Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2153 del 29/01/2010

Cassazione civile sez. I, 29/01/2010, (ud. 12/11/2009, dep. 29/01/2010), n.2153

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso iscritto al n. 16113 del Ruolo Generale degli affari

civili dell’anno 2008, proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in Roma, alla Via XX

Settembre n. 4, presso l’avv. DELL’ERBA Franco, che lo rappresenta e

difende, per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in sostituzione della

Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del ministro in

carica, ex lege domiciliato in Roma, alla Via dei Portoghesi 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso il decreto emesso nel procedimento n. 50826/06 del ruolo

generale della volontaria giurisdizione della Corte di appello di

Roma, Sez. Equa riparazione, del 22 gennaio – 17 settembre 2007.

Udita, all’udienza del 12 novembre 2009, la relazione del Dr.

Fabrizio Forte e sentiti l’avv. F. Dell’Erba per il ricorrente e il

sostituto procuratore generale Dr. Giampaolo Leccisi, che ha concluso

per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento

degli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A.S. ha chiesto, con ricorso del 17 febbraio 2006 alla Corte d’appello di Roma, di condannare la Presidenza del Consiglio dei ministri a pagargli Euro 35.000,00 o altra somma maggiore o minore ritenuta giusta con accessori, a titolo di equa riparazione per i danni non patrimoniali subiti a causa della irragionevole durata del processo, iniziato da un suo ricorso avverso il diniego del trattamento pensionistico privilegiato di riversibilità presentato alla sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per la Campania in data 12 luglio 1985 e concluso dalla sentenza depositata il 25 maggio 2004. La Corte d’appello di Roma ha dichiarato inammissibile il ricorso, per essere decorso il termine di sei mesi di cui alla L. 24 marzo 1981, n. 89, art. 4, da qualificare causa di decadenza di natura sostanziale e non processuale del diritto all’equa riparazione, con conseguente irrilevanza, per il suo computo, della sospensione del periodo feriale dal l’agosto al 15 settembre, per cui l’ A. era da ritenere decaduto dal suo diritto, per avere iniziato l’azione oltre i sei mesi di cui sopra.

In sede di merito si è dichiarato inammissibile il ricorso depositato il 17 febbraio 2006, cioè oltre i sei mesi dal 10 luglio 2004, data in cui il provvedimento è divenuto definitivo per il decorso del periodo di un anno e quarantasei giorni dalla pubblicazione della sentenza del 25 maggio 2004 che ha chiuso il processo presupposto.

Per la cassazione di tale decreto, l’ A. ha proposto ricorso di quattro motivi e il Ministero dell’economia e delle finanze, subentrato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, non si è difeso in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I quattro motivi del ricorso deducono: a) violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, della L. 7 ottobre 1969, n. 742, artt. 1 e 3, sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale e degli artt. 2964 e 2966 c.c., per aver ritenuto inapplicabile la sospensione feriale che precede al termine semestrale di decadenza, dalla data in cui è divenuta definitiva la sentenza di chiusura del processo presupposto per dare inizio all’azione di equa riparazione;

b) motivazione insufficiente sulla natura del termine decadenziale che precede, ritenuta sostanziale e non processuale dalla Corte di merito nel decreto impugnato; c) violazione della citata L. n. 89 del 2001, artt. 3 e 4 e del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 68, per essere la decisione della Corte dei Conti ancora soggetta a impugnazione ordinaria per revocazione per errore di fatto o dì calcolo, di cui alla ultima norma citata e, come tale, non passata in giudicato e inidonea a costituire il dies a quo del termine semestrale di decadenza; d) carenze di motivazione del punto decisivo di cui sopra sul fatto controverso della definitività della sentenza di chiusura del processo presupposto.

2. Sul piano logico e giuridico è preliminare la valutazione dei primi due motivi di ricorso, che devono accogliersi, con conseguente assorbimento delle questioni prospettate negli altri due motivi.

Questa Corte, in ordine alla censura proposta circa la inapplicabilità della sospensione del periodo feriale al termine di cui all’art. 4 della legge Pinto, affermata dal decreto della Corte d’appello, ha di recente enunciato il seguente principio di diritto:

“Poichè tra i termini per i quali la L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1, prevede la sospensione del periodo feriale vanno ricompresi non solo i termini inerenti alle fasi successive all’introduzione del processo, ma anche quello entro il quale il processo stesso deve essere instaurato, allorchè l’azione in giudizio rappresenti, per il titolare del diritto, unico rimedio per fare valere il diritto stesso, la sospensione si applica anche al termine di sei mesi previsto dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, per la proposizione della domanda di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo” (Cass. n. 5895/2009).

Il principio che precede esclude ogni incidenza della motivazione di cui al secondo motivo di ricorso, il quale è superato dal mero rilievo che in diritto non è corretta la stessa qualificazione di “sostanziale” data a tale termine di decadenza, dovendo lo stesso ritenersi a carattere processuale, con la connessa applicabilità della sospensione del periodo feriale.

