Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21549 del 21/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 21/08/2019, (ud. 18/04/2019, dep. 21/08/2019), n.21549

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8359-2018 proposto da:

COOPMAR SOCIETA’ COOPERATIVA, in persona del Presidente e legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

VALGARDENA 35, presso lo studio dell’avvocato EUGENIA BARONE ADESI,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO MARIO

LABATE;

– ricorrente –

contro

C.S., domiciliato ope legis presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato

SABINA PIZZUTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1563/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 30/08/2017 R.G.N. 1139/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/04/2019 dal Consigliere Dott. LAURA CURCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato ANDREA SITZIA per delega avvocato ANTONIO LABATE;

udito l’avvocato STEFANO MATTEI per delega avvocato SABINA PIZZUTO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 30.8.2017 la corte d’appello di Catanzaro in sede di giudizio di rinvio ha accolto parzialmente il gravame della società Coopmar Soc. Cooperativa avverso la sentenza del Tribunale di Palmi del 1.7.2011 soltanto in punto riduzione del risarcimento del danno liquidato all’appellato C.S., confermando l’illegittimità del licenziamento comunicato al lavoratore dalla società in data 3.5.2005 per giustificato motivo soggettivo, previa contestazione di aver proferito frasi ingiuriose e minacce nei confronti del Presidente della cooperativa.

2. In particolare la sentenza di primo grado era stata riformata dalla corte d’appello di Reggio Calabria con sentenza dell’8.2.2013 che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento. La corte di cassazione, con sentenza n. 6165/2016, ha accolto il quarto motivo di gravame del C., ritenendo assorbiti gli altri, affermando il principio di diritto secondo cui a)” la pronuncia di espressioni sconvenienti non seguita dal passaggio a vie di fatto non realizza la fattispecie disciplinare di cui all’art. 35, lett. a.bis del CCNL Porti, applicato in azienda, del diverbio litigioso o oltraggioso seguito da via di fatto avvenuto all’interno dell’Azienda; b) il datore di lavoro non può comminare la sanzione risolutiva quando questa costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL in relazione ad una determinata infrazione, c) la gravità dell’infrazione non può ricavarsi unicamente dai precedenti disciplinari che costituiscono solo un parametro di valutazione che non può essere utilizzato per dare concretezza ad un addebito inidoneo ad integrare giusta causa o giustificato motivo di licenziamento”.

3. Sulla base di tale principio la corte di rinvio, esaminate anche le questioni dichiarate assorbite dalla cassazione, ha escluso che la contestazione contenesse qualsiasi addebito collegato alla simulazione della malattia ed ha escluso altresì che la reazione del lavoratore, avuta al cospetto del Presidente, dal tono apparentemente intimidatorio, avesse carattere di minaccia, per quanto le parole usate in dialetto fossero volgari ed animate, ma non ingiuriose e dunque non idonee ad essere univocamente considerate come potenzialmente funzionali a limitare la libertà morale del presidente.

4. L’impugnata sentenza ha poi rilevato che le parole usate neanche potevano concretare “gravi atti di insubordinazione”, come richiede la contrattazione collettiva, atteso che le espressioni provenivano da un lavoratore che protestava per il mancato pagamento delle retribuzioni.

5. E’ stato infine escluso che si potesse tener conto della caratura criminale del dipendente emersa grazie all’arresto avvenuto nel 2013, a distanza di 8 anni dal licenziamento, stante l’inidoneità dei crimini commessi a qualificare retrospettivamente la condotta sanzionata con tale provvedimento.

6. La corte ha quindi confermato l’illegittimità per sproporzione del licenziamento, accogliendo l’appello solo con riferimento alla riduzione del risarcimento, non dovuto per il periodo relativo alla carcerazione.

7. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Coopmar affidato ad un solo articolato motivo, a cui ha opposto difese il C. con controricorso, atti illustrati poi da memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Con l’unico motivo di gravame la Coopmar deduce la violazione dell’art. 612 c.p., degli artt. 2016 e 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 e dell’art. 35 del CCNL Porti del 2001: avrebbe errato la corte di rinvio ritenendo che le frasi proferite dal C. non integrassero gli estremi oggettivi del delitto di minacce, in quanto non contenenti alcuna prospettazione di un male ingiusto nel confronti del rappresentante dell’azienda debitrice. Secondo la ricorrente tale argomentazione contrasterebbe con la consolidata interpretazione della norma penale e comunque la corte non avrebbe tenuto conto oltre che del contenuto minaccioso delle frasi, “ora mi stai facendo nchianari i cazzi” ed ancora “ca dentro mi sto zitto, ma fuori parliamo da pari a pari”, anche del contesto in cui le stesse erano state proferite, dello stato di alterazione del lavoratore e della violenza verbale con cui aveva zittito il dirigente.

9. Inoltre, e soprattutto, la corte di rinvio non aveva tenuto conto di tutta la documentazione prodotta dalla difesa dello stesso C. relativa ai procedimenti penali a cui questi era stato sottoposto (le armi e la droga rinvenute in casa a seguito di una perquisizione) e che evidenziavano la pericolosità del soggetto collegato ad ambienti della criminalità organizzata. La corte distrettuale avrebbe quindi dovuto comprendere la particolare valenza dei toni minacciosi usati dal dipendente e non avrebbe dovuto adottare un’interpretazione così riduttiva del reato di cui all’art. 612 c.p.c., errando poi anche nell’affermare che “al giudice non è consentito di convertire il licenziamento per giusta causa – senza preavviso- in un licenziamento per g.m.s. con preavviso -, essendo riservata al datore di lavoro la potestà di infliggere la sanzione ai sensi dell’art. 2106 c.c., potendo solo il datore di lavoro applicare una sanzione più lieve di quella prevista dal codice disciplinare in presenza di un’infrazione rientrante in una fattispecie che prevede una sanzione più grave.

