Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2149 del 05/02/2015


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 2149 Anno 2015
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: ARIENZO ROSA

ORDINANZA
sul ricorso 4612-2012 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA 97103880585 – società con socio unico in
persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale
rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
PO 25/B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la
rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro
SCIOTTI ROSELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
FLAMINIA 195, presso lo studio dell’avvocato SERGIO VACIRCA,
che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO
LALLI, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –

3TA

Data pubblicazione: 05/02/2015

avverso la sentenza n. 89/2011 della CORTE D’APPELLO di
L’AQUILA del 27.1.2011, depositata 1’8/02/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
04/12/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO.
FATTO E DIRITTO
dicembre 2014, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente
relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
“La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza dell’ 8.2.2011, in parziale
accoglimento del gravame della società Poste Italiane ed in parziale
riforma della sentenza del Tribunale di Chieti, – per il resto confermata —
condannava la società a corrispondere alla Sciotti, a titolo di danno, le
retribuzioni maturate dalla predetta dalla data del tentativo obbligatorio
di conciliazione, detratto l’aliunde perceptum. Nel pervenire a tale
decisione, la Corte osservava che era stata esercitata la prerogativa di
introdurre nuove ipotesi di apposizione del termine al contratto di lavoro
conferita alla contrattazione collettiva dall’art. 23 I. 56/87, ma che non
era stato provato dalla società il rispetto della clausola di
contingentamento per l’apposizione del termine a contratto stipulato per
necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per
feri con decorrenza dal 13.8.198 al 30.9.1998, posto che la stessa non
aveva dimostrato l’esistenza del requisito in questione con riferimento
all’assunzione della Sciotti. Osservava, poi, che era destituita di
fondamento l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso
non potendo attribuirsi effetti negoziali alla mera inerzia del lavoratore.
Infine, in ordine all’ammontare del risarcimento del danno, rilevava che
l’appellante aveva prodotto documentazione attestante la percezione di
redditi da lavoro da parte della lavoratrice, successivamente alla messa
in mora, con la conseguenza che doveva detrarsi quanto percepito dalle
altre occupazioni.
Non reputava, invece, di accedere alla richiesta di applicazione dello ius
superveniens di cui all’art. 32 I. 183/2010, ritenendo che le disposizioni
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 4

di cui ai commi 5 e 6 fossero applicabili soltanto ai giudizi di primo
grado.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la società affidando
l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, la Sciotti.
Con il primo motivo, la società denunzia violazione e/o falsa

motivazionale e nullità del procedimento, sostenendo l’erroneità della
decisione che non aveva attribuito valenza risolutoria alla carenza di
interesse dimostrata dalla lavoratrice al ripristino del rapporto. Con il
secondo motivo, denunzia violazione ed erronea applicazione dell’art.
2697 c. c. ed ai sensi degli artt. 421 e 437 cpc, nonché omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il
giudizio, sostenendo che incombeva al lavoratore provare le ragioni
della dedotta illegittimità del contratto e che in ogni caso ove ritenuta
insufficiente la documentazione prodotta, dal datore di lavoro doveva
essere disposta una consulenza contabile d’ufficio in virtù dei doveripoteri istruttori di cui alle citate norme di rito. Con il terzo motivo, la
società ricorrente censura la sentenza per avere ancorato il risarcimento
alla data del tentativo obbligatorio di conciliazione e con il quarto motivo
invoca l’applicazione dello ius superveniens di cui all’art. 32 I. 183/2010.
Il primo motivo deve essere disatteso. Ed invero, è sufficiente
osservare, in conformità alla giurisprudenza costante di questa Corte
che, nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del
lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé
insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per
mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale
risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di
tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di
porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi,
peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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applicazione dell’art. 1372, commi 1 e 2, c. c., nonché vizio

termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni
che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo
determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto
per contrasto con norme imperative ex artt. 1418 e 1419, comma 2, cod.
civ. di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti

