Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21580 del 22/08/2019

Cassazione civile sez. II, 22/08/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 22/08/2019), n.21580

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16215-2015 proposto da:

S.D., in proprio e nella qualità di presidente del

CONSORZIO IRRIGUO ROGGIA NUOVA, LUOTTO E FOLLA MARANGOLE,

rappresentato e difeso dall’Avvocato FRANCESCO MAURICI e

dall’Avvocato FABRIZIA MAURICI, presso il cui studio a Pavia, via

Roma 8, elettivamente domicilia per procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.D.G., rappresentato e difeso dall’Avvocato LORIANA

ZANUTTIGH e dall’Avvocato LUCA GIUSTI, presso il cui studio a Roma,

viale Angelico 92, elettivamente domicilia per procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4251/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

9/5/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica, Dott. CAPASSO LUCIO, il quale

ha concluso per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso;

sentito, per il controricorrente, l’Avvocato LORIANA ZANUTTIGH.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Pavia, con sentenza del 3/5/2010, ha accertato che C.G., titolare dell’azienda agricola “(OMISSIS)”, con sede in (OMISSIS), ha il diritto di ricevere, per l’irrigazione dei suoi terreni, un quantitativo di acqua pari a 200 litri/secondo, da derivarsi dalla roggia (OMISSIS) attraverso il cavo (OMISSIS), ed ha dichiarato che il Consorzio Irriguo Roggia Nuova, Luotto e Folla Marangole, a tal fine convenuto in giudizio unitamente, tra gli altri, a S.D., suo presidente, non ha il diritto di opporvisi.

Il tribunale, inoltre, dopo aver dato atto che, nella primavera del 2003, S.D., nella duplice veste di presidente del Consorzio e di comproprietario della vicina “(OMISSIS)”, aveva impedito l’erogazione dell’acqua dovuta alla “(OMISSIS)”, ha condannato lo S. ed il Consorzio, in solido tra loro, al risarcimento dei danni conseguentemente arrecati alla coltura del riso ivi praticata, che ha liquidato, all’esito di consulenza tecnica d’ufficio, nella somma di Euro 14.844,00, oltre interessi e rivalutazione.

S.D., in proprio e nella qualità di presidente del Consorzio, con atto notificato il 18/6/2011, ha proposto appello avverso tale sentenza, denunciandone l’erroneità, tra l’altro, per: – non avere rilevato che la scrittura privata del 9/4/1976, con la quale era stato regolamentato l’esercizio del diritto di derivazione d’acqua, prevedeva che tale diritto venisse esercitato non già in località Sairanino, ove il C. aveva lamentato l’interruzione del deflusso dell’acqua, ma a circa un chilometro di distanza da quel punto, ove esiste un misuratore, dovendosi escludere, per il disposto dell’art. 1091 c.c., che il diritto di derivazione d’acqua possa sussistere in un luogo diverso da quello previsto per la consegna, e che l’avente diritto poteva destinare all’irrigazione delle trecento pertiche di terreno agricolo a suo tempo vendutegli dagli S. e non anche all’irrigazione delle ulteriore 1600 pertiche che fanno parte della (OMISSIS) di sua proprietà; – non avere rilevato l’inammissibilità dell’azione risarcitoria poichè la coltivazione del riso sarebbe stata introdotta abusivamente dal C. sulle trecento pertiche costituenti la cd. (OMISSIS), previa distruzione di un bosco in un’area protetta, con un comportamento abusivo accertato da ben due sentenza del tribunale di Pavia del 2002 e del 2006; – per aver dichiarato la decadenza della prova per testi di tale V., indicato da entrambe le parti ed al quale l’attore non avrebbe rinunciato.

L’appellante, quindi, ha chiesto che, in riforma della sentenza appellata, fosse dichiarata la nullità della citazione introduttiva del giudizio di primo grado e, in subordine, venisse disposto l’esame del teste V., e, nel merito, che tutte le domande proposte dall’attore fossero respinte.

C.G. ha resistito all’appello chiedendo l’integrale conferma della sentenza del tribunale.

