
morte della parte determina infatti, indipendentemente dalla natura del rapporto
controverso, una situazione di litisconsorzio necessario tra gli eredi, che si protrae
per l’intera durata del giudizio, rendendo pertanto configurabile, in sede d’impugnazione, una causa inscindibile, con la conseguenza che la notificazione dell’atto
di riassunzione ad uno solo di essi non esclude l’utile prosecuzione del giudizio,
dovendosi soltanto procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 12 settembre
2011, n. 18645; 16 maggio 1997, n. 4360; Cass., Sez. 1,9 febbraio 2000, n. 1436).
4.1. — L’avvenuto decesso della Mazzola in data anteriore non solo alla riassunzione, ma alla stessa pronuncia dell’interruzione, non poteva d’altronde essere
considerato idoneo a determinare l’interruzione automatica del giudizio, ai sensi
dell’art. 299 cod. proc. civ., dal momento che la stessa non aveva ancora formalmente assunto la qualità di parte, non essendo stata destinataria dell’atto d’appello,
proposto nei confronti della Carnevale e di Vincenzo Mazzola: correttamente, pertanto, la Corte di merito si è limitata a rilevare che a seguito del predetto evento,
non emerso neppure in sede di notificazione dell’atto di riassunzione, ma dichiarato soltanto all’udienza successiva, era stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi della Mazzola, implicitamente escludendo che la
morte di quest’ultima fosse idonea a far decorrere il termine per la riassunzione, la
cui scadenza avrebbe determinato l’estinzione del giudizio.

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cod. proc. civ., risultando pertanto irrilevante la mancata notificazione dell’atto di

In contrario, non potrebbe rilevarsi che nel frattempo era decorso il termine
per la riassunzione a seguito dell’interruzione disposta per il decesso di Vincenzo
Mazzola, la cui scadenza avrebbe precluso la concessione di un nuovo termine per

dall’art. 305 cod. proc. civ. si riferisce infatti al solo deposito del ricorso in cancelleria, la cui effettuazione risulta di per sé sufficiente ad attivare il meccanismo che
consente la prosecuzione del processo interrotto, dovendosi distinguere, nell’ambito di tale meccanismo, il momento della rinnovata editio actionis, assoggettata
predetto termine, da quello della vocatio in jus, per la quale è prevista la fissazione di un apposito termine da parte del giudice. Quest’ultimo termine, pur presupponendo il rispetto di quello precedente, ne prescinde, essendo destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio, con la conseguenza che il vizio da cui
sia eventualmente affetta la notifica dell’atto di riassunzione non si comunica allo
atto stesso, ma impone al giudice, che rilevi la nullità, di ordinare la rinnovazione
della notificazione ai sensi dell’art. 291, ultimo comma, cod. proc. civ., entro un
termine necessariamente perentorio, la cui inosservanza soltanto può determinare
l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307, terzo comma, cod. proc. civ. (cfr.
Cass., Sez. Un., 28 giugno 2006, n. 14854; Cass., Sez. VI, 24 settembre 2013, n.
21869; Cass., Sez. III, 31 luglio 2012, n. 13683).
4.2. — La sentenza impugnata non può essere tuttavia condivisa nella parte
in cui ha ritenuto che l’avvenuta notificazione dell’atto d’integrazione del contraddittorio a Roberto Leoni fosse idonea a consentire la prosecuzione del giudizio,
senza considerare che il termine all’uopo fissato non era stato rispettato dall’appellante: all’udienza successiva il difensore della Provincia aveva infatti chiesto ed
ottenuto la concessione di un ulteriore termine, entro il quale aveva provveduto

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la notificazione dell’atto di riassunzione. Il termine perentorio di sei mesi previsto

alla predetta notifica, nella cui effettuazione, peraltro, non aveva tenuto conto
neppure dell’esistenza di Pietropaolo Leoni, figlio di Maria Mazzola ed anch’egli
erede della stessa. Il carattere perentorio del termine fissato ai sensi dell’art. 331

