Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21546 del 07/10/2020

Cassazione civile sez. I, 07/10/2020, (ud. 17/07/2020, dep. 07/10/2020), n.21546

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 573/2019 proposto da:

Ministero dell’Interno, (OMISSIS), domiciliato per legge in Roma,

alla Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

A.M.K., elettivamente domiciliato in Milano, alla Via

Felice Cavallotti n. 13, presso lo studio dell’Avvocato Pietro Di

Stefano, che lo rappresenta e difende;

– intimato –

avverso la sentenza della CORTE di APPELLO di MILANO, depositata il

17/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/07/2020 dal Consigliere Dott. IRENE SCORDAMAGLIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza pubblicata il 17 maggio 2018, pronunciando sull’appello proposto da A.M.K., in parziale riforma dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano in data 23 gennaio 2017, ha riconosciuto all’appellante, cittadino del (OMISSIS), il diritto ad ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2. Il Collegio di merito, confermata la decisione appellata in punto di esclusione dei presupposti per il riconoscimento della protezione maggiore – sub specie dello status di rifugiato, per non essere la vicenda dell’appellante connotata da atti di persecuzione diretta e personale rapportabili alla previsione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, o della protezione sussidiaria, non emergendo elementi sufficienti a fondare il convincimento che l’appellante, ritornando in patria, potesse correre il rischio effettivo di subire un danno grave alla persona nell’accezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, ha ritenuto, invece, sussistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria. Ciò perchè, avuto riguardo al carattere atipico ed elastico della misura di protezione complementare, in funzione della sua concessione, era da valorizzare la situazione personale dell’appellante, quale quella riscontrabile in esito al positivo percorso di integrazione socio-lavorativa in Italia comprovato dalla documentazione, depositata all’udienza del 22 marzo 2018, relativa all’attività lavorativa svolta a tempo indeterminato e allo stabile godimento di un alloggio -, foriera di concreti benefici per la sua dimensione esistenziale, esposta, di contro, a ripercussione dannose in caso di rientro forzoso in Bangladesh, che è paese, comunque, in cui, pur registrandosi disastrose condizioni economiche, non ricorrerebbe: “una continua e sistematica violazione dei diritti umani” (pag. 11 sentenza impugnata).

3. Il ricorso del Ministero dell’Interno domanda la cassazione della suddetta sentenza per due motivi.

4. A.M.K. non ha articolato difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è articolato in due motivi.

1.1. Con il primo si denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’errata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 e del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1, lett. c)-ter, in relazione al diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, in quanto riconosciuto dalla Corte di appello dando rilievo esclusivo all’integrazione dello straniero in Italia, senza effettuare alcuna valutazione comparativa tra la condizione di vita conseguita nel Paese ospitante e quella che ne aveva caratterizzato l’esistenza nel Paese di origine, onde verificare se ivi il richiedente avesse subito una grave compromissione dei suoi diritti fondamentali, così da desumerne un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento di essi.

1.2. Con il secondo si denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1 e art. 345 c.p.c., comma 3, rilevandosi come la Corte di appello avesse posto a fondamento della decisione documenti, relativi alla situazione lavorativa, attuale e passata, del richiedente protezione, esibiti dalla sua difesa per la prima volta all’udienza di precisazione delle conclusioni, come espressamente puntualizzato a pag. 11 della sentenza impugnata; ciò in violazione dell’indicazione direttiva ricevuta dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui la facoltà di produrre nuovi documenti in appello è ammessa purchè essa avvenga, non nel corso del giudizio di secondo grado, ma in sede di costituzione, come prescritto, a pena di decadenza, dal codice di rito e così trovando applicazione il disposto degli artt. 163 e 166 c.p.c., richiamati dall’art. 342 c.p.c., comma 1 e art. 347 c.p.c., comma 1 (Sez. 1, n. 12731 del 10/06/2011).

2. L’esame delle censure porta all’accoglimento dei motivi.

3. Quanto al primo motivo va osservato che la Corte di appello ha fondato il riconoscimento della protezione umanitaria unicamente sulla capacità di integrazione del richiedente in Italia, caratterizzata da un fattivo percorso di integrazione sociale e lavorativa, come risultante dalla documentazione prodotta, ma non ha effettuato alcuna valutazione con riferimento alla condizione personale del richiedente nel Paese di origine, del quale si è, peraltro, incidentalmente detto (alla pagina 11 della sentenza impugnata) che era Paese caratterizzato da disastrose condizioni economiche, ma non da: “una continua e sistematica violazione dei diritti umani”.

3.1. Tale statuizione non è, invero, conforme a diritto: al riguardo va richiamata la giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062), espressasi nel senso che: “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato”.

3.2 Ciò sta a significare che, in tema di concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (Sez. 1, n. 13079 del 15/05/2019, Rv. 654164), tanto comportando la necessità di apprezzare il rischio dello straniero di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale capace di determinare una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti inviolabili, alla stregua di una considerazione globale e unitaria dei singoli elementi fattuali accertati (Sez. 1, n. 7599 del 30/03/2020, Rv. 657425).

3.3. Va, dunque, ribadito che non è possibile accordare la protezione umanitaria in ragione della considerazione atomistica dell’integrazione sociale e lavorativa raggiunta dal richiedente in Italia (Sez. 6, n. 25075 del 23/10/2017) e che i seri motivi di carattere umanitario, che ne legittimano la concessione, possono positivamente riscontrarsi esclusivamente: “nel caso in cui, all’esito del giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente” (Sez. 1, n. 2563 del 4/02/20020).

4. E’ fondato anche il secondo motivo.

Deve evidenziarsi come, anche a voler ritenere che sia ammessa la produzione nel corso del giudizio di secondo grado di nuovi documenti formatisi successivamente rispetto alla fase iniziale del procedimento, nel caso al vaglio non solo la formazione della documentazione prodotta sembra anteriore all’introduzione del giudizio di secondo grado – in quanto riferibile ad attività lavorativa espletata sin dal 2016/2017-, ma la Corte di appello nulla ha motivato in ordine alle ragioni per le quali la parte non l’aveva potuta tempestivamente produrre, nè in ordine alla decisività della stessa, come, invece, richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. U, n. 8203 del 20/04/2005, Rv. 580936 – 01).

5. La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, affinchè la Corte di merito, in diversa composizione, in sede di rinvio ripeta il giudizio in fatto circa l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al permesso per motivi umanitari attenendosi ai principi di diritto dianzi enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2020

 

 

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