Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21508 del 06/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 06/10/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 06/10/2020), n.21508

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2114-2019 proposto da:

R.M.A., R.F., R.C.,

A.G., in proprio e nella qualità di eredi di R.M.,

domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE

di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato OLINDO DI

FRANCESCO;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, in persona del procuratore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A, presso lo

studio dell’avvocato MARCO ANNECCHINO, rappresentata e difesa

dall’avvocato CONCETTA PATERMO;

– controricorrenti –

e contro

C.A.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2740/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GORGONI

MARILENA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

R.F., A.G., R.M.A. e R.C. ricorrono per la cassazione della sentenza n. 2740/2018 della Corte d’Appello di Milano, pubblicata il 4 giugno 2018, articolando sei motivi.

Resiste con controricorso Unipolsai Assicurazioni S.p.a.

I ricorrenti espongono in fatto di avere convenuto in giudizio, in proprio e nella qualità di eredi di R.M., la Milano Assicurazioni S.p.a. e C.A.G., per sentirli condannare, ognuno per la sua competenza e/o solidarietà, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, provocati dal sinistro avvenuto il 3 dicembre 2004 in Agrigento, alle ore 19.30, allorchè R.M., alla guida del ciclomotore Piaggio, di proprietà di A.G., veniva travolto dall’autovettura Opel Astra, guidata da C.A.G., assicurata dalla Milano Assicurazioni. C.A.G., provenendo dall’opposto senso di marcia, cambiava direzione, svoltava repentinamente a sinistra e tagliava la strada al ciclomotore, impattando col medesimo. Nell’incidente R.M. e Av.Ma., trasportata, venivano sbalzati a diversi metri di distanza dal punto di impatto. Ai fini che qui interessano R.M., ricoverato in terapia intensiva presso l’Ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento, vi decedeva il (OMISSIS).

Milano Assicurazioni, costituitasi in giudizio, contestava la domanda.

C.A.G. restava contumace.

Il Tribunale di Milano, ravvisato un concorso di colpa nella misura del 30% a carico di C.A.G., prospettato anche nel giudizio penale, chiusosi con un provvedimento di archiviazione, liquidava Euro 75.000,00 a favore di ciascuno dei genitori ed Euro 21.000,00 a favore di ciascun fratello della vittima.

I congiunti di R.M. impugnavano la decisone dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, la quale, con la sentenza qui gravata, accoglieva parzialmente l’appello e riconosceva a R.F. e a A.G., rispettivamente, padre e madre della giovane vittima, le ulteriori somme di Euro 18.837,08 e di Euro 6.706,88, regolava le spese di lite secondo il principio della soccombenza.

Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere, con motivazione manifestamente illogica, ritenuto che il Tribunale non fosse caduto in contraddizione escludendo la corresponsabilità di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, perchè “affermare che un parte non è riuscita ad affrancarsi dalla presunzione di corresponsabilità di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, non impedisce certo di giungere ad una specifica quantificazione dei rispettivo concorso di colpa”, non potendosi dubitare della preponderante gravità della turbativa della circolazione stradale consistita nell’invadere nella notte, a fari spenti, la corsia di pertinenza di altro veicolo, senza rispettare il segnale di stop, al cospetto della condotta pure imprudente, attribuita con autorità di cosa giudicata, all’automobilista, per non avere regolato la velocità in relazione al contesto e mantenuto il controllo del veicolo, eseguendo le manovre necessarie in condizioni di sicurezza.

La tesi proposta è che la sentenza sia nulla per avere sostenuto che il ciclomotore circolasse a fari spenti nella notte, senza indicare da quale atto avesse desunto tale dato, visto che l’incidente era avvenuto alle 19.30 e che non risultava accertato che avesse i fari spenti, per non avere compiuto alcun accertamento sul comportamento tenuto dall’automobilista, limitandosi ad evidenziare la gravità della colpa del giovane R.M.. Trattandosi di scontro tra veicoli avrebbe dovuto applicarsi la presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, e per andare esente da responsabilità ciascuna delle parti avrebbe dovuto dimostrare non solo la colpa generica o specifica del conducente del veicolo antagonista, ma anche la correttezza della propria condotta di guida.