ga, imponendo la dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione, salvo che la
parte onerata della notificazione non deduca e dimostri di non avervi potuto provvedere per una causa ad essa non imputabile, ovvero di aver incolpevolmente ignorato l’esistenza dei soggetti nei confronti dei quali avrebbe dovuto essere integrato il contraddittorio o il luogo in cui la notificazione avrebbe dovuto essere eseguita (cfr. Cass., Sez. II, 16 dicembre 2009, n. 26401; 18 gennaio 2007, n. 1069;
Cass., Sez. III, 15 gennaio 2007, n. 637). Ai fini della concessione di un nuovo
termine, non è tuttavia sufficiente il mero esito negativo della notifica, ma occorre
che la parte dimostri di aver diligentemente effettuato le indagini necessarie per
l’individuazione dei predetti soggetti e della loro residenza o sede, mediante la
consultazione dei registri dello stato civile o di quello delle imprese, dovendosi
altrimenti escludere la non imputabilità dell’ignoranza, tenuto conto che il termine
per l’integrazione del contraddittorio è fissato per consentire non solo l’avvio del
procedimento notificatorio, ma anche lo svolgimento delle attività ad esso necessariamente prodromiche, nonché, in definitiva, per porre rimedio ad un errore in
cui la parte è incorsa nell’instaurazione del giudizio (cfr. Cass., Sez. III, 10 maggio
2013, n. 11139; Cass., Sez. I, 14 ottobre 2005, n. 20000).
La mancata allegazione e dimostrazione di tali circostanze avrebbe pertanto
escluso la possibilità di accordare un nuovo termine per la notificazione dell’atto
di riassunzione agli eredi di Maria Mazzola, senza peraltro imporre, come sostiene
la difesa dell’Amministrazione, la rimessione della causa al giudice di primo gra-

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cod. proc. civ. esclude infatti la possibilità di disporne la rinnovazione o la proro-

do: il caso in esame non è infatti riconducibile all’art. 354, primo comma, cod.
proc. civ., dal momento che l’esigenza di procedere all’integrazione del contraddittorio è sorta soltanto in appello, ma all’art. 331, secondo comma, cod. proc. civ., il

cuzione dell’ordine impartito dal giudice non già l’estinzione del giudizio, ma la
dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione. Tale pronuncia, nella specie,
avrebbe peraltro dovuto essere limitata all’appello proposto nei confronti di Vincenzo Mazzola, non potendo essere estesa a quello proposto nei confronti di Agata Carnevale, la quale, pur avendo agito congiuntamente al coniuge, aveva avanzato un’autonoma pretesa risarcitoria, fondata sulla lesione del proprio diritto di
proprietà, con la conseguenza che l’impugnazione della decisione emessa al riguardo dal Giudice di primo grado aveva dato luogo ad un distinto rapporto processuale, scindibile da quello riguardante la domanda proposta dal Mazzola, e non
coinvolto dai vizi da cui era affetto quest’ultimo.
5. — Restano pertanto assorbiti il quarto, il quinto ed il sesto motivo d’impugnazione, con cui i ricorrenti hanno denunciato, in ulteriore subordine, la nullità
della sentenza impugnata, ai sensi degli artt. 102, 184-bis, 299, 300, 303, 305 e
307 cod. proc. civ., per aver ritenuto legittima la rimessione in termini dell’appellarne ai fini della notifica, invece di dichiarare l’estinzione del giudizio, nonché
per aver pronunciato nel merito senza che il contraddittorio fosse stato integrato
nei confronti di Pietropaolo Leoni.
6. — Con il settimo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 2938 cod. civ., e degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato prescritto il diritto all’indennità dovuta per occupazione legittima, in mancanza della relativa eccezio-

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quale, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, ricollega alla mancata ese-

ne. Affermano infatti che, a sostegno dell’eccezione di prescrizione sollevata nell’atto di appello, la Provincia si era limitata ad esporre le ragioni per cui doveva
ritenersi estinto il diritto degli attori al risarcimento dei danni derivanti dalla per-

