Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21523 del 25/10/2016


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Cassazione civile sez. I, 25/10/2016, (ud. 22/09/2016, dep. 25/10/2016), n.21523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25245/2011 proposto da:

SVILUPPO ITALIA AREE PRODUTTIVE S.P.A., (c.f./p.i. (OMISSIS)), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 40, presso l’avvocato

DAMIANO LIPANI, che la rappresenta e difende, giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ANSALDO SISTEMI INDUSTRIALI S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TOSCANA 10, presso l’avvocato ANTONIO RIZZO, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ANNA MARIA PANFILI, giusta procura

in calce al ricorso notificato;

BANCA CARIGE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARNO 88, presso

l’avvocato CAMILLO UNGARI TRASATTI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ROBERTO CASSINELLI, giusta procura in calce

al controricorso;

– controricorrenti –

contro

BANCA POPOLARE DI LODI S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 905/2010 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 22/07/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/09/2016 dal Consigliere Dott. MAURO DI MARZIO;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato F. G. POLLARI MAGLIETTA, con

delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente ANSALDO, l’Avvocato A. RIZZO, che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito, per la controricorrente BANCA CARIGE, l’Avvocato C. UNGARI

TRASATTI che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Genova Ansaldo Sistemi Industriali S.p.A., già ASIRobicon S.p.A., Banca Carige S.p.A. e Banca Popolare di Lodi S.p.A. e, dopo aver premesso di avere alienato a Banca Carige S.p.A. un immobile da questa concesso in locazione finanziaria a ASIRobicon S.p.A. e che tali due società avevano affidato in appalto ad essa attrice lavori edili sull’immobile alienato, con obbligo di procurare alla stessa Banca Carige S.p.A. una garanzia a prima richiesta delle obbligazioni derivanti dal contratto di appalto, garanzia rilasciata da Banca Popolare Italiana S.p.A., poi Banca Popolare di Lodi S.p.A., ha chiesto dichiararsi l’illegittimità dell’escussione della garanzia operata da Banca Carige S.p.A., con condanna di Ansaldo Sistemi industriali S.p.A. e Banca Carige S.p.A. alla restituzione dell’importo di Euro 175.595,35 corrisposto in esecuzione del contratto autonomo di garanzia, nonchè della sola Ansaldo Sistemi industriali S.p.A. al pagamento del saldo dovuto per l’appalto, quantificato in 22.500,00, oltre ai danni, agli accessori e alle spese.

p. 2. – Nella contumacia della Banca Popolare di Lodi S.p.A., il Tribunale di Genova ha accolto l’eccezione di arbitrato, previsto dal contratto di appalto, formulata dalle altre due società convenute ed ha pertanto dichiarato l’improponibilità della domanda.

p. 3. – Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A. ha proposto appello al quale, nella contumacia della Banca Popolare di Lodi S.p.A., hanno resistito Banca Carige S.p.A. e Ansaldo Sistemi Industriali S.p.A. e che la Corte d’appello di Genova, con sentenza del 22 luglio 2010 ha respinto, regolando di conseguenza le spese di lite.

Ha in breve ritenuto la Corte di merito, in risposta ai motivi di impugnazione formulati dall’appellante:

-) che l’applicazione della clausola di arbitrato “binaria” contenuta nel contratto di appalto non fosse impedita dalla pluralità delle parti in lite, dovendosi applicare il principio secondo cui detta clausola “binaria” è valida se si accerta a posteriori e in base al petitum e alla causa petendi che i centri di interesse sono polarizzati in soli due gruppi omogenei, ossia sostanzialmente in due parti;

-) che, difatti, non aveva fondamento la tesi dell’appellante che aveva prospettato la sostanziale plurilateralità della controversia, motivata dall’assunto che lo scrutinio sul punto andava compiuto non già in riferimento al solo contratto di appalto, bensì all’operazione economica nel suo complesso, e dunque anche alla vendita ed alla locazione finanziaria;

-) che, al contrario, il contratto di appalto era autonomo sia sul piano soggettivo che oggettivo rispetto al leasing ed alla compravendita, e che Banca Carige S.p.A. e Ansaldo Sistemi Industriali S.p.A. avevano ricoperto una posizione processuale sostanzialmente sovrapponibile, senza che una diversa conclusione potesse essere desunta dalla circostanza che le due società avevano spiegato in via subordinata reciproca domanda di manleva;

-) che non sussisteva vincolo litisconsortile nei confronti della banca garante.

p. 4. – Per la cassazione della sentenza Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A. ha proposto ricorso per tre motivi illustrati da memoria.

