Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21554 del 18/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 18/10/2011, (ud. 28/09/2011, dep. 18/10/2011), n.21554

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 5670-2010 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS) in persona del Responsabile della

Direzione Affari Legali della Società elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE EUROPA 190, presso l’AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO

della Società, rappresentata e difesa dagli avvocati URSINO ANNA

MARIA e ROSSANA CLAVELLI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato IACOBELLI GIANNI

EMILIO, che lo rappresenta e difende, giusta mandato speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1814/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

29.2.08, depositata il 24/03/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/09/2011 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO IANNIELLO.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. MASSIMO

FEDELI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

La causa è stata chiamata alla odierna adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c,, sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 c.p.c.:

“Con sentenza del 3 maggio 2007, il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda di G.A. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, di accertamento della nullità della clausola del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro, che stabiliva l’automatico collocamento a riposo del personale al raggiungimento della massima anzianità contributiva e pertanto di annullamento del conseguente atto di risoluzione del rapporto, con le conseguenze di cui all’art. 18 S.L..

Su appello della società Poste Italiane, la Corte d’appello di Roma ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, affermando che alla nullità della clausola del contratto collettivo prevedente la risoluzione automatica del rapporto, consegue unicamente la prosecuzione di quest’ultimo e condannando pertanto la società al risarcimento dei danni per non avere aderito alla richiesta del lavoratore di riattivazione del rapporto manifestata con l’offerta della propria prestazione.

Avverso tale sentenza propone ora ricorso per cassazione la società, deducendo:

– la violazione dell’art. 1372 c.c., per non avere accolto la deduzione di inammissibilità delle domande per intervenuta acquiescenza alla risoluzione del rapporto di lavoro;

– la violazione degli artt. 1229 e 1225 c.c. laddove la sentenza non aveva ritenuto di limitare la decorrenza del danno da risarcire al momento in cui il lavoratore aveva compiuto l’età pensionabile;

nonchè la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all’art. 79 del C.C.N.L., per non aver tenuto conto, in sede di determinazione del danno da risarcire, del concorso del comportamento del lavoratore, rimasto inerte per molti anni.

Resiste alle domande G.A. con controricorso.

Il procedimento, in quanto promosso con ricorso avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e antecedentemente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, è regolato dall’art. 360 e segg. c.p.c. con le modifiche e integrazioni apportate dal D.Lgs. citato.

Il ricorso è manifestamente infondato e va pertanto trattato in camera di consiglio per essere respinto.

Avendo riguardo ai quesiti di diritto, i quali, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. – applicabile ratione temporis al ricorso, ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 e art. 27, comma 2 delimitano il contenuto della censura svolta nei motivi cui si riferiscono, il primo motivo investe la sentenza della Corte territoriale laddove questa ha escluso che il solo comportamento omissivo tenuto per un certo tempo dal lavoratore in ordine all’atto datoriale di comunicazione della risoluzione del rapporto di lavoro configura una risoluzione di questo per mutuo consenso.

In proposito va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, è suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all’art. 1372 c.c., comma 1 il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalità di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volontà psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e ciò con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526).

Al riguardo, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403).

E’ poi consolidato l’orientamento secondo cui il relativo giudizio, sulla configurabilità o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se congniamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimità della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).

Ciò posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale, dichiarando che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto (in quanto tale effetto consegue dal concorso di altre circostanze significative), ha fatto corretta applicazione di tali principi al caso in esame, facendo riferimento proprio a valutazioni di tipicità sociale con riguardo alla semplice inerzia del G. nella situazione descritta, in cui il datore di lavoro non aveva dedotto alcuna circostanza significativa dell’assunto (e tenuto evidentemente conto delle circostanze notorie rappresentate dal tempo necessario a valutare l’eventuale illegittimità del termine e quindi rivolgersi al sindacato e/o all’avvocato, dalla necessità per quest’ultimo di impostare la causa e provvedere al tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. nonchè della altrettanto notoria circostanza relativa all’affidamento che il lavoratore “precario” normalmente fa sulla prospettiva di futuri contratti a termine – soprattutto nei riguardi di una società, come le Poste, che di tale tipologia contrattuale faceva al tempo ampio uso – e al timore di pregiudicare tale esito con l’iniziativa giudiziaria).

Una tale valutazione, proprio perchè ragionevolmente ancorata a parametri di tipicità sociale, non appare censurabile in questa sede di legittimità.

Il principio di diritto è pertanto nel senso che la mera inerzia del lavoratore nei confronti dell’atto di risoluzione del rapporto di lavoro comunicatogli dal datore di lavoro non è normalmente sufficiente a configurare una adesione implicita alla risoluzione di tale rapporto per mutuo consenso.

Quanto al secondo motivo, col quesito viene chiesto a questa Corte di affermare il principio di diritto secondo cui il diritto al risarcimento dei danni, in termini di retribuzioni perdute dal lavoratore nel caso di mancata riattivazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro a fronte della sua offerta della prestazione è limitato al periodo che si conclude con il raggiungimento dell’età pensionabile.

Tale motivo contrasta con la disciplina positiva che non prevede una tale limitazione, tenuto conto del fatto che, come rilevato dai giudici dell’appello, col compimento dell’età pensionabile il rapporto di lavoro non si estingue automaticamente, essendo infatti necessario allo scopo uno specifico atto di recesso, che la società avrebbe ben potuto adottare a seguito della offerta di prestazione (in data antecedente a quella in cui il G. avrebbe raggiunto l’età pensionabile) e non ha viceversa posto in essere”.

E’ seguita la rituale notifica della suddetta relazione, unitamente all’avviso della data della presente udienza in camera di consiglio.

G.A. ha depositato una memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Il Collegio condivide il contenuto della relazione, mentre ritiene infondata la deduzione di inammissibilità del ricorso per difetto del requisito della autosufficienza e per la non pertinenza dei quesiti formulati ex art. 366 – bis c.p.c. rispetto al caso di specie, avendo la relazione dato adeguatamente conto del contrario.

Il ricorso va pertanto respinto, con la conseguente condanna della società ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di questo giudizio, secondo la liquidazione fattane in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 30,00 per esborsi ed Euro 2.000,00, oltre accessori, per onorari, che distrae all’avv. Gianni, Emilio Iacobelli.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2011

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