Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21495 del 22/10/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 21495 Anno 2015
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: MAISANO GIULIO

SENTENZA
sul ricorso 5949-2010 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente 2015

contro

2884

STANZIANI BERTA;

i

– intimata –

avverso la sentenza n. 252/2009 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 22/10/2015

di

L’AQUILA,

depositata

il

04/03/2009

r.g.n.

1245/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 18/06/2015 dal Consigliere Dott. GIULIO
MAISANO;

ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO, che ha concluso
per inammissibilità o in subordine rigetto.

udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega verbale PESSI

S’vOLOillENT’D bEL

PRDee.0

Con sentenza del 4 marzo 2009 la Corte d’appello dell’Aquila, per quanto
ancora rileva in questa sede, ha confermato la sentenza del Tribunale di
Lanciano del 6 ottobre 2006 che aveva dichiarato la nullità del termine
apposto al contratto di lavoro stipulato da Poste Italiane s.p.a. con Stanziani
Berta ai sensi dell’art. 25 CCNL 11 gennaio 2001 “per esigenze di carattere

un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio”, ed ha
condannato Poste Italiane al pagamento delle retribuzioni detratto l’aliunde
perceptum. La Corte territoriale ha ritenuto infondata l’eccezione di
risoluzione del rapporto per mutuo consenso, non ritenendo sufficiente
soltanto l’elemento temporale a dimostrare la volontà risolutiva del
rapporto, ed ha considerato che l’onere di provare il rispetto della
percentuale di dipendenti per i quali è possibile l’assunzione a termine è a
carico di Poste Italiane che non aveva provveduto in modo adeguato a
fornire tale prova.
Poste Italiane ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza
affidato a quattro motivi illustrati da memoria.
Stanziani Berta è rimasta intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art.
132 cod. proc. civ. nonché omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art.
360, nn. 4 e 5 cod. proc. civ. In particolare si deduce la nullità della
sentenza per la mancata esposizione dei fatti di causa non essendo riportati
nemmeno gli estremi del contratto per cui è causa.
Con il secondo motivo si deduce violazione o falsa applicazione di norme
di diritto con riferimento all’art. 1372, commi 1 e 2 cod. civ., nonché
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, mi. 3 e 5 cod. proc. civ.

straordinario conseguenti ai processi di riorganizzazione ivi comprendendo

con riferimento al rigetto dell’eccezione di risoluzione del rapporto per
mutuo consenso. In particolare si deduce che la lunghezza del periodo di
tempo trascorso dalla cessazione del rapporto, confrontato alla brevità della
durata del medesimo, e il comportamento della lavoratrice, non sarebbero
stati adeguatamente considerati dalla Corte territoriale ai fini in esame.

2697 cod. civ. ai sensi degli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., nonché omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il
giudizio ex art. 360, nn. 3 e 5 cod. proc. civ. con riferimento all’affermata
carenza di prova sul rispetto della percentuale di lavoratori dipendenti per i
quali è consentita l’assunzione a termine. In particolare si assume che la
prova fornita, costituita da tabulati relativi al personale, sarebbe al riguardo
sufficiente.
Con il quarto motivo si lamenta violazione o falsa applicazione di norme
di diritto; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione con
riferimento al riconoscimento del danno equivalente alle retribuzioni
maturate dalla data della messa in mora, e che non sarebbe stato provato
dalla lavoratrice.
Il primo motivo è infondato. La carente esposizione dei fatti non può
costituire, nel caso in esame, motivo di nullità della sentenza in quanto
l’atto processuale costituito dalla sentenza stessa ha raggiunto il suo scopo
come comprovato dalle stesse compiute difese e censure mosse dalla
ricorrente in questa sede. Per cui va applicato anche riguardo alle sentenze
il dettato di cui al terzo comma dell’art. 156 cod. proc. civ. secondo cui la
nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui
è destinato.
Il secondo motivo è parimente infondato. Come ripetutamente affermato
da questa Corte (da ultimo Cass. 28 gennaio 2014 n. 1780), nel giudizio
instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto

L

Con il terzo motivo si deduce violazione ed erronea applicazione dell’art.

di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima
apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa
configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario
che sia accertata, sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la
conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento

comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni
rapporto lavorativo, essendo il solo decorso del tempo o la semplice inerzia
del lavoratore, successiva alla scadenza del termine, insufficienti a ritenere
sussistente la risoluzione per mutuo consenso, costituente pur sempre una
manifestazione negoziale, che, seppur tacita, non può essere configurata su
un piano esclusivamente oggettivo, in conseguenza della mera cessazione
della funzionalità di fatto del rapporto di lavoro. Questo collegio, intende
dare continuità a tale orientamento considerando che non risulta accertata,
nel caso in esame, tale chiara e certa comune volontà delle parti medesime
di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, accertamento,
peraltro, riservato al giudice di merito.
Il terzo motivo, articolato su più punti, è pure infondato. Assume anzitutto la
ricorrente la violazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova,
dovendo la stessa far carico sul lavoratore che abbia eccepito la nullità della
clausola appositiva del termine; in linea con la più recente e condivisa
giurisprudenza di questa Corte, deve invece ritenersi che la prova al riguardo
grava sulla parte datoriale, in base alla regola esplicitata dall’art. 3 legge n.
230/62, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva
esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al
contratto di lavoro (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 839/2010; 13536/2012;
20398/2012; 3102/2013; 3028/2014); risulta così superato il contrario
orientamento espresso da Cass., n. 17674/2002, richiamata dalla ricorrente.

tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative, una chiara e certa

Deduce ancora la ricorrente che la Corte territoriale, ove avesse ritenuto
insufficiente la documentazione prodotta dalla datrice di lavoro, avrebbe
dovuto disporre una CTU, avvalendosi dei poteri istruttori officiosi di cui agli
artt. 421 e 437 cpc; anche tale profilo di doglianza non può essere accolto,
posto che il potere dovere del giudice di cui agli artt. 421 e 437 cpc presuppone

dell’assunto che si vorrebbe provare, ossia, in altri termini, è diretto a vincere i
dubbi residuati dalle risultanze istruttorie ritualmente acquisite agli atti del
giudizio (cfi-, ex plurimis e fra le più recenti, Cass., n. 18924/2012), e non già
quando la circostanza rilevante ai fini del decidere sia risultata sfornita di
prova; né, comunque, la ricorrente indica se e in che termini la Corte
territoriale sarebbe stata sollecitata all’esercizio dei propri poteri istruttori
officiosi (cfr, Cass., n. 14731/2006).
Infine la ricorrente assume di avere dimostrato, con la produzione dei
prospetti allegati alla memoria di primo grado, il rispetto della percentuale; tale
profilo di doglianza è tuttavia inammissibile per plurime concorrenti ragioni:
siccome riferibile ad un vizio di motivazione (art. 360, comma 1, n. 5, cpc), ai
sensi dell’art. 366 bis cpc (applicabile ratione temporis al presente giudizio,
essendo stata la sentenza impugnata depositata il 4.3.1999), la censura avrebbe
dovuto essere corredata, secondo l’interpretazione datane da questa Corte di
legittimità, da un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne
circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in
sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr,

ex plurimis, Cass., SU, n. 20603/2007); tale momento di sintesi, tuttavia, nella
specie non è stato formulato; risulta altresì violato il principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stato ivi riportato il
contenuto dei richiamati prospetti, dei quali, pertanto, non è dato comprendere
la valenza probatoria e la decisività; la censura non svolge una specifica
argomentazione critica rispetto alle ragioni per le quali la Corte territoriale ha

l’esistenza di piste probatorie non sufficienti a fornire compiuta dimostrazione

ritenuto inidoneo alla prova il dimesso prospetto riepilogativo, limitandosi a
richiedere un riesame diretto della documentazione, il che non è consentito in
questa sede di legittimità. Nei distinti profili in cui si articola, il mezzo
all’esame non può dunque essere accolto.
Il quarto motivo, riferito alle conseguenze economiche, è inammissibile. La

ricordato necessario momento di sintesi, il che determina l’inammissibilità del
relativo profilo di censura. In ordine alle denunciate violazioni di norme di
diritto, la ricorrente ha invece formulato il seguente quesito di diritto: “Dica la
Corte se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in
applicazione del principio generale di effettività e di corrispettività delle
prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retributivo pur in
assenza di attività lavorativa”.
In base all’art. 366 bis cod. proc. civ., nei casi previsti dall’art. 360, comma 1,
nn. 1), 2), 3) e 4), cod. proc. civ., l’illustrazione di ciascun motivo si deve
concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di
diritto; secondo l’orientamento di questa Corte, tale quesito di diritto, deve
consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al
vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco
l’accoglimento od il rigetto del gravame (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n.

ricorrente, infatti, non ha formulato, ai sensi dell’art. 366 bis, cpc, il già

20360/2007). In particolare deve considerarsi che il quesito di diritto imposto
dall’art. 366 bis cod. proc. civ.„ rispondendo all’esigenza di soddisfare
l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è
pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia
valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Suprema
Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie,
costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e
l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera o

richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità
in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento
dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte
e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una
regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi

sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 11535/2008; 19892/2007).
Conseguentemente è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto
quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente
rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in
modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal
giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un
inammissibile accertamento di fatto; od, infine, sia formulato in modo del tutto
generico (cfr, ex plurimis, Cass., SU, 20360/2007, cit.).
Alla luce di tali principi deve rilevarsi che il quesito di diritto, nel caso
all’esame, non risulta validamente formulato, sia perché è generico, non
contenendo alcun preciso riferimento alla fattispecie rispetto alla quale
dovrebbe trovare applicazione; sia perché non individua una regula iuris
alternativa a quella seguita dalla sentenza impugnata, che proprio in
considerazione dell’avvenuta offerta della prestazione lavorativa e del
conseguente rifiuto della parte datoriale ha riconosciuto il diritto al
risarcimento del danno, detraendo altresì l’ aliunde perceptum.
Il quarto motivo, nei distinti profili in cui si articola, deve quindi ritenersi
inammissibile.
Con la memoria illustrativa la ricorrente ha altresì invocato l’applicazione
delle disposizioni, costituenti ius superveniens, di cui all’art. 32, commi 5, 6 e
7, legge n. 183/10. Va considerato, in via di principio, che costituisce
condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius

ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la

superveniens, che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova
disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche
modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in
ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli
specifici motivi di ricorso (cfr, Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere
sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria. Nel caso
in esame il motivo che investe il tema al quale è riferibile la disciplina di cui
all’art. 32, commi 5 0 , 60 e 7°, legge n. 183/10 è il quarto già esaminato, il
quale, come evidenziato, è inammissibile. Deve quindi convenirsi per
l’inapplicabilità nel presente giudizio del ricordato ius superveniens.
In definitiva il ricorso va rigettato.
Nulla si dispone sulle spese soccombendo l’unica parte costituita.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;
Nulla sulle spese.
Così deciso in Roma il 18 giugno 2015.

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche

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