La corte d’appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello ed ha, per l’effetto, confermato integralmente la sentenza di primo grado.

La corte, in particolare, per quanto ancora interessa, dopo aver premesso, in fatto, che: – l’ospedale (OMISSIS), quale proprietario dei poderi (OMISSIS) e (OMISSIS), si era obbligato, con contratto stipulato nel 1928, a somministrare ai fratelli S., proprietari della (OMISSIS), il quantitativo d’acqua indicato alla clausola 2 della predetta scrittura, con le modalità ivi indicate; – il diritto di ricevere l’acqua (“da derivarsi dalla roggia (OMISSIS)…”) accordato dall’ospedale nel 1928 è stato, in seguito, trasferito dagli S. al C. con l’atto a mezzo del quale gli stessi hanno venduto a quest’ultimo le trecento pertiche del terreno agricolo per la cui irrigazione era stata a suo tempo pattuita con l’ente pubblico l’istituzione del diritto di derivazione d’acqua; – l’appellante non ha contestato nè che il C. sia proprietario del fondo di trecento pertiche, accorpato alla (OMISSIS) per formare una più vasta proprietà, della superficie complessiva di 1900 pertiche, nè che lo stesso sia titolare del diritto di derivazione d’acqua; ha evidenziato come il tema essenziale, ai fini della soluzione delle controversia, è quello di stabilire se tale diritto di derivazione d’acqua possa essere esercitato, nei limiti quantitativi di 200 litri al secondo, unicamente per l’irrigazione delle trecento pertiche (cd. “terreni della (OMISSIS)”) in precedenza indicate oppure se, al contrario, fermo restando il predetto limite quantitativo, l’acqua derivata dalla roggia (OMISSIS) possa essere impiegata anche (o esclusivamente) per l’irrogazione di altri campi compresi nella (OMISSIS). La corte, al riguardo, ha evidenziato come a tale questione fosse arduo dare una risposta solo in base alla lettera del contratto del 1928, nella quale v’è un chiaro riferimento alla destinazione dell’acqua da derivare dalla roggia (OMISSIS) all’irrigazione dei terreni della (OMISSIS), con la previsione della facoltà dell’ospedale di ridurre i due moduli alla quantità effettivamente necessaria alla (OMISSIS): all’epoca della pattuizione, ha osservato la corte, non si era ancora verificato l’accorpamento delle trecento pertiche alla maggiore superficie della (OMISSIS) in capo ad un unico proprietario; tale mutamento della situazione di fatto si è verificato solo a distanza di vari decenni. Non pare consentito, quindi, ha aggiunto la corte, fare riferimento al mero dato testuale della scrittura del 1928 per ricavarne un limite che si potrebbe definire “di destinazione” (e cioè l’irrigazione delle trecento pertiche), oltre che quantitativo (di 200 litri al secondo), all’esercizio del diritto di derivazione dell’acqua. Tale limitazione, però, ha proseguito la corte, non solo non si rinviene in un titolo, come, ad esempio, il contratto con il quale gli stessi S. hanno ceduto al C. la proprietà delle trecento pertiche, con l’inerente diritto di derivazione d’acqua, ma neppure risulta che le parti abbiano allegato che una pattuizione in tal senso ci sia stata: piuttosto, ha aggiunto la corte, tale limitazione “risulta smentita dallo stesso comportamento concludente delle parti, se è vero, come vari testi hanno confermato, che l’acqua ricevuta in forza del diritto di derivazione d’acqua istituito con la convenzione del 1928 era stata utilizzata da C. a sua discrezione per le esigenze delle coltivazioni risicole della sua (OMISSIS) fin dal 1985 e che solo nel 2003, come denunciato prima con il ricorso ex art. 700 c.p.c. e poi con l’atto di citazione introduttivo della fase di merito, gli S. intesero far valere… una limitazione alla possibilità di utilizzo dell’acqua della quale non si erano occupati nei diciotto anni precedenti”.

