Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21510 del 20/08/2019

Cassazione civile sez. II, 20/08/2019, (ud. 28/03/2019, dep. 20/08/2019), n.21510

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

(art. 380-bis.1 c.p.c.)

sul ricorso (iscritto al N. R.G. 24936/’15) proposto da:

M.L., (C.F.: (OMISSIS)) e M.F. (C.F.:

(OMISSIS)), rappresentati e difesi, in forza di procura speciale in

calce al ricorso, dagli Avv.ti Gianfranco Ceci e Carlo Ponzano ed

elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma,

Viale Regina Margherita, n. 290;

– ricorrenti –

contro

R.M.A., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso, in

virtù di procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv.ti

Luigi Giorgio Palmisano e Donatella Mazzocca ed elettivamente

domiciliato presso lo studio dell’Avv. Stefano Di Meo, in Roma, v.

G. Pisanelli, n. 2;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia n. 348/2015,

depositata il 17 marzo 2015 (non notificata).

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Con atto di citazione del gennaio 2012 R.M.A. proponeva appello nei confronti di M.L. e M.F. avverso la sentenza del Tribunale di Bergamo n. 2088/2011, che – avuto riguardo alla successione di R.G. (a cui era premorto il coniuge e deceduta senza figli “ab intestato”), in ordine alla quale era intervenuta una divisione tra gli eredi (alcuni dei quali succeduti per rappresentazione) – aveva rigettato la domanda dell’attore da qualificarsi come richiesta di “restituzione” per indebito arricchimento degli altri condividenti avendo lo stesso R. prestato il suo consenso al negozio divisorio, con la conseguente insussistenza dei presupposti per la configurazione di un ingiustificato arricchimento in suo danno.

2. Nella costituzione degli appellati la Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 348/2015, accoglieva il gravame e, per l’effetto, condannava M.L. e M.F. a pagare all’appellante, per i titoli dedotti in giudizio, l’importo di Euro 14.151,31, oltre interessi legali a far data dal 17 settembre 2005 al saldo.

A sostegno dell’adottata pronuncia la suddetta Corte riteneva che, di fronte ad una ripartizione dei cespiti avvenuta bonariamente, ma in base a presupposti erronei, ed in virtù dell’assenza totale di qualsiasi prova di una rinuncia del R. ai propri diritti, l’appello di quest’ultimo andava accolto, con la condanna di ciascuno degli appellati a pagare la somma innanzi indicata, oltre ai menzionati accessori.

3. Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione il M.L. e il M.F., affidandolo a due motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato R.M.A..

I difensori di entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., ma quella dei ricorrenti risulta depositata in data 21 marzo 2019 e, quindi, oltre il termine indicato in detta norma (dieci giorni prima dell’adunanza camerale fissata, nello specifico, per il 28 marzo 2019); essa è, perciò, tardiva. E’ appena il caso, inoltre, di evidenziare che, nella sua memoria, la difesa del R.M.A., ha attestato il sopravvenuto decesso del suo assistito (producendo anche il relativo certificato di morte), ma – per giurisprudenza costante di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. SU n. 14385/2007, Cass. n. 22624/2011 e Cass. n. 1757/2016) – detto evento è inidoneo a determinare un effetto interruttivo del giudizio di legittimità.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 189 c.p.c., nella parte in cui con l’impugnata sentenza era stata ritenuta non rinunciata la domanda avente ad oggetto la divisione ereditaria in ragione del fatto che all’udienza del 4 maggio 2011 entrambe le parti – su richiesta del giudice di chiarimenti in ordine alla qualificazione della domanda, ovvero se si trattasse di mera causa restitutoria oppure di scioglimento di comunione ereditaria e/o di divisione tra eredi – qualificavano giuridicamente l’azione come riconducibile alla fattispecie dell’indebito arricchimento.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno, in via subordinata, denunciato sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1965,1966 e 761 c.c., oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c., con riferimento alla non rilevata rinuncia – nell’impugnata sentenza – ad esperire l’azione di illegittimità della divisione consensualmente effettuata tra le parti.