Nella vicenda per cui è causa era risultato che la vittima procedeva a 20 km orari, ma che non aveva dato la precedenza alla vettura, il conducente dell’auto antagonista aveva cambiato all’ultimo momento direzione di marcia, tagliando la strada al ciclomotore e comunque non aveva adeguato la propria velocità allo stato dei luoghi, violando l’art. 141 C.d.S.. Perciò, non avendo l’automobilista provato la correttezza della propria condotta di guida, avrebbe dovuto trovare applicazione la presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 e 132 c.p.c. e dell’art. 2054 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

L’errore imputato alla Corte d’Appello è quello di avere ritenuto corretta la decisione del giudice di primo grado quanto all’utilizzabilità delle prove raccolte nel processo penale, senza considerare, se non formalmente, che il giudice si era limitato a trasporre le valutazioni rese dal giudice penale nel decreto di archiviazione, senza dimostrare di avere provveduto ad un’autonoma sua delibazione del materiale disponibile e senza esaminare la documentazione allegata agli atti sin dalla costituzione in primo grado (censura sub a, p. 12 del ricorso) – dal verbale di sommarie informazioni rese in data 11 novembre 2007 ai carabinieri di Agrigento da M.L.G. che aveva dichiarato di essere a 80 metri dal motociclo, di averlo visto rallentare e fermarsi allo stop, di avere scorto anche la Opel che veniva dall’opposto senso di marcia cambiare direzione, senza alcuna segnalazione, e tagliare la strada al ciclomotore impegnato nella svolta; dal verbale di sommarie informazioni rese da Av.Ma., trasportata sul ciclomotore, il 22 febbraio 2008 ai carabinieri di Agrigento, la quale dichiarava che il ciclomotore si era fermato allo stop ed aveva ripreso la marcia, svoltando, dopo aver verificato che non vi fosse nessun veicolo; dalla CTU Novara che escludeva ogni profilo di responsabilità della vittima e che riteneva vi fossero inconfutabili elementi da cui desumere la esclusiva responsabilità del conducente della Opel Astra, per violazione dell’art. 154 C.d.S., commi 1, lett. a e b, e comma 2 (cambiamento di corsia, di direzione o altre manovre), che non aveva segnalato il cambio di direzione, che non si era accertato di poter effettuare la manovra senza pericolo o intralcio, e per violazione dell’art. 142 C.d.S., comma 1, per aver tenuto una velocità di 60 Km orari – e per non aver espletato alcuna attività istruttoria (censura sub lett. b, p. 14 del ricorso), nonostante la richiesta di interrogatorio formale di C.A.G..

I motivi uno e due possono essere esaminati unitaria mente.

A giudizio di questo Collegio sono inammissibili.

Complessivamente l’ubi consistam della richiesta rivolta a questa Corte consiste in una diversa valutazione dei fatti di causa che contrasta con i caratteri morfologici e funzionali del giudizio di legittimità. Dai rilievi e dalle osservazioni di parte ricorrente non emerge una efficace confutazione delle argomentazioni utilizzate nella sentenza impugnata per addivenire all’affermazione della corresponsabilità dei conducenti dei due mezzi nella causazione del sinistro nella misura individuata – 70% la vittima, 30% l’automobilista – ma una contrapposizione, a quella del giudice di merito, di una diversa ricostruzione dei fatti. Ove accolta tale richiesta, che presuppone la possibilità di rinnovare il giudizio in fatto, il giudizio per cassazione verrebbe trasformato in un terzo grado di giudizio. Deve, invece, rilevarsi che la Corte d’Appello ha accertato la sussistenza di una condotta colposa in capo ad entrambi i soggetti coinvolti e di conseguenza li ha ritenuti entrambi responsabili, facendo applicazione di un orientamento giurisprudenziale da cui non sono emerse ragioni per discostarsi, a mente del quale “Nel caso di scontro tra veicoli, la presunzione di pari responsabilità prevista dall’art. 2054 c.c. ha carattere sussidiario, dovendosi applicare soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel sinistro; l’accertamento della intervenuta violazione, da parte di uno dei conducenti, del divieto di svolta non dispensa il giudice dal verificare il comportamento dell’altro conducente onde stabilire se quest’ultimo abbia a sua volta violato o meno le norme sulla circolazione stradale ed i normali precetti di prudenza, potendo l’eventuale inosservanza di dette norme comportare l’affermazione di una colpa concorrente” (Cass. 16/09/2013, n. 21130). Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, la Corte d’Appello ha ricostruito la dinamica dell’incidente, al fine di individuare le responsabilità dei soggetti coinvolti, tenendo conto delle risultanze del verbale dell’incidente redatto dai carabinieri di Agrigento, della planimetria allegata e degli accertamenti effettuati dal consulente del PM, quanto alla velocità dei veicoli, allo stato dei luoghi, alla condotta di guida tenuta dalla giovane vittima – anche relativamente alla mancata accensione dei fari in ora notturna (ore 19.30 del mese di dicembre) – e dall’automobilista; ha giustificato e motivato puntualmente le proprie statuizioni.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti imputano al giudice a quo la violazione ed erronea applicazione dell’art. 141 C.d.S., commi 1, 2 e 3, dell’art. 145 C.d.S., comma 3, e dell’art. 2054 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione ed erronea applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, n. 5, nonchè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. nonchè motivazione apparente, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