Nè, ha concluso la corte, può ritenersi che l’art. 1091 c.c., che disciplina gli obblighi del concedente fino al luogo di consegna dell’acqua, possa costituire il fondamento della pretesa di escludere che il quantitativo di due moduli d’acqua possa essere prelevato anche in un punto diverso da quello pattuito nella scrittura del 1928, considerato che non viene dedotto che lo spostamento del luogo di derivazione dell’acqua abbia comportato un aggravio delle opere la cui esecuzione è disciplinata dalla predetta norma, mentre non costituisce materia controversa la verifica della corrispondenza fra la quantità effettivamente derivata a favore dei fondi della (OMISSIS) e quella consentita in forza della scrittura del 1928.

La corte, quindi, ha esaminato la questione relativa all’ammissibilità delle pretese risarcitorie azionate dal C. relativamente ai danni alle colture risicole la cui effettuazione costituirebbe, a sua volta, un illecito per le distruzioni a tal fine provocate all’habitat naturale, con la conseguente irrogazione, ai danni dello stesso, di sanzioni amministrative le cui opposizioni sono state respinte dal tribunale di Pavia con sentenze, divenute irrevocabili, del 2002 e del 2006. La corte, sul punto, anche a voler prescindere dalle “pur fondate obiezioni dell’appellato circa la tardività e, quindi, la inammissibilità della produzione di tale sentenza solo in… appello”, ha ritenuto che l’argomento dell’appellante fosse inconsistente, in mancanza della prova “che i terreni sui quali C. compì gli abusi sanzionati dalle autorità competenti fossero proprio quelli la cui coltivazione venne pregiudicata nel 2003 dalla sospensione dell’erogazione dell’acqua irrigua”.

La misura del risarcimento, ha aggiunto la corte, liquidato dal tribunale sulla scorta di una consulenza tecnica d’ufficio eseguita a tale scopo, “non ha formato oggetto di contestazione” con l’atto d’appello ed ha, quindi, ritenuto che non fosse necessario nè consentito soffermarsi sul tema.

Quanto, infine, alla mancata assunzione della testimonianza di V., la corte ha evidenziato che le conclusioni istruttorie precisate dall’appellante all’udienza del 21/5/2014 difettavano del grado di specificità minimo indispensabile per provocare una decisione sul punto del giudice dell’appello dal momento che l’appellante si è limitato a concludere nel senso di “disporre l’escussione del teste geom. V.E.”, senza alcuna specificazione delle circostanze sulle quali dovrebbe essere condotto l’esame e che non possono essere implicitamente ricavate dal giudice dell’appello attraverso la consultazione degli atti del procedimento di primo grado.

S.D., in proprio e nella qualità di presidente del Consorzio Irriguo Roggia Nuova, Luotto e Folla Marangole, con ricorso spedito per la notifica il 27/5/2015, ha chiesto, per sette motivi, la cassazione della sentenza resa dalla corte d’appello.

Ha resistito, con controricorso notificato il 2/7/2015, C.G. il quale ha anche depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.In via preliminare, la Corte rileva che il ricorso, essendo stato inviato alla Cancelleria a mezzo posta in data 12/6/2015, risulta essere stato senz’altro depositato nel rispetto del termine di venti giorni dalla sua notificazione (eseguita in data 27/5/2015) stabilito dal comb. disp. dell’art. 369 c.p.c. e art. 134 disp. att. c.p.c., commi 1 e 5.

2.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione di norme di diritto ed, in particolare, degli artt. 1083,1084,1091,1275 e 1411 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver individuato il titolo costitutivo del diritto di derivazione d’acqua azionato dal titolare della (OMISSIS) nel contratto stipulato nel 1928, poi riprodotto nella scrittura privata del 9/4/1976, non ha considerato che tale scrittura (mai menzionata nella sentenza) reca un contratto costitutivo di servitù a favore del terzo, vale a dire la (OMISSIS), che la corte ha violato sotto due profili: – innanzitutto, perchè ha escluso che fosse consentito fare riferimento al mero dato testuale della scrittura del 1928 per ricavarne un limite di destinazione, e cioè l’irrigazione delle trecento pertiche, laddove, al contrario, il predetto titolo consente al proprietario del fondo dominante di destinare due moduli d’acqua solo all’irrigazione della (OMISSIS), con il corrispondente diritto dei contraenti originari al rispetto della predetta destinazione, posto che il terzo non può unilateralmente modificare gli elementi essenziali del contratto; – in secondo luogo, perchè ha contestato la pretesa di escludere che il quantitativo di due moduli d’acqua potesse essere prelevato anche in punto diverso da quello pattuito nella scrittura del 1928, in tal modo pretendendo ancora una volta di modificare le pattuizioni contenute nel titolo stesso in violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1411 c.c., comma 2 e art. 1065 c.c..