3. Rileva il collegio che occorre, in via pregiudiziale, procedere all’individuazione dell’effettivo oggetto della controversia per stabilire le eventuali conseguenze che ne derivano sul piano processuale.

Orbene, a tale scopo, si impone di verificare quali fossero state le domande effettivamente proposte originariamente (e in quale rapporto esse si ponevano tra loro) dal R. e quali, poi, quelle definitivamente fissate in sede di precisazione delle conclusioni.

A tal proposito, da quanto emerge dalla stessa sentenza di appello qui impugnata, si evince, invero, che la domanda principale formulata in primo grado fosse quella di accertamento e condanna degli obbligati alla reintegra nei diritti ereditari spettanti al R. (indipendentemente da una regolazione bonaria degli effetti successori intervenuta in dipendenza di una pregressa divisione stragiudiziale tra le parti, della quale, anzi, l’attore aveva chiesto la declaratoria di illegittimità) e che, solo in via subordinata, fosse stata proposta l’azione di indebito arricchimento, con la puntualizzazione che tali domande erano state ribadite anche in sede di precisazione delle conclusioni, senza che potessero aver alcun rilievo le delucidazioni delle parti operate all’udienza del 4 maggio 2001 dinanzi al Tribunale. Del resto la circostanza che le conclusioni precisate fossero quelle ritenute dalla Corte di appello è dimostrato anche dal richiamo delle stesse a sostegno del motivo di appello (v. pag. 13 controricorso).

Pertanto, sulla scorta del complessivo petitum dedotto in giudizio era certamente errata la qualificazione compiuta dal giudice di primo grado dell’azione proposta con la domanda introduttiva come “azione di restituzione” (oltretutto ricondotta ad un non configurabile – sul piano giuridico – “indebito arricchimento”), tenendo conto della circostanza che la stessa era stata formulata subordinatamente alla eventuale insussistenza delle condizioni per l’accoglimento di quella principale di riconoscimento dei diritti ereditari dell’attore, previo accertamento della illegittimità della divisione consensuale che, in un primo momento, era stata posta in essere dai condividenti in sede extragiudiziale. Nè, come anticipato, poteva avere alcun valore la precisazione che le parti avevano compiuto, su sollecitazione del Tribunale (per il tramite dei rispettivi difensori all’udienza del 4 maggio 2001), circa la riconducibilità dell’azione a quella di restituzione, posto che – sulla base del deductum definitivamente fissato in sede di precisazione delle conclusioni (restando irrilevanti le eventuali variazioni apportate in sede di comparse conclusionali e di memorie di cui all’art. 190 c.p.c.: cfr., da ultimo, Cass. n. 5402/2019) e rilevato che il potere di qualificazione della domanda giudiziale spetta esclusivamente al giudice all’atto della decisione – lo stesso non avrebbe potuto ritenere rinunciata la domanda principale comunque implicante una pronuncia di merito sulla divisione ereditaria (che, per l’appunto, era stata reiterata in sede di precisazione delle conclusioni), ancorchè avanzata da parte del R. nella formulazione di “reintegra nei diritti ereditari”.

A tale scopo si rimarca che il giudice del merito – premesso il pacifico principio che, nell’interpretazione della domanda giudiziale, egli incontra un duplice ordine di limiti, consistente nel rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e nel divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella espressamente e formalmente proposta – deve, a tal fine, tenere conto dei limiti oggettivi della domanda, quali risultano non soltanto dal contenuto dell’atto introduttivo del giudizio, ma anche – e (si noti) solo da esse in via definitiva – dalle conclusioni definitive precisate dopo la chiusura dell’istruzione, poste in relazione con la citazione e con le eventuali modifiche e trasformazioni delle conclusioni originarie.