La Corte d’Appello avrebbe incentrato la propria attenzione sulla condotta alla guida della vittima, ma non avrebbe preso in considerazione quella del conducente della Opel Astra che marciava ad una velocità sostenuta che gli aveva impedito di arrestare la corsa e di effettuare una manovra di emergenza per evitare l’impatto con il ciclomotore, non avrebbe tenuto conto del fatto che, per superare la presunzione di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, ciascuno dei due conducenti avrebbe dovuto dimostrare di avere tenuto un comportamento conforme al Codice della strada.

Il motivo è inammissibile.

E’ inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione di una serie di norme senza confrontarsi con la sentenza impugnata sì da far emergere l’errore imputato alla Corte territoriale nella ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge, procedere alla specifica indicazione dei punti della sentenza assunti in contrasto con la norma regolatrice della fattispecie o con la sua interpretazione fornita dalla giurisprudenza di questa Corte e/o dalla dottrina prevalente; non basta, infatti, come è avvenuto nel caso concreto, la mera indicazione nell’epigrafe del motivo di ricorso delle norme di diritto asseritamente violate, senza prospettare una valutazione comparativa tra la soluzione della sentenza, assunta come erronea, e quella reputata corretta, non risultando altrimenti consentito a questo Collegio di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione e senza sviluppare alcuna argomentazione a supporto della richiesta cassatoria.

4. Con il quarto motivo i ricorrenti rilevano la violazione e falsa applicazione degli artt. 433,2043,2056,1123,1226,2729 e 2697 c.c. e degli artt. 112,115,116 e 132 c.p.c.; nonchè la violazione degli artt. 2,3,1,22,27 e 32 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per avere la sentenza impugnata respinto, ritenendo che occorresse una prova rigorosa, la domanda di risarcimento del danno patrimoniale per perdita del contributo che la vittima, con loro convivente, avrebbe dato in futuro al mantenimento della famiglia. Secondo i ricorrenti il giudice avrebbe dovuto attivarsi onde inferire dal materiale probatorio acquisito la probabile esistenza di un danno patrimoniale futuro per come sollecitato con l’atto d’appello, considerando che all’epoca dei fatti la vittima aveva sedici anni, era in età scolare, era primogenito e convivente con la famiglia, che il padre svolgeva le mansioni di muratore, che la madre era casalinga, che del nucleo familiare facevano parte un altro fratello ed una sorella.

Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello non ha affatto escluso la possibilità di provare presuntivamente che la vittima avrebbe destinato una quota del proprio reddito alla famiglia, ma ha escluso che fossero stati allegati e provati i presupposti per determinare in via di inferenza logica che la famiglia avrebbe avuto bisogno di una parte del suo reddito.

La giurisprudenza di legittimità ritiene che il danno di cui si discute competa solo qualora appaia probabile – sulla base di oggettivi e ragionevoli criteri prognostici, rapportati al caso concreto, nonchè di parametri di regolarità causale – che il figlio, una volta inserito nel mondo del lavoro, avrebbe contribuito al sostentamento della famiglia di origine, tenuto conto della condizione economica dei genitori, della loro età, di quella del minore nonchè della prevedibile entità del reddito di costui, fermo, peraltro, che spetta pur sempre ei qui dicit l’onere di allegare e provare le predette circostanze (Cass. 12/07/2012, n. 11812; Cass. 28/08/2008, n. 18177). E di tali principi, consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, il giudice di merito ha fatto coerente e corretta applicazione.

5. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2,3,29,30,31 e 32 Cost., degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c., dell’art. 132 c.p.c., della L. n. 57 del 2001, art. 5, degli artt. 2,61,62,63 e 107 della Costituzione Europea; degli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, dell’art. 1 della Carta di Nizza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per non avere il giudice a quo non solo ristorato, ma neanche esaminato alcuna delle componenti del danno non patrimoniale, limitandosi ad applicare i valori delle tabelle milanesi sul danno da morte, senza considerare l’età della vittima, l’età e il sesso dei superstiti, il loro rapporto di parentela e di convivenza con la vittima, la composizione del nucleo familiare, le modalità di commissione dell’illecito.

