Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21569 del 07/10/2020

Cassazione civile sez. II, 07/10/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 07/10/2020), n.21569

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4934-2016 proposto da:

B.D., rappresentato e difeso dall’Avv. CESARE BENAZZI, ed

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Luisella

Valentino, in ROMA, Circ.ne NOMENTANA 214;

– ricorrente –

contro

M.T., rappresentata e difesa dall’Avvocato CLAUDIA

TASSINARI, ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv.

Giovanni Porcelli, in ROMA, VIA MALCESINE 30;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1615/2015 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA

pubblicata in data 1/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/07/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 17 maggio 2000, B.D., deducendo di essere comproprietario insieme a M.T. di una area cortiliva (catastalmente distinta al foglio (OMISSIS)) conveniva la medesima in giudizio per sentirla condannare alla demolizione della struttura in muratura e della adiacente struttura di vetro e metallo realizzate dalla stessa in occasione della ristrutturazione della propria abitazione, nella parte in cui invadevano l’area cortiliva asseritamente comune.

La convenuta si costituiva in giudizio contestando la domanda attorea e chiedendo in via riconvenzionale l’accertamento della intervenuta usucapione della stessa area cortiliva nella parte circostante la propria abitazione (ai mappali (OMISSIS), attualmente mappali (OMISSIS)) e l’accertamento dell’acquisto per accessione degli immobili ivi insistenti. Chiedeva inoltre la condanna dell’attore alle demolizione del bagno dallo stesso costruito sulla restante area cortiliva adiacente alla propria abitazione.

Con deposito di memoria ex art. 183 c.p.c., comma 5, l’attotre a sua volta integrava le rassegnate conclusioni, chiedendo l’accertamento della usucapione dell’area cortiliva sottostante il bagno e l’acquisto della proprietà per accessione della struttura sovrastante a proprio favore.

Istruita la causa, con prove documentali e testimoniali, interrogatorio formale della convenuta e Ctu, il Tribunale di Ferrara rigettava la domanda attorea ed accertava il possesso continuato per oltre vent’anni, derivante dal possesso della erede M.T. unito a quello del de cuius M.A., dell’area in contestazione, limitatamente alla porzione circostante l’abitazione di parte convenuta e, per l’effetto, dichiarava l’avvenuto acquisto della proprietà per usucapione e ne ordinava il frazionamento catastale, dichiarando l’avvenuto acquisto della proprietà per accessione dei manufatti ivi insistenti; nel contempo accoglieva la domanda riconvenzionale di parte attorea, accertando il possesso continuato per oltre vent’anni, derivante dalla somma del possesso dell’erede B.D. con quello del de cuius B.L., della porzione cortiliva su cui era stato realizzato il bagno a servizio della abitazione dell’attore e dichiarava l’avvenuto acquisto dell’area per usucapione e della propeietà del manufatto ivi insistente per accessione.

Contro tale sentenza proponeva appello il B., contestando il verificarsi della sussistenza dei presupposti della usucapione in favore della convenuta della porzione dell’area cortiliva in contestazione a lei riconosciuta.

Si costituiva anche la M. che chiedeva la conferma della sentenza di primo grado, rinunciando all’appello incidentale per la parte della sentenza favorevole alla controparte.

Con sentenza n. 1615/2015, pubblicata in data 1.10.2015, la Corte d’appello di Bologna, rigettava l’appello e confermava la decisione di primo grado.

Avverso questa pronuncia, B.D. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi; resiste M.T. con controricorso. Ciascuna delle parti ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: (la) violazione e falsa applicazione dell’art. 1140 c.c. in rapporto agli artt. 1141 e 1102 c.c.”, per avere ritenuta compiuta l’usucapione delle aree cortilive comuni sulla base di circostanze di fatto accertate, ma irrilevanti ai fini dell’accertamento di un effettivo possesso ad usucapendo, e dunque per effetto di falsa interpretazione e violazione di legge.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della mera indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016). Infatti, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

1.3. – Viceversa, il motivo in esame risulta configurato in termini di prospettazione di una diversa soluzione decisionale, la quale tuttavia presuppone la complessiva rivisitazione della fattispecie in esame, sulla base di una differente generale lettura del quadro probatorio, finalizzata ad una globale contestazione (in termini di negazione) circa la sussistenza in capo alla controricorrente dei requisiti per riterere dalla medesima usucapita l’area cortiliva in esame.

Ma come detto, la allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna al paradigma dell’esatta interpretazione della norma di legge; essa infatti inerisce alla tipica valutazione spettante al giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, entro i limiti del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5: (l’omesso esame del fatto decisivo oggetto di discussione ed emergente dagli atti di causa: l’area cortiliva antistante a sud del fabbricato (mappale (OMISSIS)) appare dalla Ctu inequivocabilmente priva di ostacoli o impedimenti al libero godimento da parte di tutti i comproprietari. Tale circostanza di fatto, ignorata dai giudici di appello è decisiva facendo escludere che tale area sia mai stata posseduta e quindi usucapita dalla M. e/o dal suo dante causa”.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – E’ consolidato il principio per cui il paradigma del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12.9 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 1.10.2015) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Ma nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di tutti i siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro, non v’è idonea e specifica indicazione. Laddove, poi, va rilevato che è altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per lamentarsi, in termini generali, di una motivazione non corretta (Cass. n. 27415 del 2018); giacchè in esso non risulta inquadrabile (e quindi evocabile) la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 26305 del 2018).

2.3. – Pertanto, l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 6368 del 2019; Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016). Essendo, infatti, riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di appello sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

2.4. – Va allora rilevato che, in sostanza, la censura si risolve altresì nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Il ricorso è dunque inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2020

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