Ciò posto, ne deriva che siffatto inquadramento della “dinamica dello svolgimento del giudizio” nella vicenda in questione avrebbe, quindi, dovuto comportare la indispensabile conseguenza di garantire – ai sensi dell’art. 102 c.p.c. – il rispetto del litisconsorzio necessario tra tutti gli aventi diritto legittimati a partecipare al giudizio divisorio, donde l’illegittimità dell’estromissione disposta dal giudice di prime cure delle convenute R.F.L. e R.A. (poi nemmeno evocate in appello), nei cui confronti era intervenuta rinuncia agli atti del giudizio da parte dell’attore con asserita accettazione delle predette destinatarie di tale espressione di volontà. Pertanto, il giudice di appello – sulla base della sua corretta riqualificazione della domanda originaria (non ravvisando la rinuncia a quella di natura ereditaria con necessarie implicazioni decisorie relative alla divisione del compendio del “de cuius”, in tal senso non cogliendo nel segno il primo motivo dei ricorrenti) – avrebbe dovuto rilevare l’ineludibilità della necessaria osservanza dell’integrità del contraddittorio tra tutti i condividenti fino alla decisione e, quindi, l’illegittimità dell’estromissione delle due coeredi disposta nel corso del giudizio di primo grado, che, invece, avrebbero dovuto indispensabilmente continuare a partecipare al giudizio (cfr., ad es., Cass. n. 4353/1980, Cass. n. 6735/1986 e Cass. n. 7954/1998).

Questo effetto, invero, viene a verificarsi – in generale – anche indipendentemente dalla possibile incidenza o meno, sul merito della controversia, della possibile divisione bonaria intervenuta tra le parti al di fuori del processo, che, in linea di principio, non è esclusa (v. Cass. n. 8946/2009), poichè sia le divisioni transattive che le transazioni divisorie possono essere idonee a realizzare, al contempo, gli obiettivi dello scioglimento della comunione e quelli della cessazione o prevenzione della litigiosità tra gli eredi (anche quando essi si accordino, eventualmente, sull’attribuzione delle porzioni, senza procedere al calcolo delle proporzioni corrispondenti alle quote: cfr. Cass. n. 1029/1994).

Infatti, ai sensi dell’art. 784 c.p.c., la divisione mortis causa deve essere compiuta con la partecipazione di tutti i condividenti e, a tal fine, tutti devono partecipare al giudizio, versandosi in un caso tipico di litisconsorzio necessario, per espressa previsione del citato articolo e, ancor prima, per evidenti ragioni di logica giuridica. La qualità di litisconsorti necessari di tutti i condividenti permane in ogni stato e grado del processo, indipendentemente dall’attività e dal comportamento di ciascuna parte.

Pertanto, in definitiva, non avendo – sulla scorta della esatta identificazione dell’oggetto della domanda introduttiva principale (da non ritenersi rinunciata) – la Corte di appello avrebbe dovuto provvedere alla rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c., comma 1, dovendo rilevare che i due predetti litisconsorti necessari (poi non partecipanti neanche al giudizio di secondo grado, siccome non chiamativi) non avrebbero potuto essere estromessi dallo stesso giudice nel corso dello svolgimento della causa in primo grado. Nei casi di litisconsorzio necessario, infatti, l’esigenza di integrità del contraddittorio si impone fin dal momento della vocatio in ius (e tale va mantenuta per l’intero corso del processo), con la conseguenza che, ove la prima sentenza sia stata pronunciata a contraddittorio non integro (e ciò anche a seguito di intervenuta estromissione indebita, come nella fattispecie qui in esame), il giudice di primo grado deve essere nuovamente investito della piena cognizione della causa (cfr., ex multis, Cass. n. 1535/2010, Cass. n. 7998/2012 e Cass. n. 12959/2014).

In difetto, quindi, della mancata necessaria pronuncia processuale da parte del giudice di appello in virtù del citato art. 354 c.p.c., comma 1, è questa Corte che deve provvedervi ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma 3: il collegio, quindi, decidendo sul ricorso, deve cassare la sentenza impugnata e rinviare la causa al giudice di primo grado (proprio per effetto dell’indispensabilità di garantire il litisconsorzio necessario tra tutti i condividenti, senza la possibilità di estromissione di uno o più degli stessi), davanti al quale le parti hanno l’onere di riassumerla nel termine stabilito dall’art. 353 c.p.c., comma 2, (richiamato dal medesimo art. 354, comma 3) e che statuirà anche sulle complessive spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte, decidendo sul ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la regolazione delle complessive spese del giudizio, al Tribunale di Brescia, quale giudice di primo grado.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 28 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2019

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