Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21567 del 18/09/2017


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Cassazione civile, sez. I, 18/09/2017, (ud. 17/05/2017, dep.18/09/2017),  n. 21567

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 16349/2015 R.G. proposto da:

L.E., rappresentato e difeso dagli Avv. Prof. Giuseppe

Greco e Ignazio Fiore, con domicilio eletto presso lo studio del

primo in Roma, via S. Caterina da Siena, n. 46;

– ricorrente e controricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA (OMISSIS) S.R.L. in liquidazione, in persona del

curatore p.t. Avv. I.G., rappresentato e difeso

dall’Avv. Leonardo Pallotta, con domicilio eletto in Roma, via Caio

Mario, n. 8;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

e

P.G.M.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 7769/14

depositata il 19 dicembre 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17 maggio 2017

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

uditi gli Avv. Greco, Pallotta e Orazi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del quarto motivo del ricorso principale e del

secondo motivo del ricorso incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il curatore del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione convenne in giudizio L.E., per sentirlo condannare, in qualità di amministratore di fatto della società fallita, al pagamento di una somma pari alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo realizzato, o di quella necessaria all’integrale soddisfacimento dei creditori.

A sostegno della domanda, affermò che il L. aveva attivamente partecipato alla gestione ed all’attività della società fallita, condizionandone le scelte strategiche ed operative per volgerle al conseguimento di propri fini personali, in modo tale da determinare il dissesto della società.

Si costituì il convenuto e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Il giudizio, dapprima riunito a quello promosso dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori di diritto e dei sindaci, ed avente anch’esso ad oggetto la condanna al risarcimento dei danni arrecati alla società, fu successivamente separato dallo stesso.

In seguito, spiegò intervento volontario P.G.M., già amministratore della società, il quale, premesso di essere stato condannato al risarcimento nell’altro giudizio, aderì alle difese del curatore, chiedendo accertarsi la responsabilità esclusiva del L., con la condanna dello stesso alla rivalsa delle somme dovute al fallimento.

1.2. Con sentenza del 20 luglio 2011, il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta dal curatore, condannando il L. al pagamento della somma di Euro 19.053.657,88, oltre interessi, e dichiarando invece inammissibile l’intervento del P..

3. L’impugnazione proposta dal L. è stata parzialmente accolta dalla Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 19 dicembre 2014 ha rideterminato in Euro 5.970.758,21, oltre interessi legali dalla domanda, la somma dovuta dall’appellante.

A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso che la separazione dei giudizi comportasse la nullità della sentenza di primo grado, osservando che tale provvedimento, non precluso dall’iniziale riunione e non lesivo dell’integrità del contraddittorio, trovava giustificazione nella circostanza che, mentre il giudizio promosso nei confronti degli amministratori di diritto era ormai maturo per la decisione, quello promosso nei confronti dell’amministratore di fatto richiedeva l’acquisizione di ulteriori elementi di prova, e segnatamente l’assunzione della prova testimoniale dedotta dal curatore.

Nel merito, la Corte ha ritenuto che lo svolgimento di fatto delle funzioni di amministratore da parte del convenuto fosse comprovato proprio dalle deposizioni rese dai testi, confermandone l’attendibilità: ha infatti escluso che la credibilità del teste R. fosse compromessa dall’insinuazione dello stesso al passivo del fallimento o dalla genericità della deposizione, rilevando che il coinvolgimento del L. avrebbe inciso esclusivamente sull’individuazione dei soggetti obbligati al pagamento, mentre l’oggetto della prova, costituito dall’intromissione nella gestione sociale, non richiedeva la specifica indicazione degli atti posti in essere; questi ultimi potevano d’altronde essere stati compiuti anche in un luogo diverso dalla sede della società, in considerazione della precisazione del teste, secondo cui le priorità individuate dai dirigenti dovevano comunque passare al vaglio del L.. La Corte ha altresì confermato l’attendibilità del teste M., osservando che la circostanza da lui riferita, secondo cui il L. aveva l’abitudine di partecipare alle riunioni del consiglio d’amministrazione, pur non rivestendo alcuna carica, confermava l’intromissione del convenuto nella gestione della società. Ha invece escluso la rilevanza della deposizione del teste Mi., rilevando che la dichiarazione negativa da lui resa poteva essere spiegata anche con l’ignoranza delle attività del L.. Ciò posto, la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza che il L. fosse socio della società fallita, osservando che tale posizione da un lato non era incompatibile con l’esercizio delle funzioni di amministratore, dall’altro non ne consentiva di per sè l’esercizio, potendo il socio concorrere esclusivamente all’approvazione del bilancio. Premesso che l’ingerenza del convenuto trovava giustificazione proprio nell’interesse personale alla gestione della società, sotteso al possesso delle relative azioni, ha ritenuto provato che nel corso degli anni egli avesse compiuto una pluralità di atti di pertinenza esclusiva degli amministratori.