conversione “ex lege” del rapporto a tempo determinato cui era stato
apposto illegittimamente il termine (cfr., tra le tante, Cass. 15.11.2010 n.
23057, Cass. 2279/2010 e, da ultimo, Cass. 8669/2013, Cass. 7455,
7456, 7817/2014).
Quanto al secondo, deve prendersi atto che il contratto a termine del
13.8.1998 fu motivato dalla necessità di espletamento del servizio in
concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre, in
forza di fattispecie prevista esplicitamente dall’art. 8, comma 2, del
c.c.n.l. 26.11.94.
Al riguardo deve osservarsi che l’accordo del 25 settembre 1997,
nell’aggiungere l’ipotesi delle esigenze eccezionali, ha confermato la
volontà congiunta delle parti stipulanti di ritenere tuttora legittimamente
operanti le altre ipotesi, tra cui quella dell’assenza per ferie, previste
dall’art. 8 del c.c.n.l. del 1994; tale volontà di ritenere vigente
quest’ultima ipotesi a prescindere da limitazioni di carattere temporale
ha trovato esplicita conferma nell’accordo 27 aprile 1998 che estende al
mese di maggio, limitatamente all’anno 1998, il periodo di ferie di cui
all’art. 8 del c.c.n.l. del 1994. L’estensione al mese di maggio 1998 del
periodo di ferie previsto dall’art. 8 del c.c.n.l. del 1994 (inizialmente
fissato al periodo giugno – settembre) dimostra l’implicito riconoscimento
dell’operatività dell’ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a
termine per necessità di espletamento del servizio in concomitanza di
assenze per ferie anche per i successivi mesi estivi del 1998 (e per i
successivi periodi feriali), a prescindere da ulteriori accordi autorizzatori.
La suddetta interpretazione non si pone in contrasto con la norma di cui
all’art. 87 del c.c.n.l. del 1994, la quale fa salve le diverse decorrenze
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla

fissate per singoli istituti. Questa Corte intende poi ribadire la propria
giurisprudenza, formatasi nel vigore dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,
nella sua originaria formulazione (cfr., fra le ultime, Cass. 2 marzo 2007
n. 4933), la quale, con riferimento ad una fattispecie simile a quella in
esame, ha cassato la sentenza di merito che aveva affermato la

esigenze aziendali; siffatta sentenza, ad avviso della S.C., era infatti
viziata da violazione di norme di diritto e da un vizio di interpretazione
della normativa collettiva; la violazione di norme di diritto è stata
individuata nella statuizione con la quale la sentenza di merito aveva
negato che l’ipotesi di contratto a termine introdotta dalla contrattazione
collettiva fosse del tutto autonoma rispetto alla previsione legale del
termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie; è stato
rilevato in proposito che siffatta pronuncia del giudice del merito si
poneva in contrasto col principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite
della Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588; in base al
suddetto principio, infatti, la L. febbraio 1987, n. 56, art. 23, che
demanda alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove
ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro,
configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i
quali, pertanto, non sono vincolati alla individuazione di figure di
contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge
(cfr., in tali termini, Cass. 25934/2009).
Il quadro normativo di riferimento impone l’esame del significato delle
espressioni usate dalle parti stipulanti, ed in particolare un’indagine sulle
ragioni dell’uso di una formula diversa da quella della legge, priva di
riferimenti alla sostituzione di dipendenti assenti, sostituiti dalla
precisazione del periodo per il quale l’autorizzazione è concessa (pur
potendo le ferie essere fruite in periodi diversi), onde verificare se la
necessità di espletamento del servizio faccia riferimento a circostanze
oggettive, o esprima solo le ragioni che hanno indotto a prevedere
questa ipotesi di assunzione a termine, nell’intento di considerarla
sempre sussistente nel periodo stabilito. In correlazione dell’uso
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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necessità di uno specifico collegamento fra il singolo contratto e le

dell’espressione in concomitanza questa Suprema Corte (cfr. ad
esempio Cass. 6 dicembre 2005 n. 26678) ha confermato la decisione
di merito che, decidendo sulla stessa fattispecie, aveva ritenuto l’ipotesi
di contratto a termine introdotta dalla contrattazione collettiva del tutto
autonoma rispetto alla previsione legale del termine apposto per