Banca Carige S.p.A. e Ansaldo Sistemi industriali S.p.A. hanno resistito con controricorsi.

Banca Popolare di Lodi S.p.A. non ha spiegato difese in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p. 5. – Il ricorso contiene tre motivi.

p. 5.1. – Il primo motivo è rubricato: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Secondo la società ricorrente la Corte d’appello, nell’affermare l’applicabilità alla controversia in discorso della clausola compromissoria “binaria” prevista dall’art. 17 del contratto di appalto non si sarebbe avveduta che la lite aveva ad oggetto non solo il rapporto conseguente alla stipulazione del contratto di appalto, ma principalmente quello derivante dalla stipulazione del contratto autonomo di garanzia tra Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A. e Banca Popolare di Lodi S.p.A..

Oggetto della lite, in particolare, era pertanto anzitutto l’accertamento negativo dell’obbligo di pagare, a seguito della in tesi illegittima escussione della garanzia, da parte di Banca Popolare di Lodi S.p.A. in favore di Banca Carige S.p.A., con conseguente condanna delle convenute alla restituzione dell’importo oggetto dell’escussione, oltre che al risarcimento del danno.

p. 5.2. – Il secondo motivo è rubricato:

“Violazione e falsa applicazione dell’art. 809 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Si sostiene che, nel ritenere l’applicabilità della clausola compromissoria “binaria” contenuta nel contratto di appalto, la Corte territoriale avrebbe altresì effettuato un’erronea valutazione della sussistenza di due soli centri di interesse.

p. 5.3. – Il terzo motivo è rubricato: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 809 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Si sostiene nel motivo che la controversia instaurata da essa originaria attrice aveva dato luogo ad un litisconsorzio necessario, la cui sussistenza andava verificata nei confronti di tutte le convenute, ivi compresa Banca Popolare di Lodi S.p.A..

6. – Il ricorso è inammissibile per la ragione, rilevata d’ufficio e sottoposta in udienza al contraddittorio delle parti, che segue.

A fronte dell’originaria domanda attrice, le società convenute Ansaldo Sistemi industriali S.p.A. e Banca Carige S.p.A. hanno formulato eccezione di arbitrato. Il Tribunale adito, ritenendo che la clausola arbitrale “binaria” contenuta nel contratto di appalto di cui si è detto in espositiva fosse compatibile con il numero delle parti del giudizio ed attivabile, nel caso di specie, in ragione dell’omogeneità di interessi di Ansaldo Sistemi industriali S.p.A. e Banca Carige S.p.A., nonostante le reciproche domanda di manleva dalle medesime società formulate, e non ravvisando in Banca Popolare di Lodi S.p.A. una litisconsorte necessaria, bensì un soggetto citato al solo fine di ottenere una condanna tale da fare stato nei suoi confronti, ha dichiarato improponibili le domande spiegate da Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A..

Ciò detto, occorre rammentare che l’art. 819 ter c.p.c., sotto la rubrica “Rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria”, stabilisce al primo comma, per quanto rileva in questa sede, che: “La sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato, è impugnabile a norma degli artt. 42 e 43”.

Quanto all’ambito temporale di applicazione della disposizione, le Sezioni Unite di questa Corte hanno in generale stabilito che: “In tema di arbitrato, la disciplina sull’impugnabilità con regolamento di competenza, necessario o facoltativo (artt. 42 e 43 c.p.c.), della sentenza del giudice di merito affermativa o negatoria della propria competenza sulla convenzione di arbitrato, recata dal nuovo testo dell’art. 819-ter c.p.c. (introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 22), trova applicazione soltanto in relazione a sentenze pronunciate con riferimento a procedimenti arbitrali iniziati successivamente alla data del 2 marzo 2006, disponendo in tal senso, con formulazione letterale inequivoca, la norma transitoria dettata dall’anzidetto D.Lgs. n. 40, art. 27, comma 4, dovendosi, pertanto, escludere che l’operatività della nuova disciplina possa ancorarsi a momenti diversi, quale quello dell’inizio del giudizio dinanzi al giudice ordinarlo nel quale si pone la questione di deferibilità agli arbitri della controversia ovvero quello della data di pubblicazione della sentenza del medesimo giudice che risolve la questione di competenza” (Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19047).