Quanto ai danni arrecati alla società, la Corte ha ritenuto che la mancata riscossione dei crediti vantati dalla società fallita nei confronti della Publielle S.r.l. fosse astrattamente sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità del convenuto, indipendentemente dall’idoneità a determinare il dissesto della società; ne ha tuttavia escluso l’addebitabilità al L., rilevando che l’unico atto idoneo ad evitare il danno, consistente nella proposizione di una domanda giudiziale, richiedendo il conferimento della procura ad un avvocato, poteva essere compiuto esclusivamente dagli amministratori di diritto. Ha invece confermato la responsabilità del L. per l’erogazione della somma complessiva di Euro 11.000.000 circa in favore di due società facenti parte della compagine di quella fallita e da lui controllate, osservando che egli stesso aveva riconosciuto di essere possessore delle relative quote, ed affermando l’idoneità di tale circostanza a far presumere che egli avesse aderito alla decisione degli amministratori di erogare la predetta somma. Ha reputato irrilevante, al riguardo, la circostanza che il convenuto avesse immesso nelle casse sociali somme superiori a Lire 30.000.000.000, ritenendo non provato che le predette dazioni costituissero prestiti concessi alla società, idonei a far sorgere il diritto alla restituzione o suscettibili di compensazione.

La Corte ha poi escluso che il cumulo della condanna con quelle pronunciate nei confronti degli amministratori di diritto comportasse una locupletazione per la società, osservando che tale pericolo era scongiurato dall’espresso riferimento al carattere solidale dell’obbligazione. Rilevato peraltro che l’atto di mala gestio addebitato al L. aveva condotto alla condanna dello stesso al pagamento di una somma superiore a quella posta a carico degli altri amministratori, ha ritenuto che tale differenziazione, dovuta al riconoscimento della rivalutazione monetaria maturata tra le due sentenze di primo grado, non fosse compatibile con la solidarietà passiva e non potesse trovare giustificazione neppure nella separazione dei giudizi, oltre a trovare ostacolo nella trasformazione dell’obbligazione in debito di valuta, conseguente alla liquidazione della somma dovuta.

4. Avverso la predetta sentenza il L. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. Il curatore del fallimento ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, articolato in tre motivi, al quale il L. ha replicato con controricorso. Il P. non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, per violazione dell’art. 102 c.p.c. e degli artt. 2392, 2393 e 2394 c.c., nonchè del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 146, comma 2, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto legittima la separazione dei giudizi di responsabilità, nonostante la configurabilità di un litisconsorzio necessario di natura quanto meno processuale tra le parti. Premesso che la riunione dei giudizi trovava giustificazione nell’allegazione, a sostegno della domanda, di una condotta unitaria, attribuita collettivamente e collegialmente a tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nel controllo della società, afferma che il relativo accertamento poteva aver luogo soltanto nei confronti di tutti i compartecipi, determinandosi, per effetto della realizzazione del simultaneus processus, un cumulo processuale inscindibile.

1.1. Il motivo è infondato.

Premesso che il provvedimento di separazione delle cause non è di per sè censurabile in sede di legittimità, costituendo espressione di un potere discrezionale del giudice di merito (cfr. Cass., Sez. 6, 18/11/2014, n. 24496; Cass., Sez. 3, 8/09/2006, n. 19299; Cass., Sez. lav., 5/08/2003, n. 11831), deve escludersi che, nella specie, la trattazione separata delle cause connesse abbia impedito lo svolgimento del giudizio nei confronti di tutti i soggetti che avrebbero dovuto parteciparvi, con conseguente lesione dell’integrità del contraddittorio.