conferita dal contratto collettivo nel senso che l’unico presupposto per la
sua operatività fosse costituita dall’assunzione nel periodo in cui, di
norma, i dipendenti fruiscono delle ferie (cfr. Cass. 25934/2009 cit. e
Cass. 1042/2010).
Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, “nel
regime di cui alla legge 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle
organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima
apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23
alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere
assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è
sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine,
occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità
dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi
individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei lavoratori
assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto
percentuale tra lavoratori stabili e a termine. L’onere della prova
dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base
alle regole di cui all’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, secondo cui
incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle
condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di
lavoro.” (v. Cass. 19-1-2010 n. 839 e numerose successive).
Inammissibile risulta la censura relativa al mancato esercizio di poteri
istruttori d’ufficio in tema di prova dell’osservanza della percentuale dei
lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati
dall’azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 19 gennaio 2010 n.
839 e, da ultimo, Cass. 19 gennaio 2013 n. 701) ha ripetutamente
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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sostituire dipendenti assenti per ferie e interpretato l’autorizzazione

precisato il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in base alla
regola esplicitata dall’art. 3 della legge n. 230 del 1962, secondo cui
incombe al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’obiettiva esistenza
delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto
di lavoro. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tale

Quanto alla conclusione della Corte territoriale circa la mancanza di
prova del rispetto del requisito del rispetto della clausola di
contingentamento, essa è basata su motivazione priva di vizi logici e
quindi insindacabile in questa sede di legittimità.
Infine, con riferimento alla censura concernente il mancato esercizio, da
parte della Corte territoriale, dei poteri istruttori ufficiosi, deve ricordarsi
che, secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità
(cfr., ad esempio, Cass. 22 luglio 2009 n. 17102), nel rito del lavoro,
l’esercizio di tali poteri, previsti dall’art. 421 cod. proc. civ. è del tutto
discrezionale e come tale sottratto al sindacato di legittimità; in ogni
caso tali poteri non possono sopperire alle carenze probatorie delle
parti, così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti
medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d’indagine e di
acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale.
E’ stato altresì precisato (cfr. Cass. 10 gennaio 2006 n. 154) che, in
ogni caso, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello
presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di
colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione
per inottemperanza ad oneri procedurali, l’opportunità di integrare un
quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti,
l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti
inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza
probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare
eventuali lacune delle risultanze di causa.
Il quarto motivo è, invece, fondato, così rimanendo assorbito il terzo.
Come affermato da questa Corte (Cass., n. 3056 del 2012 e da
numerose altre successive), lo “ius superveniens” costituito dalla L. n.
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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principio.

183 del 2010, ex art. 32, commi 5, 6 e 7, è applicabile nel giudizio
pendente in grado di legittimità qualora pertinente alle questioni dedotte
nel ricorso per cassazione. L’indennità ivi prevista configura, alla luce
dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del

dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla
novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di
lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore
(senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde perceptum”), trattandosi
di indennità “forfettizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla
nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio” (dalla scadenza
del termine alla sentenza di conversione). E’ appena il caso di rilevare
che i vari profili di incostituzionalità dell’art. 32 cit. e di contrasto con le
norme CEDU evidenziati nel controricorso sono stati già oggetto del
vaglio della Corte Costituzionale nella menzionata decisione n.
303/2011.
Per tutto quanto sopra considerato, si propone, ex art. 375 cod.
proc. civ., n. 5, l’accoglimento del ricorso nei termini di cui sopra con
cassazione della impugnata sentenza e rinvio alla Corte di Appello la
quale prowederà nella specie anche ai sensi di quanto disposto in rito
dal citato art. 32, comma 7.
Sono seguite le rituali comunicazione e notifica della suddetta
relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in
Camera di consiglio. La società ricorrente ha depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Il Collegio ritiene di condividere il contenuto e le conclusioni della
riportata relazione, con conseguente rigetto dei primi due motivi ed
accoglimento del quarto, assorbito il terzo, cassazione della decisione
impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio alla Corte designata
anche per la determinazione delle spese del presente giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
Ric. 2012 n. 04612 sez. ML – ud. 04-12-2014
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datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo

La Corte rigetta i primi due motivi, accoglie il quarto, assorbito il terzo,
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia,
anche per le spese, alla Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2014

ll Presidente

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