6.1. — Il motivo è fondato.
La natura processuale del vizio lamentato consente di procedere all’esame diretto dell’atto d’impugnazione, dal quale si evince che l’Amministrazione appellante, nell’eccepire la prescrizione del diritto azionato, non aveva specificato la pretesa alla quale si riferiva, tra quelle fatte valere dagli attori, esponendo tuttavia, a
sostegno della predetta eccezione, ragioni dalle quali poteva desumersi la volontà
di opporre esclusivamente l’estinzione del diritto al risarcimento dei danni: nell’illustrare il motivo d’impugnazione, essa aveva infatti invocato l’orientamento giurisprudenziale che qualifica l’occupazione appropriativa come illecito istantaneo
ad effetti permanenti, ricollegandovi l’applicabilità del termine di cui all’art. 2947,
primo comma, cod. civ., decorrente dalla data di ultimazione dell’opera pubblica,
senza fare alcun riferimento all’indennità di occupazione ed al relativo termine
prescrizionale. E’ noto d’altronde che la domanda di risarcimento dei danni per occupazione appropriativa e quella di pagamento dell’indennità di occupazione sono
contraddistinte da causae petendi e petita diversi, fondandosi la prima sul fatto illecito costituito dalla perdita della proprietà del fondo, per effetto della trasformazione irreversibile derivante dalla realizzazione di un’opera dichiarata di pubblica
utilità, non accompagnata dalla tempestiva emissione del decreto di espropriazione, e la seconda sul fatto lecito rappresentato dalla privazione del godimento del
fondo in conseguenza di un’occupazione legittimamente autorizzata (cfr. Cass.,
Sez. I, 18 febbraio 2004, n. 3153; 8 settembre 1997, n. 8740): i relativi diritti sono

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dita del diritto di proprietà, senza fare alcun cenno all’indennità di occupazione.

soggetti a distinti termini di prescrizione, aventi diversa decorrenza, cosicché l’avvenuta estinzione dell’uno per decorso della prescrizione non implica necessariamente l’estinzione dell’altro. La proposizione congiunta delle due domande impo-

ritti o di uno solo di essi, di indicare chiaramente la pretesa alla quale intende riferirsi, non potendo il giudice estendere l’eccezione ad un diritto diverso da quello
che ne costituisce espressamente oggetto, in assenza di elementi dai quali possa
univocamente desumersi l’intento della parte di farne dichiarare l’estinzione.
7. — Resta conseguentemente assorbito l’ottavo motivo, con cui i ricorrenti
hanno dedotto, in via subordinata, la violazione e la falsa applicazione degli artt.
2935 e 2946 cod. civ., dell’al/. 20, quarto comma, della legge 22 ottobre 1971, n.
865, nel testo modificato dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 e dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 470 del 1990, contestando la decorrenza del
termine di prescrizione individuata dalla sentenza impugnata.
8. — Con il nono motivo, i ricorrenti lamentano la violazione della legge 4
agosto 1955, n. 848, degli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali e dell’art. 1 del Primo
Protocollo addizionale, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto assoggettabile alla prescrizione quinquennale il diritto al risarcimento del
danno per l’occupazione appropriativa. Premesso che la Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo ha ritenuto tale istituto incompatibile con i principi di prevedibilità e
sicurezza giuridica sanciti dall’art. 1 cit., non solo in riferimento alla misura dello
indennizzo, ma anche sotto il profilo della prescrizione, applicabile retroattivamente anche nei confronti dei soggetti titolari di pretese sorte in epoca anteriore al
consolidamento del relativo orientamento giurisprudenziale, osservano che, anche

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ne pertanto al convenuto, il quale voglia far valere la prescrizione di entrambi i di-

a voler ammettere che le conseguenze di tale vicenda siano divenute prevedibili a
seguito della sentenza di questa Corte n. 1464 del 1983, esse non erano neppure
lontanamente immaginabili all’epoca in cui è maturata la prescrizione quinquenna-

procedere alla disapplicazione delle norme interne che disciplinano la misura del
risarcimento, per contrasto con i principi della CEDU, ha imposto la rimessione
della relativa questione alla Corte costituzionale, la configurabilità dell’occupazione appropriativa come illecito di natura istantanea e la conseguente applicabilità del termine di prescrizione quinquennale costituisce il frutto di un orientamento
giurisprudenziale la cui modificazione richiede soltanto l’applicazione del principio secondo cui il diritto interno dev’essere interpretato in conformità della Convenzione, ed il conseguente adeguamento alle norme della stessa che tutelano l’aspettativa del privato al conseguimento del risarcimento del danno.
8.1. — Il motivo è fondato.
Nel dichiarare prescritto il diritto al risarcimento dei danni, la sentenza impugnata ha richiamato il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento all’ipotesi in cui la Pubblica Amministrazione abbia occupato un fondo di proprietà privata per la costruzione di un’opera pubblica, secondo
cui, qualora tale occupazione fosse illegittima fin dall’origine, per totale mancanza
di un provvedimento autorizzatorio, o lo sia divenuta in seguito, per decorso del
relativo termine di durata, la radicale trasformazione del fondo, con la sua irreversibile destinazione alla realizzazione dell’opera pubblica, comporta l’estinzione del
diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione dello stesso a titolo originario da parte dell’ente costruttore, configurandosi al tempo stesso come un
fatto illecito, istantaneo ma con effetti permanenti, che abilita il privato a chiedere