In tema di responsabilità degli amministratori di società, la giurisprudenza di legittimità è infatti orientata pacificamente nel senso che, ove l’azione venga proposta nei confronti di una pluralità di soggetti, in ragione della comune partecipazione degli stessi, anche in via di mero fatto, alla gestione amministrativa e contabile, tra i convenuti non si determina una situazione di litisconsorzio necessario, tenuto conto della natura solidale della obbligazione dedotta in giudizio, che, dando luogo ad una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, esclude l’inscindibilità delle posizioni processuali degli amministratori, consentendo quindi di agire separatamente nei confronti di ciascuno degli stessi (cfr. Cass., Sez. 1, 29/10/2013, n. 24632; 18/05/2012, n. 7907; 25/07/2008, n. 20476). Tale orientamento non trova smentita nei precedenti indicati dal ricorrente, i quali, nell’affermare l’inscindibilità delle azioni, in caso di fallimento della società, non si riferiscono alla posizione delle parti, ma alla confluenza delle azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., nell’unica azione di responsabilità contemplata dalla L. Fall., art. 146, esercitabile esclusivamente dal curatore, la cui autonomia rispetto alle prime, derivante dalla sua configurazione come strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato, a garanzia sia dei soci che dei creditori, implica una modifica della legittimazione attiva, ma non ne immuta i presupposti (cfr. Cass., Sez. 1, 20/09/2012, n. 15955; 21/06/2012, n. 10378; 23/06/2008, n. 17033).

La natura solidale della responsabilità consente di escludere anche la sussistenza di un litisconsorzio c.d. unitario o processuale, configurabile allorquando, in relazione alla disciplina sostanziale del rapporto, la legge estende a tutti gl’interessati gli effetti della pronuncia emessa nei confronti di uno soltanto di essi, ovvero nei casi in cui, una volta divenuti parti del giudizio (ad esempio, mediante la chiamata in causa iussu judicis o per effetto di successione a titolo universale o particolare), uno o più soggetti, che non siano litisconsorti necessari fin dall’origine, debbano rimanerlo in tutte le sue fasi. Tale situazione, ritenuta configurabile anche in tema di responsabilità, nel caso di proposizione in via alternativa di una domanda di risarcimento fondata su un unico fatto illecito nei confronti di una pluralità di soggetti (cfr. Cass., Sez. lav., 20/01/2016, n. 986; Cass., Sez. 3, 12/05/2014, n. 10243), non è ravvisabile in riferimento all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di società, ciascuno dei quali è chiamato a rispondere del proprio comportamento, giustificandosi il nesso di solidarietà in virtù dell’apporto personale fornito alla produzione dei danni complessivamente arrecati alla società, con la conseguenza che, sotto il profilo processuale, il cumulo soggettivo passivo non dà luogo all’inscindibilità delle cause.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la falsa applicazione degli artt. 2392,2393 e 2394 c.c., sostenendo che, nel ravvisare nel suo comportamento un’ingerenza nell’amministrazione della società, la sentenza impugnata non ha considerato che a tal fine non è sufficiente un’attività caratterizzata da continuità e sistematicità, occorrendo altresì il connotato della completezza, il quale implica che l’attività debba svolgersi in tutti gli ambiti tipici della gestione amministrativa, ed in particolare attraverso il compimento di atti conformativi dell’operato della società ed aventi rilevanza esterna. A tal fine, non potevano considerarsi sufficienti le attività d’interlocuzione con gli amministratori di diritto, prodromiche alla formazione dei bilancio ed all’individuazione di linee di condotta nella gestione di trattative commerciali, ben potendo le stesse provenire da un socio, e non essendo stato provato il diretto esercizio di poteri gestionali da parte di esso ricorrente o il suo intervento nei rapporti con i terzi, non accertabili in via presuntiva o sulla base di mere illazioni.