Il motivo non merita accoglimento.

La Corte d’Appello ha correttamente applicato la giurisprudenza di questa Corte, ritenendo ammissibile in astratto l’adeguamento della liquidazione del danno determinata con il ricorso alla misura standardizzata compendiata nei valori delle tabelle di Milano, ma negandolo in concreto, in assenza di prova che ricorressero circostanze non comuni a quelle già prese in considerazione al fine di determinare la misura standard, per giustificare una personalizzazione di detto danno. Pur non disconoscendo la risarcibilità autonoma di un quid pluris rispetto al danno liquidato attraverso il metodo tabellare, al fine di evitare duplicazioni – la preoccupazione concordemente manifestata è quella di evitare il rischio di riconoscere alla vittima un ingiustificato arricchimento ascrivibile “direttamente” al riconoscimento di una liquidazione che sia il risultato della somma di poste risarcitorie che riguardino il medesimo pregiudizio ovvero derivante “indirettamente” dalla sopravvalutazione delle conseguenze della lesione occorsa – la Corte territoriale ha deciso in sintonia con la giurisprudenza di questa Corte che richiede la prova, anche per presunzioni, della ricorrenza di circostanze non comuni a quelle di un altro danneggiato a parità di condizioni che giustifichi la liquidazione, in aggiunta a quanto riconosciuto in misura standardizzata servendosi delle tabelle, di una posta di danno ulteriore onde assicurare accanto all’uniformità di base, con la valorizzazione del vissuto individuale del danneggiato, la realizzazione di una eguaglianza che sia anche sostanziale. Ebbene, tale prova è mancata secondo la Corte territoriale e a tale conclusione essa è giunta con un percorso logico-giuridico che non merita le censure rivoltele.

6. Con il sesto ed ultimo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1126,2043,2056 e 2059 c.c., dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per non avere la Corte d’Appello accolto la domanda di risarcimento del danno biologico iure hereditatis, pur non essendo la vittima deceduta nell’immediatezza del fatto lesivo, motivando tale decisione con il fatto che era stata allegata proprio la mancanza del presupposto, avendo invocato un noto indirizzo di legittimità che richiede per il consolidamento del diritto risarcitorio il passaggio di un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e la morte e lo stato di coscienza della vittima durante lo stesso.

E’ necessario ribadire che “in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass., Sez. Un., 22/07/2015, n. 15350).

Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida” (Cass. 23/10/2018 n. 26727).

In ogni caso, rimane esclusa l’indennizzabilità ex se del danno non patrimoniale da perdita della vita; e tale esclusione non vale a contraddire il riconoscimento del “diritto alla vita” di cui all’art. 2 CEDU, atteso che tale norma (pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene-vita) non detta specifiche prescrizioni sull’ambito e i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, nè, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela risarcitoria, il cui riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sè considerato (…)”: così in motivazione Cass. 11/11/219, n. 28989.

Nel caso di specie la Corte d’Appello è partita da un assunto errato, cioè che la vittima non fosse sopravvissuta per un lasso di tempo apprezzabile dopo l’evento lesivo, perchè l’incidente era avvenuto il 3 dicembre 2004 e la morte era intervenuta la mattina del 5 dicembre 2004. La decisione non è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, che si intende richiamare e ribadire, la quale ritiene che la persona che, ferita, non muoia immediatamente, può acquistare e trasmettere agli eredi il diritto al risarcimento di due pregiudizi: il danno biologico temporaneo, che di norma sussisterà solo per sopravvivenze superiori alle 24 ore (tale essendo la durata minima, per convenzione medico-legale, di apprezzabilità dell’invalidità temporanea), che andrà accertato senza riguardo alla circostanza se la vittima sia rimasta cosciente; ed il danno non patrimoniale consistito nella formido mortis, che andrà accertato caso per caso, e potrà sussistere solo nel caso in cui la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria sorte e della morte imminente (Cass. 05/07/2019, n. 18056).

Alla stregua di tali considerazioni, il motivo merita accoglimento nella parte in cui la Corte territoriale ha escluso la ricorrenza di un danno biologico temporaneo.

7. In conclusione, deve accogliersi parzialmente, per la parte relativa alla mancata liquidazione del danno biologico temporaneo, l’ultimo motivo di ricorso; gli altri motivi sono inammissibili. La sentenza va cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio della controversia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie parzialmente l’ultimo motivo di ricorso, dichiara inammissibili i restanti motivi; cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto, rimette la controversia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2020

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