2.2. La corte, in definitiva, ha concluso il ricorrente, ha

violato: – gli artt. 1083 e 1084 c.c., perchè non ha ritenuto vincolante, per il terzo proprietario del fondo dominante, lo scopo di destinazione della servitù determinata nel titolo; – gli artt. 1084 e 1091 c.c., perchè ha affermato che il luogo di consegna dell’acqua può essere unilateralmente spostato dal terzo proprietario del fondo dominante nonostante sia determinato dal titolo; – l’art. 1372 c.c., comma 1 e art. 1411 c.c., perchè ha statuito che il terzo proprietario può unilateralmente modificare, senza il consenso dei contraenti originari, gli elementi essenziali del contratto, come la destinazione dell’acqua ed il luogo di consegna; – l’art. 1411 c.c., comma 2, nella parte in cui prescrive che il terzo acquista il diritto per effetto della stipulazione, la quale può essere revocata o modificata solo dallo stipulante fino a che il terzo non abbia dichiarato di volerne profittare.

3. 1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione di norme di diritto ed, in particolare, degli artt. 1083 e 1084 c.c., art. 1350 c.c., n. 4, art. 2725 c.c., comma 1 e art. 2729 c.c., comma 2, la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.nonchè la violazione dei principi in materia di acquiescenza desumibili dall’art. 329 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, per respingere la deduzione con la quale gli S. avevano sostenuto che il diritto d’acqua era stato concesso solo per l’utilizzo del solo fondo di trecento pertiche, costituenti la (OMISSIS), e che il suo trasferimento aveva riguardato solo tale fondo, ha elaborato una motivazione perplessa, illogica e manifestamente infondata, in quanto tutte le argomentazioni della corte sono tese a contrastare il significato e la portata del titolo adducendo presunzioni, peraltro non precise, nè gravi, nè concordanti, che, a norma dell’art. 2729 c.c., comma 2, sono inammissibili in quanto la legge esclude la prova per testimoni.

3.2. In particolare, ha osservato il ricorrente, la corte ha ritenuto che, all’epoca della pattuizione, non si era ancora verificato l’accorpamento delle trecento pertiche alla maggiore superficie della (OMISSIS) in capo ad un unico proprietario e che tale mutamento della situazione di fatto si è verificato solo a distanza di vari decenni, con la conseguenza che non era consentito fare riferimento al mero dato testuale della scrittura del 1928 per ricavarne un limite “di destinazione” (e cioè l’irrigazione delle trecento pertiche), oltre che quantitativo (di 200 litri al secondo), all’esercizio del diritto di derivazione dell’acqua. Tuttavia, ha osservato il ricorrente, non si comprende per quale motivo il C., dopo l’accorpamento, potesse unilateralmente, senza neppure consultare l’Ospedale (OMISSIS), far prevalere la sua volontà e disattendere non solo il limite di destinazione ma anche quello quantitativo.

3.3. La sentenza, inoltre, ha proseguito il ricorrente, ha evidenziato che una tale limitazione non si rinviene in un titolo, come il contratto con il quale gli stessi S. avevano ceduto al C. la proprietà delle trecento pertiche. Sennonchè, ha osservato il ricorrente, se il contratto non è stato prodotto, non si può logicamente sostenere che tale limitazione non si rinviene nel contratto di vendita della (OMISSIS).