2.1. Il motivo è infondato.

Ai fini dell’affermazione della responsabilità del ricorrente, in qualità di amministratore di fatto della società fallita, la sentenza impugnata si è infatti attenuta, pur senza richiamarlo espressamente, al principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la predetta figura ricorre allorchè un soggetto si sia ingerito nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, sia pure irregolare o implicita, sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale (cfr. Cass., Sez. 1, 5/12/2008, n. 28819; 14/09/1999, n. 9795).

Lo svolgimento delle predette funzioni, ravvisabile nell’assoggettamento della società alle direttive impartite dal soggetto privo d’investitura e, in linea più generale, dal condizionamento esercitato da quest’ultimo sulle scelte operative (cfr. Cass., Sez. 1, 1/03/2016, n. 4045; Cass., Sez. 5, 5/02/2014, n. 2586; 12/03/2008, n. 6719), è stato correttamente desunto da una pluralità di elementi emersi dalle deposizioni dei testi, e segnatamente dalla sottoposizione di tutte le decisioni assunte dagli amministratori al vaglio del L., nonchè dalla sistematica partecipazione del convenuto alle riunioni del consiglio di amministrazione, non giustificata dalla mera qualità di socio che egli rivestiva all’interno della società. E’ proprio il carattere continuativo di tale intervento, attestante la pervasività del controllo esercitato sulla gestione sociale, a far apparire giustificate le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito, non risultando una così ampia intromissione riconducibile all’ordinaria interlocuzione tra soci ed amministratori; il carattere esclusivo della competenza spettante a questi ultimi nella gestione dell’impresa sociale esclude d’altronde che, al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o dallo statuto, la relativa discrezionalità possa subire restrizioni, non giustificate dalla mera attribuzione all’assemblea del potere di approvare i bilanci e di determinare gl’indirizzi generali dell’attività sociale.

Non può d’altronde condividersi neppure la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente, secondo cui il riconoscimento della qualità di amministratore di fatto postulerebbe un’ingerenza nella gestione sociale non solo continuativa e sistematica, ma estesa “a tutti gli ambiti tipici della gestione amministrativa”, in tal senso dovendosi intendere il requisito della completezza più volte menzionato dalla giurisprudenza di questa Corte: l’analisi dei precedenti segnalati dimostra infatti che non è affatto richiesta la riferibilità degli atti compiuti all’intero spettro delle attività amministrative, risultando sufficiente un intervento incisivo e non occasionale, che, in quanto idoneo ad influenzare le scelte imprenditoriali in settori chiave, sia tale da improntare di sè l’operato complessivo della società. In quest’ottica, pur dovendosi riconoscere che un siffatto condizionamento non può non trasparire nei rapporti con i terzi, deve altresì escludersi la necessità che esso si traduca nel diretto compimento di atti a rilevanza esterna, risultando invece sufficiente che le determinazioni riguardanti la gestione sociale siano riconducibili alla volontà dell’amministratore di fatto, eventualmente anche in concorso con l’amministratore di diritto, il quale non deve necessariamente rivestire il ruolo di mero prestanome (cfr. al riguardo Cass. pen., Sez. 5, 19/09/2008, n. 35955, De Carolis).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2392,2393,2394 e 2697 c.c., osservando che, nell’addebitargli le erogazioni effettuate dalla società fallita in favore delle società controllanti, in virtù della mancata dimostrazione del suo dissenso dalle relative decisioni, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministratore di fatto, la quale, imponendo al danneggiato l’onere di provare l’effettiva partecipazione del soggetto estraneo all’attività dannosa, così come il nesso causale e il danno lamentato, escludeva la possibilità di desumere tale prova dalla mera titolarità delle quote delle società beneficiarie dei rimborsi.

3.1. Il motivo non merita accoglimento, pur dovendosi procedere, ai sensi dell’art. 384c.p.c., u.c., alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo sul punto risulta peraltro conforme al diritto.

