Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21505 del 06/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 06/10/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 06/10/2020), n.21505

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 630-2019 proposto da:

D.T.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTRANTO, 18,

presso lo studio dell’avvocato ROSSELLA RAGO, rappresentato e difeso

dall’avvocato ANTONIO VITO VERTONE;

– ricorrente –

contro

AXA ASSICURAZIONI SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO TRIESTE 85, presso

lo studio dell’avvocato DONATELLA MAZZA, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIUSEPPE FAVALE;

– controricorrente –

contro

F.A., F.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 689/2017 della CORTE D’APPELLO di POTENZA del

21/812/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GORGONI

MARILENA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

D.T.M. ricorre per la cassazione della sentenza n. 689/2017 della Corte d’Appello di Potenza, pubblicata il 2 gennaio 218, articolando quattro motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso AXA Assicurazioni SPA.

Il ricorrente espone in fatto di aver riportato lesioni gravissime in conseguenza del sinistro che aveva coinvolto il motociclo Aprilia 125 di proprietà di F.A., condotto nell’occasione da F.G., a bordo del quale egli viaggiava come trasportato. F.G., in prossimità di una curva con visuale libera, perdeva il controllo del mezzo e rovinava al suolo, riportando, insieme con il trasportato, odierno ricorrente, gravi traumi. Ai fini che qui interessano D.T.M. veniva condotto presso l’ospedale San Carlo di Potenza, ove giungeva in stato di coma per grave trauma cranico, veniva ricoverato nella divisione di rianimazione, quindi, in quella di neurochirurgia; in seguito, a causa della condizione di stato vegetativo post traumatico, veniva ricoverato in una casa di cura di alta specializzazione riabilitativa per oltre tre mesi; uscito dallo stato di coma continuava a sottoporsi a controlli medici ed a seguire le terapie necessarie per tornare alla normalità.

Allo scopo di vedersi risarciti i danni subiti, D.T.M. ricorreva al Tribunale di Potenza, chiedendo di accertare la responsabilità del conducente del motociclo e, di conseguenza, di accogliere la richiesta di condanna di F.A. e di F.G. in solido con la AXA Assicurazioni SPA, ognuno per quanto di ragione, al risarcimento.

F.A. e F.G. venivano dichiarati contumaci, si costituiva la compagnia di assicurazioni Axa che formulava rilievi in ordine alla esclusione della garanzia assicurativa e contestava la domanda attorea.

Il Tribunale di Potenza, reputando corresponsabile dei danni occorsigli D.T.M. che all’epoca dell’incidente aveva 14 anni e che quindi avrebbe dovuto sapere di dover indossare il casco, con sentenza n. 929/2013, accoglieva parzialmente le domande dell’attore e condannava in solido AXA assicurazioni, F.A. e F.G., a corrispondergli la somma di Euro 52.555,00 oltre agli interessi e alla rivalutazione, e all’esborso della somma di Euro 180,00, in aggiunta al pagamento delle spese di lite.

D.T.M. impugnava la predetta sentenza dinanzi alla Corte d’Appello di Potenza, chiedendo che fosse dichiarata l’esclusiva responsabilità nella causazione del sinistro di F.G., conducente del motociclo, e che, di conseguenza, gli appellati fossero condannati a risarcirgli i danni patrimoniali subiti, in termini di danno emergente, quantificato in Euro 360,00, e di lucro cessante, pari ad Euro 20.509,71, ovvero da determinare in via equitativa, da moltiplicare per gli anni di mancato guadagno, oltre ai danni alla persona quantificabili nella somma di Euro 104.750,00 o in quella ritenuta di giustizia, al netto degli interessi e della rivalutazione, con l’aggiunta del danno morale da liquidarsi con criterio equitativo.

La Corte d’Appello di Potenza respingeva l’appello e condannava l’appellante alla rifusione, in favore della Axa Assicurazioni, delle spese di lite.

Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “la violazione e falsa applicazione degli artt. 1227 e 2054 c.c., degli artt. 115,116 e 232 c.p.c. e dei principi e delle norme che regolano la valutazione delle prove nonchè del codice delle assicurazioni, art. 141, anche in contrasto con i precedenti sul tema”.

