Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21522 del 18/10/2011

Cassazione civile sez. II, 18/10/2011, (ud. 08/07/2011, dep. 18/10/2011), n.21522

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.O., in proprio e nella qualità di erede di V.

F., F.M. e F.F., nella qualità di eredi di

V.F., rappresentati e difesi, per procura speciale a

margine del ricorso, dall’Avvocato Giovanni Battista d’Ascia, presso

lo studio del quale in Roma, viale delle Medaglie d’oro n. 266, sono

elettivamente domiciliati;

– ricorrenti –

contro

M.E., rappresentato e difeso, per procura speciale in

calce al controricorso, dall’Avvocato Caponi Franco, presso lo studio

del quale in Roma, via Anicio Gallo n. 3, è elettivamente

domiciliato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 2526/09,

depositata in data 17 giugno 2009;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

luglio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentiti gli Avvocati Giovanni Battista D’Ascia e Franco Caponi;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine

per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

F.O. e V.F. hanno chiesto al Tribunale di Roma di condannare M.E. alla riduzione in pristino del fabbricato dal medesimo realizzato sul confine con un loro fondo.

Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 28345 del 2003, ha accolto la domanda e ha condannato il M., nella sua qualità di proprietario di due capannoni adiacenti e di un terzo realizzato in appoggio agli altri due, a provvedere a sue spese alla demolizione del capannone a confine con la proprietà degli attori per la parte utile a consentire il ripristino della distanza di sette metri dal confine con la proprietà di questi ultimi.

Il M. ha proposto appello e, costituitisi gli appellati – F.O., in proprio e quale erede della consorte F. V., M. e F.F., quali eredi della V. -, la Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 17 giugno 2009, ha accolto parzialmente il gravame, e ha dichiarato che il manufatto a confine con la proprietà degli appellati, costituito dal corpo A e l’avancorpo, era posto a distanza legale sicchè l’ordine di demolizione andava mantenuto solo in riferimento al capannone C, nella parte a confine con la proprietà degli appellati e nei termini di cui alla sentenza di primo grado, e ha dichiarato acquisita per usucapione la servitù di scolo in favore dell’appellante.

Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso F. O., in proprio e quale erede della consorte F. V., M. e F.F., quali eredi della V., sulla base di tre motivi; ha resistito, con controricorso, il M..

La causa veniva avviata alla trattazione in camera di consiglio.

All’esito dell’adunanza camerale del 3 dicembre 2010, con ordinanza n. 3256 del 2001, ne veniva disposto il rinvio alla pubblica udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono falsa applicazione di norma di diritto (art. 106 cod. proc. civ.) e omessa e contraddittoria motivazione, con riferimento alla valutazione delle risultanze istruttorie in ordine al momento in cui il M. ebbe a completare la costruzione del capannone identificato con la lettera A. Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano falsa interpretazione e applicazione di norme urbanistiche e omessa e contraddittoria motivazione, con riferimento alla individuazione della normativa urbanistica applicabile.

Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano falsa applicazione di norma di diritto e omessa e contraddittoria motivazione circa la ritenuta usucapibilità della distanza.

Il ricorso è inammissibile.

I motivi, pur avendo il ricorso ad oggetto una sentenza depositata il 17 giugno 2009, risultano non rispondenti ai requisiti di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. in quanto, per la parte in cui denunciano falsa applicazione di norme di diritto, (peraltro genericamente indicate), non si concludono con la formulazione di uno specifico quesito di diritto, che non è neanche desumibile dalla esposizione del motivo. Nella giurisprudenza di questa Corte si è infatti chiarito che “il quesito di diritto non può essere desunto dal contenuto del motivo, poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (Cass., ord. n. 20409 del 2008).

Per quanto riguarda il denunciato vizio di motivazione, ai sensi del citato art. 366-bis c.p.c., comma 2, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Anche da questo punto di vista, i motivi sono carenti, giacchè difetta sia la chiara indicazione del fatto controverso, sia il momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) e cioè la indicazione del fatto controverso con la precisazione del vizio del procedimento logico-giuridico che, incidendo nella erronea ricostruzione del fatto, sia stato determinante della decisione impugnata.

Il primo motivo, inoltre, risulta chiaramente volto ad ottenere una diversa valutazione di circostanze di fatto, ed è del tutto carente quanto ad autosufficienza, dal momento che fa riferimento a deposizioni e a documenti (segnatamente una comunicazione dei Vigili Urbani) dei quali non è stato riportato il contenuto.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

In applicazione del principio della soccombenza, i ricorrenti, in solido tra loro, devono essere condannati alla rifusione della spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione della spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 8 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2011

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