Premesso infatti che, come correttamente osservato dalla sentenza impugnata, l’amministratore di fatto è titolare, nello svolgimento della sua gestione, dei medesimi poteri degli amministratori di diritto, ed è correlativamente assoggettato agli obblighi previsti dalla legge, ivi compreso, ai sensi dell’art. 2392 c.c. (nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), quello generale di vigilanza sull’andamento della gestione, il quale non viene meno neppure in caso di attribuzione di determinate funzioni al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori, deve ritenersi superflua l’indagine compiuta dalla Corte di merito in ordine al consenso prestato dal ricorrente all’effettuazione dei versamenti eseguiti dalla società fallita in favore delle controllanti, in quanto, non essendo stato neppure dedotto il suo dissenso da tali operazioni, incombeva al L. l’onere di provare che, pur essendosi diligentemente attivato a tal fine, non aveva potuto esercitare la predetta vigilanza, a causa della condotta ostativa degli altri amministratori (cfr. Cass., Sez. 2, 13/05/2010, n. 11643; Cass., Sez. 1, 11/11/2010, n. 22911; 29/08/2003, n. 12696). Non dovendosi accertare il consenso del ricorrente alle operazioni, non può assumere alcun rilievo, ai fini dell’accertamento della responsabilità, la circostanza che il ricorrente fosse titolare di quote di partecipazione alle società beneficiarie dei versamenti, la cui portata pregiudizievole doveva d’altronde considerarsi in re ipsa, non essendone stata neppure prospettata una possibile giustificazione causale. Conseguentemente, non risulta necessario, in questa sede, stabilire il titolo della responsabilità dell’amministratore di fatto, la cui individuazione, com’è noto, è ancor oggi controversa, nonostante l’opinione favorevole alla natura contrattuale, chiaramente espressa in passato da questa Corte (cfr. Cass., Sez. 1, 14/09/1999, n. 9795).

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in via subordinata, la falsa applicazione dell’art. 1241 c.c. e la violazione degli artt. 1223 e 2056 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’accertamento del danno derivante dalle erogazioni effettuate in favore delle società controllanti, ha ritenuto irrilevanti i versamenti da lui eseguiti in favore della società fallita. Afferma infatti che la Corte d’appello avrebbe dovuto procedere ad una valutazione non atomistica dell’attività da lui asseritamente svolta nella gestione amministrativo-patrimoniale della società fallita, quanto meno ai fini della compensatio lucri cum damno, da ritenersi nella specie ammissibile, in considerazione dell’unitarietà del rapporto nello ambito del quale avevano avuto luogo esborsi ed introiti.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente insiste sull’omessa valutazione dei versamenti da lui effettuati, sostenendo che dagli stessi avrebbe dovuto evincersi che egli non aveva alcun interesse ad indurre gli amministratori della società fallita a rimborsare alle società controllanti le somme erogate.

6. I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti.

profili diversi della medesima questione, sono infondati.

Nel contestare l’accertato depauperamento della società fallita in conseguenza dei versamenti eseguiti in favore delle società controllanti, il ricorrente ripropone sostanzialmente le censure mosse alla sentenza di primo grado, ribadendo il già dedotto collegamento funzionale con gl’importi da lui immessi nelle casse sociali per il tramite delle predette società e lamentandone la valutazione atomistica, senza però censurare il rilievo della Corte di merito, secondo cui, non essendo stato dimostrato che quelli ricevuti dalla società fallita costituissero dei prestiti, doveva escludersi il diritto delle società controllanti alla restituzione. Tale conclusione deve ritenersi pienamente condivisibile, in quanto conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno tuttavia una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio, con la conseguenza che essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società, e possono essere chiesti dai soci in restituzione soltanto per effetto dello scioglimento della società, e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (cfr. Cass., Sez. 1, 23/03/2012, n. 2758; 31/03/2006, n. 7692).

