Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21568 del 07/10/2020

Cassazione civile sez. II, 07/10/2020, (ud. 26/06/2020, dep. 07/10/2020), n.21568

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4459/2016 R.G. proposto da:

D.V.P., in proprio e quale procuratrice di

F.S.N., rappresentati e difesi dall’avv. Pasquale Iannarelli,

elettivamente domiciliati in Roma, Via di Pietralata n. 320 D/4,

presso l’avv. Gigliola Mazza Ricci;

– ricorrenti –

contro

D.A., D.A.L. E D.A.D., rappresentati

e difesi dall’avv. Raffaele Carone, con domicilio eletto in Roma, al

Viale Pinturicchio 204, presso l’avv. Elio Capodaglio;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari n. 1874/2015,

depositata in data 19.11.2015;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26.6.2020 dal

Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.A., D.A.L. e D.A.D. hanno adito il Tribunale di Lucera, esponendo di esser comproprietari, per successione ereditaria, di una fascia di terreno edificabile situata alla (OMISSIS), estesa mq 390,00 (censita in catasto al foglio (OMISSIS)), che si interponeva tra altri immobili di proprietà degli attori e le porzioni dei convenuti; di aver sempre pagato gli oneri fiscali relativi a detta fascia di terreno, consentendo alle controparti di utilizzarla per mera cortesia e di depositarvi taluni attrezzi agricoli; di aver sollecitato la restituzione dell’immobile con raccomandata del 4.5.2005, senza sortire alcun effetto.

Hanno chiesto il rilascio del fondo, con regolazione delle spese.

Si sono costituiti i convenuti, resistendo alla domanda ed instando in via riconvenzionale per far dichiarare l’intervenuta usucapione del bene.

Esaurita la trattazione, il tribunale ha respinto la domanda di rilascio, ha accolto la riconvenzionale e ha regolato le spese.

La sentenza è stata integralmente riformata in appello.

La Corte barese ha escluso che gli appellati avessero dato prova dell’elemento soggettivo del possesso ad usucapionem, rilevando che essi erano a conoscenza che i D. avevano continuato a versare le imposte relative all’immobile ed erano quindi consapevoli dell’impossibilità di disporre del bene in via esclusiva.

Ha poi osservato che, sebbene ai fini dell’animus possidendi si possa prescindere dalla conoscenza dell’altrui diritto sulla res, occorreva però considerare che i testi di parte convenuta avevano confermato la disponibilità del terreno da parte dei coniugi F.- D.V. e quindi l’esistenza del corpus possessionis, ma che i testi di parte attrice avevano riferito che il bene era stato utilizzato per mera cortesia e che il possesso era stato semplicemente tollerato.

La cassazione della sentenza è chiesta da D.V.P., in proprio e quale procuratrice di F.N.S., con ricorso in cinque motivi, illustrati con memoria.

D.A., D.A.L. e D.a.D. hanno depositato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Sono infondate le eccezioni di inammissibilità del ricorso.

Per effetto delle modifiche all’art. 366 bis c.p.c., introdotte dalla L. n. 69 del 2009, artt. 47 e 58, (applicabili ai ricorsi per cassazione proposti nei confronti di sentenze pubblicate a partire dal 4 luglio 2009), non era necessaria la formale proposizione di un quesito di diritto a pena di inammissibilità dell’impugnazione.

Inoltre il ricorso chiarisce – in modo adeguato – le ragioni di dissenso rispetto alla pronuncia di secondo grado, sollevando contestazioni riconducibili alle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c..

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1158,1141 e 1144 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la sentenza ritenuto che il pagamento degli oneri fiscali da parte dei resistenti costituisse circostanza idonea ad escludere l’animus possidendi, e per non aver considerato che l’elemento soggettivo del possesso ad usucapionem può essere desunto dalla lunga durata del possesso – protrattosi, nello specifico, a far data dal dal 1972 – elemento la cui valenza presuntiva non poteva essere negata, considerata anche la natura dei rapporti di mera amicizia intrattenuti dalle parti, incompatibili con la concessione in godimento del bene per mera cortesia.

Il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1, avendo la sentenza definito le questioni in diritto in modo conforme agli orientamenti di legittimità, senza che il ricorso offra spunti per rimeditare le soluzioni fin qui accolte.

Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte di merito non ha valorizzato, il solo pagamento delle imposte relative all’immobile per cui è causa da parte degli appellanti – quale circostanza contraria alla sussistenza dell’animus possidendi avendo evidenziato che le dichiarazione dei testi degli appellati dimostravano solo il corpus possessionis, non che il potere di fatto fosse stato esercitato con la consapevolezza e la volontà di escludere il compossesso degli altri eredi.

La pronuncia è – in definitiva – conforme all’indirizzo di questa Corte secondo cui chi agisce per far accertare l’usucapione della proprietà è tenuta a dimostrare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie e quindi non solo del corpus, ma anche dell’animus, sicchè la carenza di prova di uno solo di essi di per sè giustifica il rigetto della domanda (Cass. 14092/2010; Cass. 22667/2017; Cass. 15145/2004).

La Corte di merito ha inoltre rilevato che i convenuti era consapevoli che i titolari avevano continuato a versare le imposte sull’immobile, ed ha conferito a tale circostanza un valore rafforzativo delle dichiarazioni dai testi riguardo al fatto che il possesso fosse stato esercitato per mera condiscendenza dei titolari.

In tale contesto, il pagamento delle imposte, noto ai possessori, era elemento di cui la pronuncia ha legittimamente tenuto conto, trattandosi di circostanza avente il medesimo rilievo, agli effetti di cui si discute, del pagamento delle quote condominiale, trattandosi in entrambi i casi del versamento di pesi ed oneri relativi al bene che, in quanto noto al possessore, poteva concorrere ad escludere l’elemento soggettivo del possesso.

Come statuito dai precedenti richiamati dal giudice distrettuale, l’elemento psicologico, consistente nella volontà del possessore di comportarsi e farsi considerare come proprietario del bene, può essere desunto dalle concrete circostanze di fatto che caratterizzano la relazione con il bene e può essere escluso qualora l’intestatario del bene non abbia dismesso l’esercizio del diritto di proprietà, ma abbia continuato ad esercitare i relativi diritti e facoltà o a far fronte ai corrispondenti obblighi (Cass. 9530/2014; Cass. 4444/2007).

Sono infine incensurabili, in sede di legittimità, l’apprezzamento del giudice del merito circa il ricorso alla prova presuntiva e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, allorchè la motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni (Cass. 3974/2002; Cass. 11530/2002; Cass. 1216/2006; Cass. 5332/2007; Cass. 1234/2019), occorrendo rilevare come – nel caso concreto – la sentenza abbia disatteso la valenza presuntiva del lungo esercizio del possesso da parte dei ricorrenti alla luce di quanto dichiarato dai testi, secondo i quali il possesso era stato esercitato per mera cortesia, e a causa del pagamento delle imposte sull’immobile da parte dei resistenti.

3. Il secondo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la Corte distrettuale omesso di tener conto che i ricorrenti avevano contestato – nella comparsa di costituzione in appello – che le ricevute prodotte in giudizio fossero riferibili al pagamento delle imposte sull’immobile e che le prove articolate dai resistenti, volte a dimostrare il pagamento dei tributi, non erano state assunte, per cui tale circostanza era rimasta sfornita di supporto probatorio.

Il motivo è, sotto più profili, inammissibile.

Anzitutto, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 contempla un vizio della sentenza che ha riguardo alla mancata valutazione di un accadimento oggettivo, risultante dagli atti o dalla sentenza, posto a fondamento delle domande o delle eccezioni e non è riferibile alla condotta processuale delle parti (quali la contestazione di una data circostanza) che rilevi con riferimento alla possibilità di ritenere provato un dato accadimento oggettivo.

La censura si traduce, inoltre, in un’inammissibile critica alla valutazione delle risultanze processuali circa il versamento delle imposte sull’immobile da parte dei titolari proponendo – in definitiva – una questione di fatto rimessa al giudice di merito, peraltro invocando gli effetti di una contestazione formulata solo in appello e quindi tardivamente, dato l’obbligo delle parti di prendere posizioni sui fatti allegati a fondamento delle domande prima della maturazione delle preclusioni processuali di primo grado (Cass. 31402/2019; Cass. 22461/2015; Cass. 26859/2013).

4. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 112,115,116 c.p.c. e art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la Corte di merito ritenuto che dalle prove per testi fosse emerso che il bene era stato utilizzato per mera tolleranza, non dando conto in motivazione delle ragioni di siffatto convincimento ed omettendo di considerare la valenza presuntiva del lungo esercizio del potere di fatto risultante dalle dichiarazioni testimoniali, non smentite dalle deposizioni de relato actoris valorizzate in sentenza, alle quali non poteva attribuirsi alcun valore probatorio.

Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la sentenza attribuito rilievo probatorio dalle deposizioni di D.F. e D.M., pur trattandosi di deposizioni de relato actoris, non utilizzabili in giudizio.

Il quinto motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e la violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., per aver la sentenza omesso di motivare in ordine alla ritenuta utilizzabilità delle testimonianze de relato actoris.

Il tre motivi, che vertono su profili strettamente connessi e che vanno esaminati congiuntamente, sono inammissibili.

Nel respingere la domanda di usucapione la sentenza ha – con motivazione immune da vizi – considerato decisiva l’insussistenza di una prova rigorosa dell’elemento soggettivo del possesso, osservando che le prove testimoniali di parte convenuta davano conto dell’effettivo utilizzo del bene per custodire gli attrezzi agricoli, ma che le deposizioni dei testi di parte attrice avevano confermato che il possesso era iniziato a titolo di cortesia, per ragioni di buon vicinato e con l’impegno a restituire il bene a richiesta dei titolari. A conferma dell’insussistenza dell’animus possidendi, la sentenza ha poi tenuto conto del pagamento delle imposte sul bene, ritenendo che i ricorrenti avessero utilizzato l’immobile con la consapevolezza di non poterne disporre a titolo esclusivo.

Il dedotto vizio di motivazione appare – in realtà – volto a contrastare la sufficienza delle argomentazioni con cui la Corte ha ritenuto indimostrato il possesso ad usucapionem ad opera dei ricorrenti, trascurando che il controllo è in proposito circoscritto nei limiti di garanzia del minimo costituzionale ai sensi dell’art. 111 Cost., e quindi solo nei casi di mancanza dei motivi dal punto di vista grafico, della motivazione apparente e della presenza di affermazioni inconciliabili o di contraddittorietà che non consentano di individuare l’iter logico della pronuncia, restando escluse le censure di mera insufficienza o contraddittorietà della motivazione stessa (Cass. 23940/2017; Cass. 21257/2014; Cass. 13928/2015; Cass. s.u. 8053/2014).

Quanto alla violazione dell’art. 2967 c.c., la doglianza è inconferente poichè la lite non è stata definita in applicazione del criterio formale dell’onere della prova o facendo gravare su una parte che non ne era onerata l’onere di provare i fatti costitutivi dell’azione di usucapione. Analogamente, gli artt. 115 e 116 c.p.c. non consentono di sindacare – come invece propongono i ricorrenti – il modo in cui il giudice abbia valutato le risultanze di prova, questione che è rimessa al giudice di merito e che è regolata dal principio del libero convincimento (Cass. 23940/2017; Cass. 24434/2016; Cass. 27000/2016).

Quanto all’utilizzo delle deposizioni de relato actoris, va anzitutto rilevato che – come si evince dal contenuto delle deposizioni trascritte nel controricorso (cfr. pag. 10) – i testi aveva dichiarato non solo circostanze apprese dai danti causa degli attori (quanto all’aver consentito l’uso del bene per mera condiscendenza), ma anche fatti di cui avevano avuto conoscenza diretta (riguardo allo svolgimento di incontri tra le parti nel corso dei quali era stato riconfermato l’obbligo di restituire il bene a richiesta dei titolari).

In ogni caso, la testimonianza de relato actioris, pur avendo un valore probatorio fortemente attenuato, resta elemento di cui il giudice può tener conto ai fini della decisione nel contesto delle altre risultanze di causa (Cass. 18352/2013; Cass. 11733/2013; Cass. 11844/2006; Cass. 8358/2007). In sostanza, dette deposizioni come nei fatti ritenuto dal giudice di merito, in conformità all’orientamento prevalente di questa Corte, da cui non si ha ragione di dissentire – sono prive di forza probatoria ove isolatamente considerate, ma ciò non esclude che possano costituire – come nello specifico – la fonte del convincimento del giudice ove invece valutate unitamente alle altre emergenze processuali (Cass. 11844/2006). La scelta di tener conto di dette deposizioni non richiedeva una specifica motivazione, poichè il giudice, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni delle soluzioni accolte, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, risultino logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 16056/2016; Cass. 17097/2010; Cass. 12362/2006).

In definitiva il ricorso deve dichiararsi inammissibile, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4000,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, del comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2020

 

 

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