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le dichiarata dalla sentenza impugnata. Aggiungono che, mentre l’impossibilità di

la condanna dell’ente pubblico a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, nel termine prescrizionale di cinque anni previsto dall’art. 2947
cod. civ. (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 6 maggio 2003, n. 6853; Cass., Sez. I,

accertato che l’opera pubblica era stata realizzata durante il periodo di occupazione legittima, la decorrenza del termine di prescrizione è stata ancorata alla data di
cessazione della stessa, anche in tal caso conformemente all’orientamento della
giurisprudenza di legittimità, che fa coincidere con la predetta data il perfezionamento della fattispecie estintivo-acquisitiva di cui all’art. 936 cod. civ., cui viene
ricondotta la fattispecie in esame, a meno che la trasformazione irreversibile del
fondo nei sensi precedentemente indicati non abbia avuto luogo in epoca successiva alla predetta scadenza (cfr. Cass., Sez. I, 30 marzo 2007, n. 7981; 8 febbraio
2006, n. 2824; 17 febbraio 2004, n. 3007).
Il predetto orientamento è stato peraltro oggetto di rimeditazione, in epoca
recente, alla luce delle gravi difficoltà determinate dall’accertamento del momento
genetico della vicenda estintivo-acquisitiva, in dipendenza della variabilità dei criteri a tal fine elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina, e soprattutto dell’incertezza obiettivamente riscontrabile nell’individuazione del momento in cui il
fondo perde definitivamente i suoi caratteri originari per ricevere la destinazione
pubblicistica. E’ stata sottolineata, in particolare, l’imprevedibilità dei risultati derivanti dall’applicazione di un istituto di origine giurisprudenziale, come quello in
esame, a fattispecie realizzatesi in epoca anteriore alla sua emersione normativa,
verificatasi soltanto per effetto della entrata in vigore della legge del 27 ottobre
1988, n. 458: al riguardo, sono state richiamate le numerose condanne pronunciate
nei confronti dello Stato italiano dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a causa

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26 maggio 2006, n. 12626; 17 febbraio 2004, n. 3007). Nella specie, essendo stato

della violazione del principio di legalità ricollegabile, nei predetti casi, alla mancanza di una tutela reale ed efficace a fronte dell’ingerenza illegittima della Pubblica Amministrazione nella proprietà privata. Si è rilevato che, proprio in appli-

avvertito l’esigenza di ancorare la prescrizione all’esistenza di norme di diritto interno sufficientemente accessibili, chiare e prevedibili, mediante l’affermazione
che, ove il danno si sia verificato anteriormente all’entrata in vigore della citata
legge n. 458 del 1988, il termine per la proposizione dell’azione risarcitoria deve
essere fatto decorrere dalla data in cui, attraverso il riconoscimento degli effetti
dell’occupazione acquisitiva, la vicenda è divenuta normativamente percepibile
(cfr. Cass., Sez. 1, 18 settembre 2013, n. 21333; 26 marzo 2013, n. 7583; 28 luglio
2008, n. 20543). Sono state infine evidenziate le complesse problematiche derivanti dalla diversità delle situazioni che possono condurre all’acquisto della proprietà in favore dell’Amministrazione e dall’incidenza dell’eventuale impugnazione degli atti del procedimento espropriativo, nonché dalla varietà degli atti, posti
in essere dal proprietario o dall’ente pubblico, ai quali la giurisprudenza ha riconosciuto efficacia interruttiva della prescrizione.
Alla luce di tali difficoltà, è stata ritenuta necessaria una riconsiderazione
dell’intero sistema fondato sulla coincidenza del dies a qua della prescrizione con
il momento della verificazione dell’evento materiale dannoso. A tal fine, è stata
richiamata la più recente giurisprudenza in materia di responsabilità aquiliana,
che, ponendo in risalto il ruolo svolto dal danno quale elemento costitutivo della
fattispecie illecita, ricollega la decorrenza del termine di prescrizione dell’azione
risarcitoria al momento in cui esso si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile, con l’uso dell’ordinaria diligenza, quale danno