Non essendo configurabile un credito esigibile delle società controllanti, risulta incensurabile anche l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui i predetti versamenti non erano suscettibili di compensazione con quelli ricevuti dalla società fallita. Peraltro, anche a voler ritenere che, come sostiene il ricorrente, l’effetto da lui invocato consistesse non già nella compensazione legale, ma nella compensatio lucri cum damno, avrebbe dovuto ugualmente escludersi la fondatezza dell’eccezione: il principio secondo cui, ove dal fatto dannoso derivi qualche vantaggio per il danneggiato, deve tenersene conto nella liquidazione del danno, sottraendolo dal risarcimento, è infatti applicabile esclusivamente nel caso in cui il pregiudizio e l’incremento patrimoniale costituiscano la conseguenza diretta ed immediata del medesimo fatto (cfr. Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., Sez. lav., 12/09/2008, n. 23563; Cass., Sez. 3, 22/06/2005, n. 13401); nella specie, invece, l’incremento patrimoniale ed il pregiudizio riportati dalla società fallita avevano il loro titolo in fatti diversi, e precisamente nei versamenti reciprocamente effettuati dalla stessa e dalle società controllanti in esecuzione delle determinazioni rispettivamente adottate.

7. Con il primo motivo del ricorso incidentale, il curatore del fallimento deduce la falsa applicazione degli artt. 1223,2056,2392,2393,2394 e 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la responsabilità del L. per la mancata riscossione dei crediti vantati dalla società fallita nei confronti della Publielle, in ragione della natura omissiva della condotta addebitata e della mancata prova del nesso causale con il danno lamentato. Premesso che non era stato provato che l’unico atto idoneo a recuperare le somme fosse la proposizione della domanda giudiziale, per la quale occorreva il conferimento del mandato ad un avvocato, osserva che la Corte d’appello non ha tenuto conto del condizionamento esercitato dall’amministratore di fatto sull’operato degli amministratori di diritto, i quali si limitavano ad eseguire le decisioni del L..

7.1. Il motivo è fondato.

Pur riconoscendo la portata pregiudizievole del mancato recupero dei crediti vantati nei confronti della Publielle, in quanto idonea a determinare una corrispondente riduzione del patrimonio della società fallita e quindi della garanzia dei creditori, la sentenza impugnata ha infatti escluso la sussistenza del nesso causale tra il predetto evento e la condotta tenuta dal ricorrente, in virtù di un giudizio controfattuale imperniato sulla necessità del conferimento di una procura ad litem ad un avvocato, ai fini della riscossione, e sulla conseguente inidoneità di un eventuale intervento del L. ad impedire il danno, per difetto della legittimazione a rilasciare la predetta procura.

In quanto incardinato sul carattere meramente informale del condizionamento esercitato dall’amministratore di fatto sulla gestione della società, e sulla conseguente carenza del potere di rappresentare la società nei rapporti con i terzi, il predetto ragionamento non può essere peraltro condiviso, ponendosi in contrasto con l’essenza stessa del fenomeno in esame: questo ultimo si caratterizza infatti proprio per la mancanza di un’investitura formale, cui fa però riscontro, sotto il profilo sostanziale, un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, consentendo all’amministratore di fatto di esercitare, sia pure indirettamente, poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, i quali, quando non si limitano ad agire come meri prestanomi del dominus, concorrono con l’amministratore di fatto nella conduzione dell’impresa sociale, se del caso assumendo collegialmente le relative decisioni, e dandovi esecuzione di comune accordo. La natura del fenomeno è stata riconosciuta dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale, pur appellandosi alla carenza di potere rappresentativo per giustificare il mancato riconoscimento all’amministratore di fatto dei diritti che competono al fallito nell’ambito della procedura fallimentare, ha tenuto a distinguere il dato formale inerente all’individuazione del legale rappresentante della società da quello sostanziale riguardante l’accertamento della responsabilità per gli atti di gestione (cfr. Cass., Sez. 1, 13/12/2013, n. 22957; 23/04/2003, n. 6478).

In quest’ottica, la mera impossibilità di conferire direttamente la procura ad un avvocato, in virtù del difetto del potere di rappresentare la società nei rapporti con i terzi, non poteva essere considerata di per sè idonea ad interrompere il nesso eziologico con il danno derivante dal mancato recupero dei crediti vantati dalla società fallita, in quanto, essendo stato accertato il condizionamento esercitato dal L. sulla gestione della medesima società, in particolare attraverso la sottoposizione di ogni decisione alla sua approvazione, non poteva escludersi la sua capacità di provocare in proposito una determinazione del consiglio di amministrazione e di promuoverne l’esecuzione attraverso gli amministratori di diritto, unici soggetti legittimati a rappresentare anche processualmente la società.