Nell’affermare che momento determinante, ai fini dell’impugnabilità della sentenza con il regolamento di competenza, è non già quello d’inizio del procedimento dinanzi al giudice ordinario o quello in cui è stata depositata la sentenza, ma solo il momento in cui è stata proposta la domanda di arbitrato, la menzionata pronuncia ha altresì precisato che il tenore letterale dell’art. 27, comma 4, citato, ne esclude l’applicabilità all’ipotesi in cui, come nella specie, nessun procedimento arbitrale sia stato iniziato, nè prima nè dopo il 2 marzo 2006, dovendosi fare riferimento in tal caso ai principi generali della perpetuatio iurisdictionis e tempus regit actum.

La decisione delle Sezioni Unite ora menzionata, dunque, non si sofferma ad individuare quale dei due richiamati principi debba essere applicato, per l’ovvia ragione che la specifica questione concernente l’individuazione del regime di impugnazione della sentenza in assenza della introduzione del procedimento arbitrale nella specie non si poneva.

Ma, evidentemente, il principio della perpetuatio iurisdictionis e quello tempus regit actum non sono equiordinati e tantomeno fungibili, ed anzi il primo – in forza del quale giurisdizione e competenza si determinano dalla ed al momento della domanda, avuto riguardo alla “legge vigente” ed allo “stato di fatto” del momento medesimo, senza, cioè, che le successive modificazioni tanto della legge vigente, quanto dello stato di fatto possano dispiegare in proposito alcun effetto – si pone in deroga della regola tempus regit actum, regola che, pur non espressamente sancita, si desume a contrario proprio dall’art. 5 c.p.c..

Orbene, pare a questa Corte che l’applicazione dell’uno o dell’altro principio discenda dalla soluzione di una questione di fondo e, in definitiva, dalla natura dell’arbitrato:

-) se, cioè, si accede alla premessa da cui ancora muoveva Cass., Sez. Un., 6 settembre 2010, n. 19047, ossia che l’arbitrato rituale abbia natura strettamente privata, e che la decisione arbitrale costituisca “atto riconducibile, in ogni caso, all’autonomia negoziale e alla sua legittimazione a derogare alla giurisdizione, per ottenere una privata decisione della lite, basata non sullo ius imperii, ma solo sul consenso delle parti” (il passo è tratto ovviamente da Cass., Sez. Un., 3 agosto 2000, n. 527), con conseguente qualificazione della questione di arbitrato quale questione non di giurisdizione bensì di merito, pare doversi ritenere che la novella costituita dall’art. 819 ter c.p.c., ponendo il rapporto tra giudici e arbitri in termini di competenza (così da presupporre che l’arbitrato costituisca fenomeno semplicemente sostitutivo della giurisdizione statale, dunque anch’esso partecipe della giurisdizione), abbia inciso sulla “legge vigente” in ordine alla competenza e che, conseguentemente, detto ius superveniens sia sottoposto alla disciplina prevista dall’art. 5 c.p.c., con l’ulteriore conseguenza dell’applicabilità della norma sopravvenuta, ivi compresa la previsione della soggezione della sentenza al regolamento necessario, alle sole controversie introdotte dopo l’entrata in vigore della citata disposizione;

-) se, viceversa, si ricostruisce il fenomeno arbitrale come sostitutivo della giurisdizione, i termini della questione appaiono radicalmente diversi, giacchè l’art. 819 ter c.p.c. non ha allora innovato in materia di competenza, ma – per così dire prendendo atto della reale natura dell’arbitrato – ha semplicemente introdotto un nuovo regime di rilevazione e di impugnazione della relativa questione, il che mette indubbiamente fuori causa l’art. 5 c.p.c. ed impone, in applicazione del principio tempus regit actum, l’impiego della regola, scontata sul piano giurisprudenziale, secondo cui, in mancanza di diversa disposizione transitoria, il regime di impugnabilità dei provvedimenti va desunto dalla disciplina vigente “quando essi sono venuti a giuridica esistenza” (così Corte cost., sent. n. 53/2008; Cass. n. 20414/2006; Cass. n. 5342/2009; Cass. n. 9940/2009; Cass. n. 20324/2010, concernenti l’art. 616 c.p.c.), sicchè le sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della legge vanno impugnate esclusivamente con il regolamento necessario o facoltativo secondo i casi.