3.4. La corte d’appello, poi, ha aggiunto il ricorrente, ha rilevato che non risulta che le parti avessero allegato che una pattuizione in tal senso ci fosse stata laddove la sentenza di primo grado riconosce che gli S. hanno sostenuto che il trasferimento riguardava solo le trecento pertiche ed hanno per tale motivo sostenuto che il diritto d’acqua era stato concesso per l’utilizzo solo delle trecento pertiche e non per l’intera (OMISSIS).

3.5. La sentenza impugnata, infine, ha osservato il ricorrente, ha ritenuto che la pretesa limitazione “risulta smentita dallo stesso comportamento concludente delle parti, se è vero, come vari testi hanno confermato, che l’acqua ricevuta in forza del diritto di derivazione d’acqua istituito con la convenzione del 1928 era stata utilizzata da C. a sua discrezione per le esigenze delle coltivazioni risicole della sua (OMISSIS)”. In realtà, ha osservato il ricorrente, innanzitutto è difficile che i testimoni, e cioè un consulente dell’attore e gli altri figli dello stesso, di cui uno collaboratore del padre nell’azienda, siano attendibili quando riferiscono circostanza a lui favorevoli; inoltre, non sono ammesse testimonianze contro l’atto costitutivo delle servitù. D’altra, ha proseguito il ricorrente, l’acquiescenza, come emerge dall’art. 329 c.p.c., deve risultare da un’accettazione espressa, che non è stata neppure addotta, oppure da atti incompatibili con la volontà di contestare: nel caso in esame, la semplice tolleranza di un comportamento lesivo non può essere considerata come un atto incompatibile con la volontà di contestarlo, tanto più che, al momento in cui la violazione del vincolo di destinazione è stata dedotta in giudizio, il termine per l’usucapione non era trascorso.

3.6. In definitiva, ha concluso il ricorrente, la sentenza impugnata ha violato gli artt. 1083 e 1084 c.c. e art. 1350 c.c., n. 4, richiamato dall’art. 2725 c.c., comma 2, perchè prescinde dalla prova del vincolo mediante atto scritto, l’art. 2729 c.c., comma 2, c.c., per aver ammesso presunzioni inammissibili essendo necessaria la prova scritta degli elementi essenziali del contratto costitutivo di servitù, ed ha falsamente applicato l’art. 2728 c.c., comma 1, per aver addotto presunzioni non gravi, nè precise nè concordanti in contrasto con il titolo della servitù che la sentenza individua nella scrittura del 1976, violando i principi generali in materia di acquisizione desumibili dall’art. 329 c.p.c..

4. Il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente per l’intima connessione dei temi trattati, sono infondati.

4.1. Intanto, l’appello che il ricorrente ha, a suo tempo, proposto, per come incontestatamente ricostruito nella sentenza impugnata, non risulta aver in alcun modo investito la questione relativa alla vincolatività, nei confronti del terzo proprietario del fondo dominante, del vincolo di destinazione della servitù indicato nel titolo, al pari di quelle concernenti la possibilità per il terzo proprietario del fondo dominante di modificare unilateralmente il luogo di consegna dell’acqua indicato dal titolo e gli elementi essenziali del contratto senza il consenso dei contraenti originari.

Ed è, invece, noto che i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001). Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004; più di recente, Cass. n. 20694 del 2018), qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti essere stata trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione d’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto.

4.2. Quanto al resto, la Corte rileva che il ricorrente non si è realmente confrontato con la ratio sottostante alla decisione che ha impugnato: la quale, in effetti (dopo aver preso atto che l’invocata limitazione all’esercizio del diritto di derivazione dell’acqua non era contenuta nel contratto con il quale gli S. avevano ceduto al C. la proprietà del fondo di trecento pertiche: e la prova di tale pattuizione, ove mai formalmente dedotta in giudizio, non poteva che spettare al convenuto, che ne aveva, a suo dire, espressamente invocato la sussistenza, quale fatto impeditivo della pretesa fatta valere dall’attore), lungi dal disattendere – a mezzo di asserite presunzioni prive dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza e comunque inammissibili in materia sottratta alla prova testimoniale – le risultanze asseritamente inequivoche del titolo costitutivo del diritto azionato dall’attore, e cioè il contratto stipulato nel 1928 tra l’Ospedale e gli S., ha, più semplicemente, provveduto, com’era suo dovere,