L’errore attribuito alla sentenza gravata è quello di aver ritenuto che la cooperazione colposa nella determinazione del sinistro non potesse essere identificata preventivamente quando il sinistro era soltanto eventuale perchè il fatto colposo del terzo danneggiato per assumere rilievo, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, avrebbe dovuto connettersi causalmente all’evento dannoso, giacchè diversamente opinando si giungerebbe ad attrarre la responsabilità nell’orbita della sanzione per violazione di norme giuridiche ovvero della sanzione di una condotta per la sua natura intrinseca, prescindendo dagli effetti.

Il motivo è inammissibile.

Le argomentazioni del ricorrente non sono in grado di scalfire la motivazione della sentenza nè in verità si dimostrano capaci di coglierne la ratio, basata sulla circostanza che il terzo trasportato, non indossando il casco o non avendolo allacciato, avesse, con il proprio comportamento colposo, concorso nella misura del 50% al verificarsi dell’evento dannoso occorsogli. In altri termini, la Corte territoriale aveva ritenuto che il terzo trasportato, danneggiato, avesse posto in essere una condotta materiale incidente nella produzione del danno stesso, al cui verificarsi egli aveva attivamente cooperato, nella misura individuata in sentenza: essendo la misura della partecipazione colposa al verificarsi di un evento di danno oggetto di un accertamento di fatto essa, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non può essere ridiscussa in questa sede.

2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza gravata per “violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226,2043,2056 e 2729 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 137; per insufficiente e illogica motivazione in relazione alla mancata quantificazione del danno patrimoniale da lucro cessante in contrasto anche con i precedenti sul tema”.

L’errore del Tribunale, prima, e della Corte d’Appello, poi, consisterebbe nell’aver respinto la domanda di riconoscimento del danno patrimoniale per difetto di prova della perdita della capacità lavorativa in ragione del fatto che, come risultava dagli atti, all’epoca del sinistro egli non era in età lavorativa e che continua a restare inoccupato e privo di reddito. La Corte d’Appello di Potenza, pur convenendo sul fatto che il primo giudice avesse errato nel respingere la domanda per difetto di prova della perdita della capacità lavorativa, non aveva comunque accolto la richiesta risarcitoria per difetto di allegazione degli elementi da cui, anche in via di inferenza logica, desumere la contrazione di reddito che l’odierno ricorrente avrebbe in futuro risentito: la Corte d’Appello aveva specificato che, pur essendo stata acquisita la prova che la vittima aveva conseguito il diploma di ragioniere, per soddisfare l’onere richiesto avrebbe dovuto allegare, ad esempio, che, a causa della lesione subita, era stato costretto a ritardare il compimento dei suoi studi e l’ingresso nel mondo del lavoro, mentre, invece, infondatamente l’appellante aveva invocato l’applicazione del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 137.

Infatti, secondo il ricorrente, accertata la invalidità permanente del 18%, il giudice avrebbe dovuto ritenere in via di presunzione provato il danno patrimoniale, dovendo egli svolgere una completa valutazione di tipo prognostico, poichè in tema di risarcimento del danno patrimoniale subito da una persona minore d’età o in età giovanile, la circostanza che il danneggiato all’epoca dell’incidente non avesse una specifica capacità professionale non avrebbe dovuto permettere, senza ulteriori indagini, di escludere il danno patrimoniale richiesto; al contrario, con giudizio prognostico, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare se e in che misura i postumi permanenti avrebbero ridotto la sua futura di capacità di guadagno, tenendo conto dell’età, della percentuale di invalidità medico legalmente accertata, della natura e della qualità dei postumi, dell’orientamento verso una determinata attività redditizia, degli studi, dell’educazione e delle presumibili opportunità di lavoro. E, in assenza di detti riscontri, avrebbe dovuto liquidare il danno, mediante ricorso al criterio del triplo della pensione sociale.