A questo punto, la soluzione appare scontata.

Dopo che la Consulta ha ammesso gli arbitri a sollevare la questione di legittimità costituzionale (Corte cost., n. 376/2001), qualificando l’arbitrato come “procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria”, e dopo che la riforma del 2006 ha attribuito al lodo arbitrale efficacia di sentenza dall’ultima sottoscrizione (art. 824-bis), è nuovamente intervenuta sulla materia la Corte costituzionale (Corte cost., n. 223/2013) dichiarando l’incostituzionalità proprio dell’art. 819-ter, comma 2, nella parte in cui escludeva l’applicazione all’arbitrato della translatio iudicii prevista dall’art. 50 c.p.c.. Dopodichè Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24153, ha nuovamente riconosciuto natura giurisdizionale all’arbitrato, osservando in breve che la proponibilità dell’impugnazione non è più subordinata al decreto di esecutorietà del lodo; che la domanda arbitrale è assimilabile a quella giudiziale quanto ad effetti sulla prescrizione e sulla trascrizione; che all’arbitrato si applica l’art. 111 c.p.c. concernente la successione a titolo particolare nel diritto controverso; che l’art. 819-bis c.p.c. consente agli arbitri di sollevare questione di legittimità costituzionale; che l’art. 824-bis c.p.c. equipara gli effetti del lodo a quelli della sentenza.

Allo stato attuale, il giudizio arbitrale ha funzione sostitutiva della giurisdizione ordinaria e dunque partecipa della giurisdizione: per conseguenza l’art. 819 ter c.p.c. non ha introdotto un’innovazione in materia di competenza, innovazione tale da condurre a limitare l’applicazione del regime di impugnabilità delle sentenze mediante regolamento necessario o facoltativo, ivi previsto, alle sole controversie introdotte dopo l’entrata in vigore della norma, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., ma si applica in parte qua a tutte le sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della norma ossia alle decisioni intervenute dopo il 2 marzo 2006, a prescindere dalla data di instaurazione del relativo processo (la soluzione si pone in continuità con Cass. 13 agosto 2014, n. 17908, e Cass. 12 novembre 2015, n. 23176, la quale ultima è espressamente nel senso dell’applicabilità del regolamento alle sentenze pronunciate dopo l’entrata in vigore della riforma dell’arbitrato alla luce della citaata svolta delle Sezioni Unite; v. pure v. pure Cass. 15 febbraio 2013, n. 3826).

Occorre dopodichè aggiungere che per i fini dell’impugnabilità mediante regolamento di competenza nulla rileva la qualificazione data dal giudice alla propria pronuncia: perciò, la sentenza con la quale il Tribunale adito, ignorando la qualificazione dei rapporti di competenza tra arbitri e autorità giudiziaria, data dall’art. 819 ter c.p.c., dichiari improponibile la domanda, dev’essere intesa come pronuncia declinatoria della competenza a favore degli arbitri ed è pertanto impugnabile con il regolamento necessario di competenza (Cass. 4 agosto 2011, n. 17019).

In conclusione, il Tribunale ha pronunciato sentenza in data 30 ottobre 2007, dopo l’entrata in vigore della riforma dell’arbitrato di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, dichiarando la propria incompetenza in favore degli arbitri, in forza della clausola compromissoria contenuta nel contratto di appalto, in relazione all’intera controversia introdotta da Sviluppo Italia Aree Produttive S.p.A..

Va da sè che, versandosi in ipotesi di sentenza che ha pronunciato sulla sola competenza senza decidere il merito della causa, essa era suscettibile, secondo la previsione dell’art. 819 ter c.p.c., nella parte prima trascritta, di impugnazione soltanto mediante regolamento necessario di competenza ai sensi dell’art. 42 c.p.c..

In mancanza dell’impugnazione così prevista, la pronuncia del Tribunale è passata in giudicato, evidentemente rilevabile in questa sede.

Di qui l’inammissibilità dell’impugnazione.

p. 7. – Il rilievo officioso della questione conduce evidentemente alla compensazione delle spese.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso; spese compensate.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2016

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