all’interpretazione dello stesso senza limitare la sua valutazione, come prevede l’art. 1362 c.c., comma 1, alla lettera della scrittura che lo contiene ma valutando, come stabilito dal comma 2 del predetto articolo, il comportamento tenuto dalle parti successivamente alla sua stipulazione: ed, in considerazione di tale comportamento (“se è vero, come vari testi hanno confermato, che l’acqua ricevuta in forza del diritto di derivazione d’acqua istituito con la convenzione del 1928 era stata utilizzata da C. a sua discrezione per le esigenze delle coltivazioni risicole della sua (OMISSIS) fin dal 1985 e che solo nel 2003, come denunciato prima con il ricorso ex art. 700 c.p.c. e poi con l’atto di citazione introduttivo della fase di merito, gli S. intesero far valere… una limitazione alla possibilità di utilizzo dell’acqua della quale non si erano occupati nei diciotto anni precedenti”), ha ritenuto che il predetto contratto doveva essere interpretato nel senso che il diritto di derivazione d’acqua ceduto al C. poteva essere esercitato non già, come pretendeva l’appellante, unicamente per l’irrigazione delle trecento pertiche costituenti la cd. (OMISSIS) ma, al contrario, come invocato dall’attore, anche per l’irrogazione degli altri campi compresi nella (OMISSIS) di sua proprietà.

4.3. D’altra parte, l’interpretazione di un atto negoziale costituisce un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del cd. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione vigente ratione temporis, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360, c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 c.c. e ss. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.; Cass. n. 7927 del 2017). Costituisce, invero, principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte quello per cui, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può avere ad oggetto la ricostruzione della volontà delle parti (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.), che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi d’interpretazione dettati dal legislatore all’art. 1362 c.c. e ss. ovvero sul vizio (nella specie, però, non invocato dal ricorrente) di motivazione nei limiti previsti dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 23701 del 2016, in motiv.).

4.4. Il ricorrente, del resto, non ha provveduto, in ossequio al principio della specificità dei motivi del ricorso per cassazione, alla trascrizione delle clausole del contratto che la corte d’appello avrebbe malamente interpretato, limitandosi, sul punto, a trascrivere (p. 6 e 7 del ricorso) la ricostruzione che di tali clausola aveva dato il tribunale: ed è, invece, noto che la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, ha l’onere di specificare non solo i canoni ermeneutici che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma anche, onde consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina normativa, di accompagnare i rilievi a tal fine contenuti nel ricorso con la trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (Cass. n. 25728 del 2013).

4.5. D’altra parte, nei contratti soggetti, come quello in esame, alla forma scritta ad substantiam (art. 1350 c.c., n. 4), il criterio ermeneutico costituito dalla valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipula del rogito – che, in ogni caso, è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall’iniziativa unilaterale di una di esse (Cass. n. 12535 del 2012) – può essere senz’altro utilizzato per chiarire l’interpretazione del contenuto del contratto, per come desumibile dal testo (Cass. n. 11828 del 2018): e tale comportamento, a differenza del contratto come tale (art. 2725 c.c., comma 2), è senz’altro suscettibile di essere dimostrato in giudizio a mezzo di testimoni.

4.6. In ogni caso, “per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. n. 27136 del 2017; Cass. n. 6125 del 2014).

5.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione di norme di diritto ed, in particolare, degli artt. 1084 e 1091 c.c., art. 1350 c.c., n. 4, art. 2725 c.c., comma 1 e art. 2729 c.c., comma 2, la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e dell’art. 1068 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’art. 1091 c.c., che disciplina gli obblighi del concedente fino al luogo di consegna dell’acqua, non poteva fondare la pretesa di escludere che i moduli d’acqua potessero essere prelevati anche in un punto diverso da quello pattuito nella scrittura del 1928.

5.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello ha finito per ritenere che il luogo di consegna dell’acqua può essere spostato a monte, alla bocca della (OMISSIS), perchè non è stato dedotto che lo spostamento del luogo di consegna abbia comportato opere di manutenzione più gravose per il fondo servente.