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cazione dei principi enunciati dalla Corte EDU, la giurisprudenza di legittimità ha

conseguente al comportamento doloso o colposo del suo autore (cfr. Cass., Sez.
Un., 11 gennaio 2008, n. 576; Cass., Sez. lav., 15 aprile 2013, n. 9071; Cass., Sez.
III, 2 febbraio 2007, n. 2305). Tale principio è stato ritenuto applicabile anche alla

proprietario è costretto a subire gli effetti di un’attività svolta dalla Pubblica Amministrazione in violazione delle norme che disciplinano i casi ed i modi per il sacrificio della proprietà privata a fini pubblici, senza peraltro poter disporre fin dall’inizio degli elementi conoscitivi funzionali all’esercizio della pretesa risarcitoria,
soprattutto a causa dell’incertezza riguardante l’individuazione del momento in cui
si verifica l’ablazione della proprietà. E’ stato quindi affermato che, ai fini della
decorrenza della prescrizione, non è sufficiente che il proprietario sia consapevole
di aver subìto un’occupazione e/o una manipolazione dell’immobile senza titolo,
occorrendo invece che egli sia in grado di apprezzare la gravità delle conseguenze
lesive che ne derivano per il suo diritto dominicale, soprattutto in relazione al verificarsi dell’effetto estintivo-acquisitivo perseguito dall’Amministrazione; è stato
infine precisato che, in ossequio al principio secondo cui incombe sul debitore che
eccepisca la prescrizione l’onere di provare la ricorrenza del presupposto richiesto
dall’art. 2947 cod. civ., spetta all’Amministrazione fornire la prova del momento
in cui la perdita della proprietà è stata percepita o avrebbe potuto essere percepita
quale danno ingiusto ed irreversibile, dovendo altrimenti concludersi per la coincidenza di tale momento con la proposizione della domanda volta ad ottenere il
riconoscimento del controvalore dell’immobile, incompatibile con il perdurare del
diritto dominicale sullo stesso (cfr. Cass., Sez. I, 17 aprile 2014, n. 8965).
Alla stregua di tale principio, non possono condividersi le conclusioni cui è
pervenuta la sentenza impugnata, la quale, rilevato che la domanda giudiziale era

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fattispecie dell’occupazione acquisitiva, la cui caratteristica risiede nel fatto che il

stata proposta ad oltre cinque anni di distanza dal momento in cui, per effetto della cessazione dell’occupazione legittima, la trasformazione irreversibile del fondo,
conseguente alla realizzazione dell’opera pubblica, ne aveva determinato l’acqui-

risarcimento, senza neppure porsi il problema dell’individuazione del momento in
cui l’attrice aveva acquisito piena consapevolezza della portata lesiva del predetto
evento. Tale indagine nella specie era resa ancor più necessaria dalla circostanza
che l’occupazione era venuta a scadere non solo prima che l’occupazione appropriativa trovasse consacrazione a livello normativo nella legge n. 458 del 1988,
ma addirittura prima che tale istituto emergesse nell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, fino ad allora saldamente attestata sul principio che escludeva
la perdita del diritto di proprietà da parte dell’espropriato, riconoscendo a quest’ultimo il risarcimento del danno per l’occupazione illegittima, e ravvisando nella fattispecie un illecito a carattere permanente (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 13
febbraio 1980, n. 1016; Cass., Sez. I, 18 agosto 1981, n. 4932; 17 luglio 1979, n.
4172).
9. — Resta conseguentemente assorbito il decimo motivo, con cui i ricorrenti
hanno denunciato, in riferimento agli artt. 24, 42, 111 e 117 Cost., l’illegittimità
costituzionale degli artt. 934 e ss. cod. civ., dell’art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,
dell’art. 55 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 e degli artt. 2935 e 2947 cod. civ.,
nella parte in cui fanno decorrere dalla scadenza del periodo di occupazione legittima la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per occupazione appropriativa, anche nel caso in cui tale evento si sia verificato in epoca anteriore all’elaborazione di tale istituto da parte della giurisprudenza.

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sto in favore dell’Amministrazione, ha dichiarato senz’altro prescritto il diritto al

10. — La sentenza impugnata va dunque cassata, nei limiti segnati dai motivi
accolti, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello di Messina, che
provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudi-

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi due motivi del ricorso, accoglie il terzo, il settimo ed il
nono motivo, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte d’Appello di Messina, anche per la liquidazione delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 28 aprile 2014, nella camera di consiglio della Prima
Sezione Civile

zio di legittimità.

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