8. Con il secondo motivo, il controricorrente lamenta la falsa applicazione degli artt. 1224,1277,2392,2393 e 2394 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la possibilità di liquidare il risarcimento dovuto dall’amministratore di fatto in misura diversa da quella posta a carico degli amministratori di diritto. Sostiene infatti che, indipendentemente dalla diversità dei fattori che hanno determinato le rispettive condanne, il risarcimento doveva essere liquidato in riferimento all’epoca del relativo accertamento, non assumendo alcun rilievo la liquidazione compiuta nel giudizio promosso nei confronti degli obbligati solidali, in mancanza di una norma che preveda un collegamento funzionale della responsabilità e degli effetti del giudicato.

8.1. Il motivo è fondato.

Nel confermare la condanna del ricorrente al risarcimento del danno cagionato dalle erogazioni effettuate dalla società fallita in favore delle società controllanti, la Corte di merito ha infatti ritenuto di non poter liquidare, a titolo di risarcimento, un importo superiore a quello riconosciuto al fallimento, per il medesimo titolo, nel giudizio di responsabilità promosso nei confronti degli amministratori di diritto, affermando che la solidarietà passiva configurabile tra questi ultimi e l’amministratore di fatto escludeva la possibilità di una diversificazione del quantum debeatur, indipendentemente dalla separazione dei giudizi. In particolare, la sentenza impugnata ha escluso la possibilità di riconoscere, sulla somma liquidata, la rivalutazione monetaria maturata nel periodo trascorso tra le due decisioni, osservando che, una volta cristallizzato definitivamente con la prima sentenza, passata in giudicato, il debito risarcitorio si era trasformato in debito di valuta, non suscettibile di ulteriore rivalutazione, ma solo di adeguamento “nominalistico” per effetto dell’applicazione degl’interessi legali.

Tale ragionamento, nella parte concernente la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento, non appare condivisibile, non trovando giustificazione nel disposto dell’art. 1306 c.c., comma 2, il quale, nel consentire al debitore solidale di opporre ai creditore la sentenza più favorevole pronunciata nei confronti del condebitore, esclude, ove il primo abbia manifestato la volontà di avvalersi del giudicato, la possibilità di porre a suo carico un importo superiore a quello precedentemente liquidato nei confronti del secondo, ma non preclude l’ulteriore rivalutazione dell’importo riconosciuto: per ciascun debitore, la trasformazione dell’obbligazione risarcitoria da debito di valore in debito di valuta si verifica infatti soltanto per effetto della condanna pronunciata nei suoi confronti, con la conseguenza che, ferma restando la necessità che gl’importi liquidati in riferimento alla data del fatto illecito (c.d. aestimatio) si equivalgano, la maggior somma posta a carico del primo debitore viene a dipendere esclusivamente dal ritardo con cui, rispetto al secondo, ha avuto luogo l’adeguamento ai valori monetari attuali (c.d. taxatio) (cfr. Cass., Sez. 3, 11/04/1988, n. 2832). Non risulta pertinente, in contrario, il richiamo della sentenza impugnata ad un precedente della giurisprudenza di legittimità, il quale, nel confermare il riconoscimento al debitore della possibilità di avvalersi del giudicato formatosi nei confronti del debitore, non ha specificamente affrontato la questione in esame, essendosi limitato ad affermare che la trasformazione del credito di valore in credito di valuta non impedisce la produzione degli effetti previsti dall’art. 1224 c.c., nel periodo successivo alla liquidazione (cfr. Cass., Sez. 3, 8/03/2005, n. 5008).

9. Il ricorso principale va pertanto rigettato, mentre il ricorso incidentale va accolto, restando assorbito il terzo motivo, con cui il controricorrente ha denunciato la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., censurando il regolamento delle spese processuali risultante dalla sentenza d’appello.

10. La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, nei limiti segnati dai motivi accolti, con il rinvio della causa alla Corte d’Appello di Roma, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

rigetta il ricorso principale, accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Roma, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2017

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