Innanzitutto, va ribadito che, secondo questa Corte, per la determinazione del danno patrimoniale è regola che non possa essere utilizzato il criterio del triplo della pensione sociale, di cui al D.L. n. 857 del 1976, art. 4, convertito dalla L. n. 39 del 1977, trattandosi di norma eccezionale, utilizzabile esclusivamente nell’ambito dell’azione diretta contro l’assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale. Pure in siffatto ambito, la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito di lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima e non il triplo della pensione sociale (oggi assegno sociale). Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi del codice delle assicurazioni, art. 137, è consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell’infortunio godeva di un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere il danneggiato sostanzialmente equiparabile a un disoccupato (Cass. 11/11/2019, n. 28988).

Va poi aggiunto che la Corte territoriale non ha escluso il risarcimento del danno patrimoniale per la mancata prova del reddito percepito, nè ha negato che la prova del danno non potesse essere data per presunzioni, ma ha ritenuto sfornita di allegazione la relativa domanda. Deve concludersi, dunque, che la censura del ricorrente non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata e si sostanzia in una inammissibile richiesta di diversa valutazione delle emergenze istruttorie.

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2056 e 2059 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per il mancato riconoscimento del danno morale che un’adeguata valutazione delle circostanze concrete avrebbe giustificato”.

La Corte d’Appello, tenuto conto che il giudice di prime cure aveva proceduto alla liquidazione del danno biologico con la massima personalizzazione possibile e che l’appellante non aveva allegato elementi in grado di superare la liquidazione equitativa già operata, la quale aveva tenuto conto della sofferenza patita dalla vittima ed aveva negato il risarcimento del danno morale. Ciò che il ricorrente lamenta è il fatto che la Corte territoriale non abbia tenuto conto della sua giovane età, della natura dei postumi derivanti dal sinistro, incidenti sulla sua capacità di deambulazione, dei riflessi determinati dal rallentamento evolutivo condizionanti la sua vita di relazione, neppure in sede di personalizzazione dei valori delle tabelle. Tuttavia, tale doglianza non trova riscontro nella decisione impugnata che, come si è detto, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in considerazione della massima personalizzazione possibile dei valori tabellari adottata dal giudice di prime cure, aveva negato il risarcimento di una voce di danno ulteriore in assenza di prova che la sofferenza interiore patita fosse maggiore di quella già riconosciuta alla vittima.

Il motivo è inammissibile, dunque, perchè per denunciare un errore occorre prima averlo individuato; vale a dire che, per pretendere la cassazione di una statuizione per error in iudicando, occorre, dopo aver identificato l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, procedere alla specifica indicazione dei punti della sentenza assunti in contrasto con la norma regolatrice della fattispecie o con la sua interpretazione fornita dalla giurisprudenza di questa Corte e/o dalla dottrina prevalente; non basta, invece, come è avvenuto nel caso concreto, la mera indicazione nell’epigrafe del motivo di ricorso delle norme di diritto asseritamente violate, senza prospettare una valutazione comparativa tra la soluzione della sentenza, assunta come erronea, e quella reputata corretta, non risultando altrimenti consentito a questo Collegio di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione.

Peraltro, va riconosciuto alla Corte d’Appello di aver fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità che, pur non escludendo la risarcibilità autonoma del danno morale, negata in tesi solo dall’accoglimento di una logica deformante di panbiologizzazione basata sull’idea che il danno biologico abbia carattere assorbente ed esclusivo di ogni altra voce di danno alla persona, al fine di evitare duplicazioni (la preoccupazione concordemente manifestata dai giudici è quella di evitare il rischio di riconoscere alla vittima un ingiustificato arricchimento ascrivibile “direttamente” al riconoscimento di una liquidazione che sia il risultato della somma di poste risarcitorie che riguardino il medesimo pregiudizio ovvero derivante “indirettamente” dalla sopravvalutazione delle conseguenze della lesione occorsa), soprattutto in ipotesi, come quella in esame – in cui in sede di liquidazione del danno biologico si sia tenuto conto della specificità del caso concreto, personalizzando la misura del risarcimento, al fine di adeguarvi la misura standardizzata risultante dall’applicazione del criterio del calcolo a punto di invalidità permanente e così soddisfacendo l’esigenza che il percorso liquidativo garantisca e coniughi l’uniformità pecuniaria di base con la valorizzazione del vissuto individuale del danneggiato in vista della realizzazione di una eguaglianza che sia anche sostanziale -ha richiesto la prova della ricorrenza di circostanze non comuni a quelle di un altro danneggiato di pari età e con la medesima invalidità permanente che giustifichi la liquidazione, in aggiunta al danno biologico, di una posta di danno ulteriore; posta di danno che non serva a compensare la vittima della generica sofferenza, la quale non può che accompagnarsi al danno biologico patito – è insito nel danno biologico il fatto di sottoporsi, ad esempio, ad uno o più interventi chirurgici, a terapie, a percorsi di riabilitazione, così come perdere o vedere ridotta e modificata la possibilità di intrattenere rapporti sociali (Cass. 27/03/2018, n. 7513; Cass. 07/11/2014, n. 23778; Cass. 23/09/2013, n. 21716; Cass. 16/05/2013, n. 11950) -ma che dipenda, ad esempio, da come il danneggiato percepisce la lesione nella relazione intimistica con sè stesso, dalle circostanze in cui si è manifestato l’illecito, dalla gravità della condotta dell’agente (Cass. 22/01/2015, n. 1126). Ebbene, tale prova che può essere data anche per presunzioni, nel caso di specie è mancata secondo la Corte territoriale, la quale a tale conclusione è giunta con un percorso logico-giuridico che non merita le censure, peraltro generiche, rivoltele dal ricorrente.