10. Pertanto nel caso in esame il giudice era chiamato non ad operare una conversione del licenziamento intimato per giustificato motivo in licenziamento per giusta causa, ma soltanto a verificare la sussistenza dei fatti contestati e la corrispondenza degli stessi ad una sanzione estintiva del rapporto.

11. Il motivo non merita accoglimento. Va premesso che la sentenza rescindente n. 6165 del 2016, in accoglimento del quarto motivo, ritenuto potenzialmente decisivo, ha affermato il principio di diritto prima riportato, concentrandosi sull’ipotesi di cui all’art. 35, lett. a bis del CCNL che fa riferimento alla condotta inadempiente costituita dal diverbio litigioso seguito da vie di fatto ed ha invece ritenuto assorbiti gli altri quattro motivi, svolti dalla ricorrente società.

12. La corte di merito in sede di rinvio ha pertanto correttamente analizzato tali ulteriori censure, essendo obbligata a pronunciarsi sulle stesse, in quanto espressamente riproposte dalla Coopmar in tale giudizio (cfr sul punto Cass. n. 19015/2010, Cass. n. 30184/2018).

13.Con il presente ricorso, tuttavia, la società ricorrente finisce in realtà per richiedere una nuova valutazione dei fatti, rispetto a quello effettuato dalla corte distrettuale, operazione che è preclusa in questa sede; ed infatti come più volte statuito da questa corte il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, (cfr Cass. n. 7921/2011, Cass. 9097/2017).

14. In sostanza la ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia escluso il tenore minaccioso delle frasi proferite dal lavoratore non individuando in esse la condotta criminosa prevista e punita dall’art. 612 c.p.c., pur avendo appreso dalla documentazione in atti, tra cui la sentenza penale del 2014, quale fosse lo spessore criminale del C., condannato per possesso di armi da guerra e per ricettazione.

15. Tuttavia la corte distrettuale ha escluso che la condotta del lavoratore fosse tale da incutere timore, esaminando tutti gli elementi fattuali indicati nella lettera di contestazione, ossia le frasi proferite ed indirizzate al presidente della cooperativa, non ravvisando il carattere minaccioso o ingiurioso non solo in termini di reato, ma anche escludendo che tale condotta potesse essere comunque ricondotta all’ipotesi di illecito disciplinare di grave insubordinazione, prevista dalla contrattazione collettiva. La sentenza ha altresì evidenziato l’esistenza di una correlazione tra il comportamento tenuto dal C. con il persistente inadempimento retributivo della società nei confronti del lavoratore.

16) Deve infatti rilevarsi che ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare, irrogato per un fatto che astrattamente può configurare una ipotesi di reato, la valutazione della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa, come anche di giustificato motivo soggettivo, deve esser comunque compiuta alla stregua della “ratio” dell’art. 2119 c.c. o della L. n. 604 del 1966, art. 3 e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, come delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, così che lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali (cfr. Cass. n. 12163/1997, Cass. 20731/2007Cass. n. 37/2011).

18) Nel caso in esame, inoltre, la società datrice di lavoro ha ritenuto di comminare la sanzione disciplinare espulsiva, ma di fatto valutando la condotta contestata quale notevole inadempimento, sanzionandola con il licenziamento con preavviso ai sensi dell’art. 3 citato, non risultando peraltro richiamata, nella lettera di contestazione trascritta in ricorso, la specifica ipotesi di licenziamento per giusta causa prevista dall’art. 35, lett. b, del CCNL lavoratori dei porti, che contempla espressamente condotte concretatesi nel compimento “di azioni che costituiscono delitto a termini di legge”, fattispecie a cui la società si richiama solo nel motivo di gravame.

19) Deve pertanto escludersi che la corte territoriale abbia fatto malgoverno dell’interpretazione dell’art. 612 c.p. e del concetto di minaccia non ravvisandone la sussistenza e, conseguentemente, non ravvisando neanche l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento. Va infatti ribadito che comunque il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da effettiva e non apparente motivazione.

20) Inammissibile deve poi ritenersi l’articolato motivo nella parte in cui censura la sentenza per non avere la corte tenuto conto della caratura criminale del lavoratore condannato per gravi reati con sentenza penale del 2013 poi divenuta irrevocabile, e dunque del maggiore carattere intimidatorio delle frasi e del comportamento tenuto dal C. in sede di colloquio con il presidente della cooperativa.

La doglianza infatti è priva di specificità, atteso che viene ricondotta pur sempre alla violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sebbene non sia indicata quale norma di legge o del contratto collettivo nazionale abbia violato la corte distrettuale nell’escludere, anche per ragioni temporali, che tale aspetto potesse comprovare e comunque avvalorare la valenza intimidatoria della condotta tenuta nel 2005, epoca del licenziamento. Si tratta invero di un’argomentazione che in realtà tende a censurare l’iter motivazionale della sentenza impugnata sostanzialmente denunciandone, in maniera inammissibile,4e contraddittorietà.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con condanna della società soccombente alla rifusione delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2019

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