Tale illazione, però, ha proseguito il ricorrente, contrasta con l’art. 1068 c.c., il quale consente lo spostamento del luogo di consegna o ad istanza del proprietario del fondo servente, che si è opposto, oppure del proprietario del fondo dominante, che deve, però, dimostrare che il cambiamento del luogo di consegna riesca per lui di notevole vantaggio e non reca danno al fondo servente: nella specie, il C. non ha offerto tale prova, sostenendo di avere il diritto, in forza del titolo, di prelevare l’acqua direttamente dalla bocca della (OMISSIS).

5.3. La sentenza, quindi, ha concluso il ricorrente, viola le norme previste dagli artt. 1084 e 1091 c.p.c., art. 1350 c.p.c., n. 4 e art. 2725 c.c., comma 1, perchè contrasta con il titolo di costituzione della servitù, che individua il luogo di consegna, e si fonda su semplici presunzioni irrazionali, applicando falsamente l’art. 2729 c.c., commi 1 e 2 e l’art. 1068 c.c..

6.1. Il motivo è infondato. Intanto, l’appello che il ricorrente ha proposto, per come incontestatamente ricostruito nella sentenza impugnata, non risulta aver avuto ad oggetto la questione relativa alla liceità, o meno, del trasferimento dell’esercizio della servitù in luogo diverso da quello stabilito nel titolo, a norma dell’art. 1068 c.c.. E si è già detto che i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti per cui, ove una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti essere stata trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione d’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ma ciò, nella specie, non risulta essere accaduto.

6.2. Il ricorrente, per il resto, non si confronta con la sentenza impugnata: la quale, infatti, senza procedere ad alcun ragionamento presuntivo, si è limitata ad affermare, con statuizione rimasta sul punto incensurata, che la norma invocata dall’appellante (v. la sentenza impugnata, p. 4), e cioè l’art. 1091 c.c., che disciplina gli obblighi del concedente fino al luogo di consegna dell’acqua, non può costituire il fondamento della sua pretesa di escludere che i due moduli d’acqua possano essere prelevati anche in un punto diverso da quello pattuito nella scrittura del 1928.

7.1. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha escluso che le sentenze del tribunale di Pavia del 2002 e del 2006, prodotte in appello, dimostrassero che il C. aveva abusivamente introdotto la coltivazione del riso mediante lo sbancamento del bosco e il livellamento del suolo.

7.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che, a parte la loro natura di fatto notorio, sicchè non può prospettarsene l’inammissibilità ai sensi dell’art. 345 c.p.c., la prova dell’abusivo sbancamento si ricava agevolmente dagli atti di causa: il C., infatti, è proprietario soltanto della (OMISSIS) e della (OMISSIS); inoltre, come emerge dalla planimetria allegata alla consulenza tecnica di parte, mai contestata, la (OMISSIS) e la (OMISSIS) confinano con il Ticino: ed è notorio che tali aree non possono essere sbancate o livellate.

7.3. La sentenza, quindi, ha concluso il ricorrente, ha violato l’art. 115 c.p.c., per non aver posto a fondamento della decisione gli elementi di prova proposti dagli S. e i fatti notori come le sentenze del tribunale di Pavia del 2002 e del 2006.

8.1. Il motivo è infondato. Il ricorrente, in effetti, incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016). Tale violazione, dunque, non può essere ravvisata – come invece pretende il ricorrente nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre: “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra pero nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016, in motiv.).

8.2. La valutazione degli elementi istruttori costituisce, in effetti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento

discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): del resto, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008). L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, invero, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 17097 del 2010; Cass. n. 19011 del 2017). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), invero, il giudice civile, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, può ben valutare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti (Cass. n. 11176 del 2017).