4.Con il quarto motivo il ricorrente rileva, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata in riferimento agli artt. 132,161,499 e 437 c.p.c. e alla L. n. 102 del 2006, art. 3.

Il provvedimento impugnato, a pagina 11 della motivazione, aveva giustificato la integrale compensazione delle spese del grado in ragione della reciproca soccombenza, mentre, invece, nel dispositivo aveva condannato l’appellante alla rifusione delle spese di lite del grado quantificate in Euro 6615,00, oltre a IVA e CPA e al rimborso forfettario.

In verità con riferimento alla liquidazione delle spese di lite, la sentenza contiene due motivazioni: l’una che, in ragione della reciproca soccombenza, giustifica la compensazione delle spese del grado, l’altra che regola le spese di lite in ragione della soccombenza e in applicazione del D.M. n. 55 del 2004 sulla base del valore del decisum: tra quest’ultima e il dispositivo vi è piena concordanza.

Va considerato, peraltro, che la statuizione relativa alla compensazione per reciproca soccombenza precede la trattazione dell’ultimo motivo di censura e che essa risulta del tutto inconciliabile con i fatti di causa, posto che l’appellante è l’unico soccombente. Ciò induce a ritenere che per mera disattenzione sia stato inserito a p. 11 della sentenza uno stralcio motivazionale non pertinente e decontestualizzato.

Il contrasto rilevato dal ricorrente tra motivazione e dispositivo, ad avviso del Collegio, non traducendosi in un contrasto insanabile che richiederebbe un’ulteriore attività decisoria, non incide sull’idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, non integra un vizio attinente alla portata concettuale e sostanziale della decisione, bensì un errore materiale, correggibile ai sensi degli artt. 287 e 391-bis c.p.c., trattandosi di ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, rilevabile ictu oculi dal testo del provvedimento, senza che venga in rilievo un’inammissibile attività di specificazione o di interpretazione della sentenza.

Il mezzo impugnatorio, quindi, non individua un vizio idoneo ad inficiare la sentenza, ma i presupposti per la richiesta di correzione di un errore materiale e come tale è inammissibile.

5. Dalla lettura della memoria depositata in vista dell’odierna Camera di Consiglio non emergono argomenti che inducano a rivedere le suesposte conclusioni: si invoca una diversa valutazione dei fatti di causa rispetto a quella fatta propria dal giudice a quo, si chiede l’impiego dell’art. 1226 c.c. per liquidare il danno, omettendo di considerare che la valutazione equitativa del giudice non può sopperire al difetto di prova dell’an debeatur, si insiste sulla richiesta di personalizzazione del danno riconosciuta dalla Corte territoriale, non si offrono argomenti per confutare che la Corte territoriale sia incorsa in un errore che non ha inficiato il provvedimento, affermando, del tutto fuori contesto, la compensazione delle spese di lite per soccombenza reciproca.

6. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

8. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della parte ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2020

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