Negata la decadenza dell’azione per equa riparazione per non essere decorsi i sei mesi dalla fine del processo presupposto all’atto della domanda, dovendo computarsi il periodo feriale, restano assorbiti per irrilevanza i residui due motivi di ricorso, il terzo sulla definitività della sentenza che ha concluso la causa di cui si lamenta la ingiusta durata che per il ricorrente neppure è passata in giudicato per essere soggetta ancora a revocazione ordinaria e l’ultimo sulla mancanza di motivazione nel decreto su tale punto decisivo per ritenere l’ammissibile la domanda di merito, come già affermato in accoglimento del primo motivo di ricorso.

Pertanto vanno accolti i primi due motivi di ricorso e dichiarati assorbiti gli altri due e, in rapporto a tale accoglimento va cassato il decreto impugnato, essendo ammissibile la domanda di equa riparazione proposta dall’ A., a differenza di quanto affermato nel provvedimento oggetto di ricorso.

2. Anche la violazione di norme processuali può dar luogo alla decisione di merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ove non siano necessari altri accertamenti di fatto (Cass. n. 7144/06 e 14720/06);

tale principio va applicato anche nelle cause di equo indennizzo da lesione del diritto dell’art. 6 della Convenzione, in cui l’applicazione del diritto vivente elaborato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (C.E.D.U.) limita pure la discrezionalità del giudice nel determinare la durata e liquidare l’indennizzo, qualora i fatti a base della domanda non siano controversi, come accade nel caso.

La liquidazione dell’indennizzo può essere fatta in rapporto alla sola parte della durata del processo ritenuta irragionevole, invece che a tutto il tempo in cui esso si è protratto, come si afferma dalla C.E.D.U. Per i principi enunciati con le sentenze n.ri 348 e 349 del 2007 dalla Corte Costituzionale, le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo vincolano il nostro paese solo se non contrastano con la Costituzione.

L’art. 111 Cost., impone alla legge ordinaria di assicurare la ragionevole durata del processo, sancendo che questo si svolga entro un termine giustificabile, individuato in quello della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, oltre il quale il procedimento diviene lesivo dei diritti di cui all’art. 6 della Convenzione ed irragionevole (così Cass. n. 10415/2009 e n. 9909/2008).

Nel caso di specie, il processo pensionistico di riversibilità è durato complessivamente diciotto anni e dieci mesi da portare a diciannove anni (da luglio 1985 al maggio 2004) nel solo primo grado, che invece ragionevolmente doveva terminare in non più di tre anni, anche alla luce di quanto affermato in più sentenze della C.E.D.U. sul computo della durata dei processi.

Quanto alla entità dell’indennizzo da liquidare per i danni non patrimoniali, occorre tenere presenti i principi enunciati da questa Corte, che di regola applica i criteri dalla C.E.D.U. per la quale la riparazione deve computarsi in astratto, per il danno non patrimoniale da ansia sull’esito del processo, in una somma da Euro 1.000,00 ad Euro 1.500,00 all’anno, per l’intera durata del processo salvo quella non attribuibile all’apparato pubblico (così, tra altre, Cass. n. 5591/2009, n. 1048/ 2009, n. 2950/2008, n. 1605/2007, n. 24356/2006), anche se in concreto giunge, nelle cause in cui è stato convenuto il nostro paese per la lesione del diritto alla durata ragionevole dei processi, a determinare una riparazione dei danni non patrimoniali in una somma di poco minore alla metà dì quella sopra richiamata (cfr. Cass. n. 16086/09).

Pertanto questa Corte ha già affermato più volte, sulla base dei criteri concreti sovranazionali già indicati, la equità di un indennizzo che determini il danno non patrimoniale in Euro 750,00 annui per i primi tre anni di durata ingiustificata, da elevare, ad una somma media di Euro 1000,00 per ogni anno successivo ai primi tre, in ragione del rilevante e progressivo incremento di ansia per le parti che si verifica per l’indebito prolungarsi di esso dopo il primo triennio.

Per i sedici anni di durata irragionevole del giudizio pensionistico iniziato dall’ A., allo stesso competono quindi Euro 15.250,00 (2.250,00 per il primo triennio e 13.000,00 per il periodo residuo di 13 anni), a titolo d’indennizzo per danni non patrimoniali, con gli interessi su detta somma dalla domanda al saldo.

Il Ministero dell’economia e delle Finanze, subentrato in corso di causa alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del ministro in carica, dovrà restituire all’ A. le spese dell’intero processo, da liquidare come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione e cassa il decreto impugnato; decidendo la causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., dichiara ammissibile l’azione e condanna il Ministero dell’economìa e delle finanze, subentrato alla Presidenza del Consiglio, in persona del ministro in carica, a pagare al ricorrente Euro 15.250,00 (quindicimiladuecentocinquanta/00) con gli interessi legali dalla domanda al saldo, e le spese del processo, che liquida, per il giudizio di merito, in Euro 1.200,00 (milleduecento/00), di cui Euro 800,00 (ottocento/00) per onorari ed Euro 300,00 (trecento/00) per diritti e, per quello di cassazione, in Euro 1100,00 (millecento/00), di cui Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre alle spese generali e accessori di legge, per entrambi i gradi.

Manda alla Cancelleria gli adempimenti di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 5.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 settembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2010

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