9. Con il quinto motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115,191 e 195 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello non si è pronunciata sulle censure con le quali lo stesso, nell’atto d’appello, aveva lamentato che la relazione del consulente tecnico d’ufficio era carente, per la mancata menzione della normativa del parco del Ticino con la proiezione cartografica in sovrapposizione alla planimetria dei fondi appartenenti al C., oltre che nulla in quanto fondata su documenti acquisiti in violazione dell’art. 183 c.p.c., n. 2 e priva di precise indicazioni circa i danni pretesi in citazione.

10.1. Con il sesto motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che la misura del danno liquidato dal tribunale sulla scorta di una consulenza tecnica eseguita a tale scopo, non aveva formato oggetto di contestazione in sede di appello.

10.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che, nell’atto d’appello, era stato dedotto che, in mancanza di prova che al tempo dei fatti il deflusso delle acque del luogo della consegna sia stato inferiore a due moduli al secondo, il C. non aveva diritto ad alcun risarcimento dei danni, non avendo provato nè la violazione del preteso diritto, nè la diminuzione del flusso delle acque alla bocca di consegna nè di aver il diritto di destinare le acque all’irrigazione anche delle pertiche acquistate da soggetti diversi dagli appellanti. D’altra parte, ha aggiunto il ricorrente, i testimoni hanno confermato che, nell’annata agraria del 2003, l’acqua del cavo (OMISSIS) ha irrigato la (OMISSIS).

10.3. La sentenza, quindi, ha concluso il ricorrente, ha violato l’art. 115 c.p.c., per non aver posto a fondamento della decisione le deduzioni degli appellanti in ordine alla mancanza di prove.

11.1. Il sesto motivo è infondato. Il ricorrente, infatti, ancora una volta non si confronta con la sentenza impugnata: la corte d’appello, infatti, ha escluso che fosse stato oggetto di contestazione con l’atto d’appello non già la sussistenza di danni risarcibili (vale a dire l’an del diritto al relativo risarcimento), che l’appellante, in effetti, per quanto esposto in ricorso, aveva contestato, quanto solo la “misura” degli stessi, e cioè il quantum.

11.2. Per il resto, non può che ribadirsi come ancora una volta il ricorrente sia incorso nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio. E si è, invece, già osservato che il ricorrente può dedurre in cassazione la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. solo quando alleghi che, rispettivamente, il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione.

12. Rimane, conseguentemente, assorbito il quinto motivo, che riguarda la completezza e la validità di una consulenza tecnica d’ufficio dichiaratamente volta solo a stabilire la misura dei danni arrecati, il cui accertamento, sia nell’an, che (a questo punto) nel quantum, è, oramai, definitivo.

13.1. Con il settimo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per falsa applicazione degli artt. 342 e 35(2) c.p.c. e 104 disp.att. c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, relativamente al motivo con il quale lo S. e il Consorzio avevano lamentato la mancata assunzione della testimonianza del geom. V.E., ha ritenuto che le conclusioni istruttorie precisate all’udienza del 21/5/2014 difettassero del grado di specificità minimo indispensabile per provocare una decisione sul punto da parte del giudice d’appello, essendosi l’appellante limitato a concludere nel senso di “disporre l’escussione del teste V.E.”, senza altra specificazione in ordine alle circostanze sulle quali l’esame avrebbe dovuto essere condotto e che non possono essere ricavate dal giudice d’appello attraverso la consultazione degli atti del procedimento di primo grado.

13.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, la sentenza ha confuso l’obbligo di specificazione delle censure nell’atto d’appello con le determinazioni necessariamente sintetiche delle domande formulate in sede di precisazione delle conclusioni, configurando, peraltro, un’insussistente preclusione per il giudice di esaminare il fascicolo di primo grado. L’atto d’appello, peraltro, contiene la specifica motivazione della censura in ordine alla mancata escussione del testimone che la sentenza ha trascurato di esaminare.

14. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente per cassazione, il quale denunci la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 23194 del 2017). Nel caso in esame, invece, il ricorrente non ha riprodotto, in ricorso, le circostanze sulle quali il testimone avrebbe dovuto essere sentito nè ha dimostrato l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice e neppure che la pronuncia impugnata, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, in tal modo pregiudicando l’ammissibilità della censura svolta.

15. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

16. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

17. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2019

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